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CECOSLOVACCHIA
tratto dal n. 02 - 1998

Cinquant’anni fa “il colpo di Praga”

Prove tecniche di guerra fredda


Perché l’Urss ridusse alla completa obbedienza un Paese che già dava prova di sollecitudine per le sue idee e i suoi uomini? Perché soppresse le libertà di uno Stato che avrebbe potuto presentare al mondo come segno di flessibilità e tolleranza? In realtà la Cecoslovacchia era un’anomalia in un’Europa che andava verso una rigida divisione in due blocchi


di Sergio Romano


Nel corso di una famosa conversazione con Milovan Djilas, Stalin disse cinicamente che la carta politica dell’Europa, nel dopoguerra, avrebbe fedelmente riprodotto lo schieramento degli eserciti alleati alla fine del conflitto. Intendeva dire che ogni Paese avrebbe avuto un regime politico corrispondente all’ideologia della potenza da cui era stato liberato o conquistato. Così accadde, puntualmente, in tutti i Paesi occupati dall’Armata Rossa. In Bulgaria le prime elezioni, nel novembre del 1945, dettero la maggioranza a un Fronte patriottico, controllato dai comunisti. Un anno dopo, in settembre, il Paese fu proclamato “Repubblica popolare” e lo zar Boris fu costretto all’esilio. Il 27 ottobre si tennero le elezioni per un’Assemblea costituente in cui i comunisti ebbero la maggioranza e il 21 novembre Georgi Dimitrov, leader dell’Internazionale comunista, divenne presidente del Consiglio.
In Romania lo scenario fu pressoché eguale. Nel marzo del 1945 il re approvò la formazione di un governo composto dal Fronte democratico nazionale e dominato, di fatto, dal Partito comunista. Nel luglio del 1947 i leader del Partito nazionale contadino furono arrestati e il Partito venne soppresso. In novembre il ministro degli Esteri, Jorge Tatarescu, si dimise per fare posto a Anna Pauker, da poco rientrata in patria dopo un lungo esilio sovietico. In dicembre Michele fu costretto ad abdicare e ad abbandonare il Paese.
In Polonia il potere, dopo la fine della guerra, andò agli esuli prosovietici del “governo di Lublino” che procedettero rapidamente alla nazionalizzazione della maggior parte delle industrie. Nel gennaio del 1947 le elezioni dettero una forte maggioranza (394 seggi) al blocco governativo, dominato dai comunisti. In settembre la Polonia denunciò il Concordato con la Santa Sede; in ottobre il Partito dei contadini fu sottoposto a una sorta di purga e divenne da allora il satellite silenzioso del regime.
In Ungheria le prime elezioni politiche, nel novembre del 1945, dettero la vittoria al Partito dei piccoli proprietari. Ma questo non impedì ai comunisti, negli anni seguenti, di occupare progressivamente le leve del potere e di conquistare la maggioranza alle elezioni dell’agosto del 1947. Nella Germania occupata dai sovietici, il Partito comunista si fuse con il Partito socialista e dette origine alla Sed (Sozialistische Einheit Deutschland) che conquistò la maggioranza da allora in tutte le elezioni. Quasi ovunque la conquista del potere fu scandita dalle stesse tappe: il ritorno dall’Urss degli esuli comunisti, un governo di unità nazionale ma fortemente controllato dal partito comunista, l’occupazione del potere economico e amministrativo, la soppressione o l’epurazione dei partiti ostili, l’abdicazione del sovrano o l’esilio dei leader democratici, la fusione tra comunisti e socialisti, la proclamazione di una “repubblica popolare”. Considerato con la saggezza del tempo trascorso l’avvento del comunismo nei Paesi “liberati” dall’Armata Rossa ci appare inevitabile e, secondo un famoso aforisma di Hegel, “razionale”. Accadde, in altre parole, ciò che doveva accadere. Forse che nelle democrazie occidentali non accadevano in quei mesi avvenimenti opposti e speculari?
Ma la Cecoslovacchia rappresenta, in questo quadro, un caso diverso. Qui i giochi, alla fine del conflitto, sembravano aperti ad altre prospettive. Quando il presidente Truman ordinò al generale Patton di trattenere le sue truppe, l’Armata Rossa occupò Praga, ma si ritirò qualche mese dopo al di là della frontiera ungherese. Il presidente della Repubblica, Benes, era convinto da tempo della necessità di garantire a Mosca che il suo Paese non avrebbe mai assunto atteggiamenti ostili all’Unione Sovietica. Preoccupato dall’incombente presenza della Germania e segnato dal ricordo di Monaco, dove i “quattro grandi” – Chamberlain, Daladier, Hitler, Mussolini – avevano deciso la sorte del suo Paese, Benes aveva firmato un trattato di amicizia con Stalin a Mosca nel dicembre del 1943 ed era tornato in Unione Sovietica nel febbraio del 1945 per concordare con lui la composizione del primo governo cecoslovacco dopo la fine del conflitto. Nessun altro uomo politico democratico fu altrettanto sensibile alle esigenze dell’Urss. Nessun altro leader indipendente dette a Stalin altrettanti segni di amicizia. La nuova Cecoslovacchia fu sin dai suoi primi giorni un decoroso satellite democratico dell’impero sovietico (a cui cedette immediatamente la Rutenia) e fece all’ombra dell’Urss una politica nazionale e progressista. Privò della nazionalità i tedeschi del Sudetenland e gli ungheresi della Slovacchia, li cacciò dal territorio nazionale, punì i collaborazionisti, nazionalizzò molte industrie, riformò l’agricoltura. Quando le elezioni del maggio 1946 dettero ai comunisti il 38 per cento dei voti e 114 dei 300 seggi dell’Assemblea costituente, Benes conferì a Klement Gottwald, esponente cecoslovacco dell’Internazionale comunista, la formazione del governo e permise che il Ministero dell’Interno diventasse appannaggio del Partito. Perché mai l’Urss avrebbe avuto bisogno di ridurre alla completa obbedienza un Paese che già dava prova di tanta sollecitudine per le sue idee e i suoi uomini? Perché sopprimere le libertà di uno Stato che l’Urss, senza alcun danno per la propria politica, avrebbe potuto presentare al mondo come segno di flessibilità e tolleranza?
Il primo delicato problema internazionale della Cecoslovacchia liberata sorse quando il generale Marshall, segretario di Stato americano, offrì agli europei un grande piano per la ricostruzione della loro economia. Entra in scena a questo punto Jan Masaryk, ministro degli Esteri della Repubblica cecoslovacca e figlio del leader politico che aveva presieduto la Repubblica dopo la disintegrazione dell’Impero austroungarico.
In Consiglio dei ministri Masaryk ottenne che la proposta americana venisse accolta con favore. Come ricorda Aldo Rizzo in un libro (L’anno terribile) pubblicato recentemente da Laterza, era il 4 luglio del 1947, vale a dire il giorno stesso in cui Molotov, a Parigi, respinse sdegnosamente il Piano Marshall. Per tranquillizzare l’Unione Sovietica Masaryk partì per Mosca con Gottwald. L’incontro con Stalin ebbe luogo, come al solito, nel corso della notte e fu un monologo piuttosto che una discussione. Senza neppure prendere in considerazione gli argomenti rassicuranti del ministro degli Esteri cecoslovacco, Stalin cancellò bruscamente l’adesione al Piano Marshall dal novero delle opzioni diplomatiche del governo di Praga. Essa avrebbe dimostrato ai popoli dell’Urss – disse – «che i cecoslovacchi si sono lasciati strumentalizzare contro di noi, cosa che né l’opinione pubblica né il governo sovietico avrebbero potuto tollerare». Pochi giorni dopo, il governo di Praga ratificò la volontà di Stalin. «Caro amico» disse Masaryk al suo collega del Commercio con l’estero «ormai non siamo che dei vassalli».
I “vassalli” continuarono a comportarsi con diligenza e sollecitudine. Nulla di ciò che il governo fece nei mesi seguenti poté suscitare i sospetti e l’irritazione dell’Urss. Ma questo non impedì a Gottwald di completare la conquista del potere. Con l’aiuto del ministro dell’Interno, Vaclav Nosek, del leader sindacale, Antonin Zapotocky, e del segretario del Partito Rudolf Slansky, s’impadronì della polizia, della pubblica amministrazione, dei consigli di fabbrica. La fase finale è stata raccontata con precisione ed efficacia da François Fejtö in un libro del 1977 (Le coup de Prague) e, più recentemente, da Aldo Rizzo nel libro sul 1948 pubblicato da Laterza. La crisi scoppiò il venerdì 13 febbraio quando i rappresentanti di tre partiti moderati cercarono di provocare le dimissioni del governo e più tardi, con una mossa che ricorda per certi aspetti il ritiro dei deputati democratici sull’Aventino dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, rifiutarono di partecipare alle riunioni del Consiglio dei ministri. Il loro “assenteismo” offrì a Gottwald l’occasione che egli attendeva. Da quel momento il potere passa ai “comitati d’azione” del Fronte nazionale e al suo Comitato centrale, alle rappresentanze sindacali, alle milizie operaie, agli organi della polizia e dell’amministrazione in cui il Partito comunista ha collocato i propri uomini. Qualche sporadica manifestazione popolare a favore dei partiti moderati viene duramente repressa. Nel palazzo presidenziale, al vertice della città vecchia, Benes si limita a qualche accorata 17;identificavano, per ragioni personali e familiari, con la nascita dello Stato cecoslovacco. Ma il caso o la provvidenza liberarono Gottwald, in poche settimane, dalla loro ingombrante presenza. All’alba del 10 marzo Masaryk fu trovato sul selciato di piazza Czernin di fronte alla finestra aperta del suo ufficio. Era caduto, vittima di un malore? Si era ucciso? Era stato “suicidato”? Nessuno, a cinquant’anni di distanza, può dare a queste domande una risposta definitiva. Benes si dimise il 7 giugno dopo avere firmato il testo della nuova Costituzione e assistito impotente all’epurazione e all’arresto di alcune migliaia di “nemici del popolo”. Morì il 3 settembre dello stesso anno.
Gli Stati Uniti e le democrazie occidentali stettero a guardare senza prendere alcuna iniziativa. La vicenda cecoslovacca fu sin dal primo giorno “inafferrabile”. Si trattò certamente di un colpo di Stato, ma gli avvenimenti si collocarono – come in Italia nel 1925 e in Germania nel 1933 – in una zona grigia, ai confini tra la legalità e l’illegalità. La presa del potere, tuttavia, ebbe un effetto decisivo sulla situazione internazionale. In poco più di un anno e mezzo, dal febbraio 1948 all’ottobre del 1949, si consumarono avvenimenti che segnarono il corso della guerra fredda: la firma del Trattato di Bruxelles fra Gran Bretagna, Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo (17 marzo), la nascita dell’Oece per la distribuzione e l’utilizzazione degli aiuti forniti dal Piano Marshall (17 aprile), le elezioni italiane (18 aprile), il blocco sovietico di Berlino e il ponte aereo degli alleati per il rifornimento della città (aprile 1948-maggio 1949), la riforma monetaria nelle zone occidentali della Germania (18 giugno), la creazione del Comecon con cui l’Urss cercò di coordinare la collaborazione economica degli Stati satelliti (25 gennaio 1949), la firma del Patto Atlantico (4 aprile 1949), la nascita della Repubblica federale tedesca (23 maggio 1949), la nascita della Repubblica democratica tedesca (7 ottobre 1949). Grazie al colpo di Praga i pezzi del puzzle si dispongono più rapidamente, l’uno accanto all’altro, e formano un disegno che rimarrà in vita, con qualche correzione, sino alla fine degli anni Ottanta. È il disegno della guerra fredda.


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