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PIO XI E IL MESSICO
tratto dal n. 02 - 1998

RICORSI STORICI. La strage di Acteal in Chiapas come la persecuzione dei cristeros

«La ferma e generosa resistenza degli oppressi»(Pio XI)


Gli interventi, ancora oggi attuali, di papa Ratti negli anni della persecuzione anticattolica. Che portò alla spontanea rivolta armata dei campesinos


di Giovanni Ricciardi


La strage di Natale dei 45 indios raccolti in preghiera ad Acteal sembra far rivivere i tragici anni della recente storia messicana, dimenticata dai più, ma ancora viva nelle bellissime pagine de Il potere e la gloria di Graham Greene. Tra il 1917 e il 1940 ebbe luogo in Messico una sistematica persecuzione contro la Chiesa di Gesù Cristo, a partire dalla Costituzione decretata a Queretaro il 3 febbraio del 1917.
Dopo la rivoluzione del 1911 e la cacciata di Porfirio Díaz, che aveva retto il Paese per quasi trent’anni, detennero il potere in Messico tre forti personalità, tutte ostili alla Chiesa: Venustiano Carranza (1914-1920, assassinato nel 1920), Alvaro Obregón (1920-1924, assassinato nel 1928 subito dopo la sua rielezione a presidente), Plutarco Elías Calles (1924-1928, morto negli Stati Uniti nel 1940). Sotto il loro governo, il tentativo di estromettere la Chiesa da qualsiasi tipo di presenza nella vita del Paese aveva assunto i caratteri di una sistematica vessazione che colpì tutto il corpo ecclesiale, dai vescovi – non esclusi i delegati apostolici – fino al popolo, quei campesinos che furono spontanei protagonisti di una rivolta armata passata alla storia con il nome di cristiada.
La Costituzione di Querétaro conteneva una serie di disposizioni che miravano al totale annullamento della presenza della Chiesa nella società messicana: divieto assoluto per gli ordini religiosi di operare nell’ambito dell’istruzione scolastica; abolizione degli stessi voti religiosi, considerati lesivi della libertà dell’uomo; confisca totale da parte dello Stato dei beni ecclesiastici; riconoscimento del solo matrimonio civile; espulsione del clero non indigeno; privazione dei diritti civili e politici per tutti i sacerdoti, compresi quelli messicani. Dopo un primo periodo in cui l’applicazione delle norme fu blanda e non sistematica, si giunse alla legge del 6 gennaio 1926, con la quale il presidente Calles volle dare alla Costituzione un’efficacia letterale.
Dopo l’espulsione del delegato apostolico Caruana, avvenuta pochi giorni dopo la promulgazione della legge del 6 gennaio 1926, Pio XI intervenne ufficialmente per la prima volta con l’epistola apostolica Paterna sane rivolta all’episcopato messicano, che reca la data del 2 febbraio 1926. Esprimendo una crescente preoccupazione, papa Ratti cercava di indicare alla Chiesa locale direttive concrete di resistenza: «Vi rivolgiamo pertanto ora la Nostra paterna parola, per darvi quelle istruzioni che voi da Noi desiderate nelle presenti difficoltà e che si riassumono nell’esortarvi a un concorde e disciplinato lavoro di “azione cattolica” fra i fedeli affidati alle vostre zelanti cure. Abbiamo detto “azione cattolica”, perché nelle circostanze difficili in cui siete, è più che mai necessario, venerabili fratelli, che voi e tutto il vostro clero come pure le associazioni cattoliche si mantengano completamente fuori da ogni partito politico, anche per non offrire pretesto agli avversari di confondere la vostra fede religiosa con un partito o una fazione qualsiasi. Perciò nella Repubblica del Messico, i cattolici, come tali, non costituiranno un partito politico che si denomini cattolico». Per il Papa non c’erano dubbi: in Messico era in gioco la difesa della stessa fede. E non sbagliava. Il diplomatico francese Ernest Lagarde incontrò in quei giorni il presidente Calles riportandone un’impressione altrettanto chiara: «Era deciso» scrive «a farla finita con la Chiesa e a sbarazzare da essa il Paese una volta per tutte. In qualche momento il presidente Calles, nonostante il suo realismo e la sua freddezza, mi diede l’impressione di affrontare la questione religiosa con uno spirito apocalittico e mistico».
Si giunse così alla nuova legge del 14 giugno dello stesso anno, passata alla storia col nome di “legge Calles”: proibita ogni manifestazione religiosa ed ogni abito ecclesiastico fuori dalle chiese, si concedeva il permesso di svolgere funzioni di culto solo ad un ristretto numero di sacerdoti indicati dallo Stato.
A questa ennesima provocazione la Chiesa rispose sfidando apertamente il governo con quello che potremmo definire lo sciopero del culto pubblico. Dal 31 luglio il culto pubblico, all’interno delle chiese, fu sospeso e i vescovi dichiararono che avrebbero dato i sacramenti ai fedeli solo al di fuori di esse. «Allo storico viene in mente» scrive Giacomo Martina sj «l’atteggiamento del clero e del vescovo di Roma, Sisto II, durante la persecuzione di Valeriano nel 258: al divieto di riunione nei cimiteri, Sisto II rispose con una solenne celebrazione nelle catacombe di San Callisto, che si concluse col suo arresto e la sua immediata decapitazione». Il ministro dell’Interno del governo messicano di allora così commentò la decisione: «La Chiesa ha preso la decisione di andare più in là dei nostri desideri, decidendo la sospensione del culto. Niente ci potrebbe essere più gradito di una misura che favorirà il progresso che desideriamo, l’indifferenza e l’incredulità. Teniamo il clero per il collo e faremo di tutto per strangolarlo. La religione è un negozio immorale e bisogna regolamentarla».
Il Papa approvò la decisione dei vescovi, confermando l’appoggio alla Chiesa messicana con un solenne atto ufficiale: l’enciclica del 18 novembre, Iniquis afflictisque era ora rivolta a tutta la Chiesa. Dopo aver chiesto a tutto il mondo preghiere per i cattolici del Messico, il Papa aggiungeva: «Né vi sembri, venerabili fratelli, di avere indetto tali preghiere invano, vedendo che il governo messicano, per il suo odio implacabile contro la religione, ha continuato ad applicare con durezza e violenza anche maggiore gli iniqui suoi editti, perché in realtà il clero e la moltitudine di quei fedeli, sorretti da più abbondante effusione di grazia divina nella paziente loro resistenza, hanno dato tale esemplare spettacolo da meritarsi a buon diritto che Noi, con un solenne documento della Nostra autorità apostolica, lo rileviamo al cospetto di tutto il mondo cattolico».
Il documento ripercorre la storia della persecuzione e addita al mondo l’esempio di fedeltà del popolo messicano, in modo particolare dei sacerdoti e dei laici: «Noi li vediamo» scrive Pio XI «questi sacerdoti stare fra loro unitissimi e obbedire di cuore e con rispetto ai comandi dei loro prelati, quantunque ciò non vada per lo più senza loro grave danno; vivere del sacro ministero, ed essendo poveri e non avendo di che sostentare la Chiesa, sopportare la povertà e la miseria con fortezza; celebrare il santo sacrificio in privato; provvedere con tutte le forze alle necessità spirituali dei fedeli e alimentare e stimolare in tutti attorno a sé la fiamma della pietà. […] Essi d’altra parte, non hanno esitato ad affrontare, dove occorresse, il carcere e la stessa morte con volto sereno e animo coraggioso».
E in effetti le cifre della persecuzione non lasciano adito a dubbi. Negli anni immediatamente successivi alla “legge Calles”, i sacerdoti assassinati o fucilati dal governo furono una novantina, senza contare quelli espulsi o costretti alla fuga. Tra di essi, il gesuita padre Augustin Pro, fucilato nel 1927 e beatificato da papa Wojtyla nel 1988.
Nel frattempo i cattolici si organizzarono nella Liga nacional defensora de la libertad religiosa, sostenuta dall’episcopato e dalla Santa Sede, mentre tra i contadini la repressione anticattolica provocò una vera e propria insurrezione armata. In pochi anni, dal 1926 al 1929, il numero degli insorti arrivò a trenta-quarantamila. I cristeros arrivarono a controllare intere regioni del Paese. «I cristeros» scrive ancora padre Martina «erano mossi da motivi religiosi, ma anche sociali, dalla preoccupazione di difendere il vero bene dei campesinos, troppo trascurati dal governo; religione e questioni socioeconomiche si giustapponevano senza contrasti».
o l’intervento di vescovi concilianti e dell’ambasciatore americano Morrow, amico di Calles, volle rassicurare la Chiesa sulle sue intenzioni. «Si trattò» osserva padre Martina «non di un trattato di pace fra due potenze ma di una semplice dichiarazione stampa da parte del nuovo presidente messicano, Portes Gil: il governo non voleva né distruggere né attaccare la Chiesa ma solo applicare le leggi esistenti; la registrazione dei sacerdoti riconosciuti dal governo come addetti al culto costituiva un semplice atto amministrativo, senza alcuna pretesa di invadere le attribuzioni della gerarchia». La Chiesa, consapevole di non poter continuare all’infinito nella sospensione del culto pubblico, decise di dare fiducia alle promesse del governo, che furono invece disattese. I vescovi persuasero i cristeros a consegnare le armi; per tutta risposta, molti di loro nei mesi seguenti vennero fucilati. Si calcola in cinquecento circa il numero dei capi della rivolta passati per le armi dopo l’accordo. Nel settembre del 1932 Pio XI intervenne nuovamente sulla questione messicana con un’enciclica che già nel titolo esprime l’amarezza per la situazione; l’Acerba animi magnitudo ripercorre le tappe della storia di quegli anni, invitando i cattolici ad una nuova resistenza: «Mentre altri governi in questi ultimi tempi gareggiavano nel riannodare accordi con la Santa Sede, quello del Messico precludeva ogni via a intese, anzi nel modo più inaspettato veniva meno alle promesse, poco prima fatte a Noi per iscritto, e bandiva ripetutamente i Nostri rappresentanti, mostrando con ciò quali fossero le sue intenzioni verso la Chiesa. […] Di fronte alla ferma e generosa resistenza degli oppressi, il governo messicano cominciò a far intendere in diversi modi che non sarebbe stato alieno dal venire a intese, pur di uscire da uno stato di cose che esso non poteva modificare in suo favore. A questo punto, benché ammaestrati da una dolorosa esperienza a non fare affidamento su simili promesse, dovemmo tuttavia domandarci se fosse conveniente al bene delle anime che si continuasse nella sospensione del culto in pubblico». Parlando della «ferma e generosa resistenza degli oppressi» il Pontefice non poteva, per motivi di prudenza, accennare ai cristeros, ma quando osserva che «nonostante le esplicite promesse» dopo l’accordo del 1929 «furono abbandonati alle più crudeli vendette degli avversari sacerdoti e laici che con fermezza avevano difeso la fede» fa un chiaro riferimento ai fatti che erano sotto gli occhi di tutti.
Solo nel 1937 l’ultima enciclica dedicata al Messico, Firmissimam constantiam, riconosceva addirittura, in particolari circostanze, la legittimità di una resistenza armata contro un potere dispotico e oppressivo; ma soprattutto, in questo testo pieno di realismo e di speranza cristiana, invitava i vescovi e i sacerdoti a non dimenticare i due tesori più cari alla Chiesa: la fede e i poveri. La fede, attraverso l’apostolato: «È evidente peraltro che l’apostolato non proviene da un impulso puramente naturale all’azione; ma è frutto di una solida formazione interiore: è la necessaria espansione di un amore intenso a Gesù Cristo e alle anime, redente dal suo sangue prezioso, che si attua nell’impegno a imitarne la vita di preghiera, di sacrificio, di zelo inestinguibile. Questa imitazione di Cristo susciterà molteplici forme di apostolato in tutti i campi, dovunque le anime sono in pericolo o sono compromessi i diritti del Re divino». Ma i poveri, e le loro necessità sono altrettanto importanti «giacché spesso non si giunge alle anime se non mediante il sollievo delle miserie corporali e delle necessità economiche […]». Così, «a tutela della dignità della persona umana può essere talvolta necessario denunciare e biasimare arditamente condizioni di vita ingiuste e indegne». In modo particolare Pio XI fa riferimento ai contadini: «Non meno grave né meno urgente è un altro dovere: quello dell’assistenza religiosa ed economica dei campesinos e in genere di quella parte non piccola di messicani, per lo più contadini, vostri figli, che formano la popolazione indigena. Sono milioni di anime, pur esse redente da Cristo, da lui affidate alle vostre cure e di cui vi chiederà conto un giorno: sono milioni di individui spesso in così tristi e miserevoli condizioni di vita, da non avere nemmeno quel minimo di benessere indispensabile per tutelare la stessa dignità umana. Vi scongiuriamo, venerabili fratelli, nelle viscere della carità di Cristo, ad aver cura particolare di questi figli, a incoraggiare il vostro clero a dedicarsi con sempre maggiore zelo alla loro assistenza».
A sessant’anni, guardacaso, dalla pubblicazione dell’enciclica, non si può certo dire che queste parole siano invecchiate.


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