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DOCUMENTI
tratto dal n. 02 - 1998

DOCUMENTI. Per una migliore distribuzione della terra: la sfida della riforma agraria

«La terra è data a tutti e non solamente ai ricchi» (Sant’Ambrogio)


Il recente documento del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace contro il latifondismo esprime posizioni coraggiose quando ripropone i contenuti della Tradizione


di Gianni Valente


«Non è del tuo avere, afferma sant’Ambrogio, che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l’uso di tutti ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi». Era il 1967 quando Paolo VI, nell’enciclica Populorum progressio, ripeteva le parole del santo che era stato suo predecessore sulla cattedra di Milano per denunciare la rapina della terra, forma primigenia di quell’oppressione del povero che, come insegna tutta la Tradizione della Chiesa, «grida vendetta al cospetto di Dio». A più di trent’anni di distanza, un documento prodotto da un dicastero vaticano torna su alcuni degli argomenti affrontati nella grande enciclica sociale di Paolo VI.
Per una migliore distribuzione della terra: la sfida della riforma agraria. Così si intitola il testo prodotto dopo tre anni di lavoro dal Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, presentato lo scorso 13 gennaio dal cardinale Roger Etchegaray, presidente del dicastero vaticano che si occupa delle questioni sociali. Una denuncia del latifondismo, causa dell’impoverimento crescente di larghissimi strati della popolazione nei Paesi in via di sviluppo, che fa seguito ad analoghi documenti pubblicati da numerosi episcopati dei Paesi latinoamericani, dove la questione agraria iniziata alla metà del secolo scorso rimane la cifra fondamentale dello sfruttamento sociale.
La struttura del nuovo pronunciamento vaticano riprende il metodo di lavoro del vedere-giudicare-agire, lo schema inaugurato in Francia dalla Gioventù operaia cristiana (Joc) negli anni Trenta e ripreso negli ultimi decenni dalle Chiese latinoamericane nell’affronto delle questioni sociali, economiche e politiche.
La prima parte è infatti una descrizione serrata e realistica dei meccanismi di concentrazione della proprietà terriera. Vengono descritte le strutture di sfruttamento, le connessioni di potere politico-economico, i costi umani, ambientali ed economici implicati nel fenomeno. Vengono valutate criticamente le scelte di politica economica, come l’industrializzazione e l’urbanizzazione inseguite a tappe forzate a spese dell’agricoltura, nell’illusione di “modernizzare” in questo modo le economie nazionali. Tra i motivi del fallimento di tante riforme agrarie abortite non si omette di citare «la presenza di importanti interessi stranieri, preoccupati di una riforma per le loro attività economiche». E anche la politica delle esportazioni agricole, calibrata sugli interessi delle grandi imprese agro-industriali, è descritta come motivo di penalizzazione per i piccoli coltivatori e per quelle economie di sussistenza finalizzate in gran parte all’autoconsumo che vengono triturate dai meccanismi spietati della globalizzazione economica.
In questa prima sezione, i passaggi più espliciti e incisivi sono concentrati nel paragrafo sull’espropriazione delle terre delle popolazioni indigene, dove si descrivono scenari di tragica attualità nelle cronache latinoamericane. «Nella maggioranza dei casi» è scritto nel paragrafo 11 «la diffusione delle grandi imprese agricole, la realizzazione di impianti idroelettrici, lo sfruttamento delle risorse minerarie, del petrolio e delle masse legnose delle foreste nelle aree di espansione della frontiera agricola sono stati decisi, pianificati ed attuati ignorando i diritti degli abitanti indigeni». Al paragrafo 12 si denunciano le violenze che continuano a subire gli indigeni nei processi di accumulazione terriera: «L’élite fondiaria e le grandi imprese impegnate nello sfruttamento di risorse minerarie e del legname non hanno esitato, in molte occasioni, ad instaurare un clima di terrore per sedare le proteste dei lavoratori, obbligati a ritmi di lavoro disumani e remunerati con salari che spesso non coprono le spese di viaggio, vitto e alloggio. Lo stesso clima si è instaurato per vincere i conflitti con i piccoli agricoltori che coltivano da lungo tempo terre demaniali o altre terre, oppure per appropriarsi delle terre occupate dai popoli indigeni. In queste lotte vengono utilizzati metodi intimidatori, si provocano arresti illegali e, in casi estremi, si assoldano gruppi armati per distruggere i beni raccolti, togliere potere ai leaders delle comunità, sbarazzarsi di persone, compresi coloro che prendono le difese dei deboli, tra cui vanno ricordati anche molti responsabili della Chiesa. I rappresentanti del pubblico potere, spesso, sono direttamente complici di queste violenze. L’impunità agli esecutori e ai mandanti dei delitti viene garantita da deficienze dell’amministrazione della giustizia e dall’indifferenza di molti Stati verso gli strumenti giuridici internazionali riguardanti il rispetto dei diritti umani». Il documento vaticano porta la data del 23 novembre 1997, festa di Cristo Re. Il successivo 22 dicembre, nel villaggio di Acteal, in Chiapas, una banda paramilitare assoldata da gruppi di potere locali massacrava 45 cattolici riuniti a recitare il rosario in una capanna. Confermando con la grazia del martirio le parole sottoscritte un mese prima dal cardinale Etchegaray negli uffici del dicastero di piazza San Calisto, in Trastevere.

San Tommaso e la terra ai contadini
«Guai a voi, che aggiungete casa a casa e unite campo a campo» grida Isaia. Gli fa eco il suo contemporaneo Michea: «Sono avidi di campi e li usurpano, di case, e se le prendono. Così opprimono l’uomo e la sua casa, il proprietario e la sua eredità». Nelle invettive dei profeti contro le prevaricazioni dei ricchi è rintracciata l’antica radice del giudizio della Chiesa sulla proprietà della terra, oggetto della seconda parte del documento. Già l’Antico Testamento, con la pratica ebraica del Giubileo, è percorso dall’incessante richiamo a riconoscere che la terra è di Dio, e l’uomo non ne è il vero padrone, ma solo un amministratore: «La terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini» (Lv 25, 23). Nel cristianesimo, l’illegittimità del latifondo non è più solo un dato dell’ordine della Creazione, ma sgorga dalla preferenza per i poveri. Da quella storica effettiva preferenza che tutta la Tradizione riconosce inscritta nel mistero stesso della predilezione di Gesù Cristo per i suoi. I passaggi più efficaci e realisti del documento sono proprio quelli in cui vengono riproposti i contenuti e gli insegnamenti della Tradizione, che da sempre riconosce nel grido del povero oppresso lo stesso grido di Gesù Cristo in croce. Si cita la Populorum progressio di Paolo VI per ripetere che «la terra è data a tutti e non solamente ai ricchi», cosicché «nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario». Si ripropone anche il criterio definito da san Tommaso d’Aquino, e ribadito dall’ultimo Concilio ecumenico, secondo cui: «Colui che si trova in estrema necessità ha il diritto di procurarsi il necessario dalle ricchezze altrui». Alla luce di questi insegnamenti si condannano «le forme di appropriazione indebita della terra ad opera di proprietari o di imprese nazionali e internazionali, a volte sostenute da organismi dello Stato, i quali, calpestando ogni diritto acquisito e, non raramente, gli stessi titoli legali al possesso del suolo, spogliano i piccoli coltivatori e i popoli indigeni delle loro terre».
Il nuovo documento vaticano esprime giudizi e posizioni socialmente coraggiosi e interessanti proprio nei passaggi in cui si limita a riproporre nella situazione di oggi i contenuti e gli insegnamenti della Tradizione, gli stessi già riaffermati in documenti del magistero precedente, come la Populorum progressio. Appare invece timido e astruso nei paragrafi in cui, magari con l’intenzione di risultare credibile agli economisti e agli addetti ai lavori, ne assume i criteri di giudizio, fatalmente segnati dall’ideologia liberista oggi egemone. Ad esempio, riguardo alla forma di organizzazione del sistema economico, il documento vaticano dichiara legittime anche le forme di sfruttamento collettivo della terra come la proprietà comunitaria, «che caratterizza la struttura sociale di numerosi popoli indigeni». Ma poi corregge e smorza questo riconoscimento, aggiungendo che simili modelli sono destinati ad evolversi: petto alle posizioni espresse dalla Populorum progressio è ancora più marcato. L’ipoteca sociale che pesa sulla proprietà privata, affermata come principio, rimane pura teoria nell’affronto dei casi concreti. Paolo VI, nella Populorum progressio, aveva scardinato con sant’Ambrogio il dogma della proprietà privata “inviolabile”, riconoscendo la legittimità degli espropri («Il bene comune esige talvolta l’espropriazione se, per via della loro estensione, del loro sfruttamento esiguo o nullo... certi possedimenti sono di ostacolo alla prosperità collettiva»).

La sfida del sì… però
Anche il nuovo pronunciamento vaticano ammette in linea teorica la legittimità degli espropri, «dietro congruo indennizzo ai proprietari». Ma sul caso più controverso e di più stringente attualità, quello delle occupazioni delle terre che in Brasile e in tutta l’America Latina da anni segna il conflitto sociale tra fazendeiros e masse di contadini senza terra, si esprime una sostanziale condanna dei metodi dei movimenti dei senza terra, pur edulcorata col linguaggio ambiguo dei distinguo e delle attenuanti sociologiche. Da questo punto di vista, anche questo documento è un indice del mutamento avvenuto nei pronunciamenti ecclesiastici di questo ventennio. All’et… et cattolico, secondo il quale l’applicazione coerente di un principio vero conduce a tenere presenti tutti i fattori, si sostituisce il sì… però della cultura moderata egemone nella Chiesa, per cui di fatto, come in questo caso, si evacua il principio espresso chiaramente da sant’Ambrogio e da san Tommaso e riproposto dalla Populorum progressio. Secondo il pronunciamento vaticano, infatti, l’occupazione delle terre incolte, «anche quando ad indurla sono situazioni di estrema necessità, resta comunque un atto non conforme ai valori e alle regole di una convivenza civile. Il clima di emotività collettiva che genera può facilmente condurre ad una successione di azioni e di reazioni tali da sfuggire ad ogni controllo. Gli atti di strumentalizzazione che possono facilmente verificarsi hanno ben poco a che fare con il problema della terra». A questa chiusura si fa seguire la constatazione che comunque l’occupazione delle terre «è una spia allarmante che sollecita la messa in atto, a livello sociale e politico, di soluzioni efficaci ed eque». I governi che lasciano incancrenire le situazioni a rischio vengono anch’essi giudicati corresponsabili del degenerare dei conflitti sociali: «Il ritardare e il rimandare la riforma agraria tolgono ogni credibilità alle loro azioni di denuncia e di repressione dell’occupazione delle terre».
L’ultima sezione del documento riafferma che il superamento del latifondo costituisce solo la prima parte di una riforma agraria efficace. Perché i risultati siano effettivi e duraturi occorre sostenere la redistribuzione delle terre con la garanzia di accesso al credito bancario, e poi con la creazione di infrastrutture che favoriscano l’ottimizzazione della produzione e della successiva commercializzazione dei prodotti. Le virtù miracolistiche della liberalizzazione degli scambi commerciali vengono smitizzate: «In determinate condizioni, lo sviluppo degli scambi commerciali può avere anche effetti peggiorativi delle condizioni di vita di coloro che sono economicamente svantaggiati. Questo accade, ad esempio, se l’aumento della produzione di derrate agricole da esportare induce a ridurre l’offerta di alimenti per il consumo interno e ad aumentarne i prezzi».


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