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ARCHEOLOGIA
tratto dal n. 02 - 1998

Un ponte fra Oriente e Occidente


Un ricordo di Sabatino Moscati, il grande orientalista scomparso. L’orizzonte storiografico che egli ha aperto con la sua intuizione dell’unità del mondo mediterraneo. Un articolo del presidente dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente


di Gherardo Gnoli


Il vuoto lasciato da Sabatino Moscati negli studi sul Vicino Oriente e sull’antichità mediterranea è incolmabile. Era nato a Roma il 24 novembre 1922 ed è morto l’8 settembre 1997. Era – ed era fiero di esserlo – il legame più significativo tra la grande tradizione degli studi italiani sull’Oriente semitico, arabo e islamico, illustrata da nomi indimenticabili quali, fra gli altri, quelli di Ignazio Guidi, Leone Caetani, Carlo Alfonso Nallino, Giorgio Levi Della Vida, Enrico Cerulli, Francesco Gabrieli, e le nuove generazioni di studiosi che nelle università, nel Cnr e in altri istituti di ricerca coltivano, pienamente inseriti nel mondo scientifico internazionale, gli studi sulle civiltà del Vicino Oriente e del Mediterraneo antico, di là dalle sue componenti classiche. In questa funzione di ponte tra diverse generazioni di studiosi aveva avuto un altro illustre compagno di strada, a cui fu legato da un profondo vincolo di amicizia, Alessandro Bausani, suo coetaneo, scomparso precocemente nel 1988. Ma Bausani si era orientato in un’altra direzione, non quella delle civiltà del Vicino Oriente preislamico e dell’archeologia mediterranea, ma quella della islamistica, con lo studio originale delle maggiori culture, letterature e lingue del mondo islamico.
Moscati, sotto la guida del gesuita tedesco Alfred Pohl, professore del Pontificio Istituto Biblico – la sua origine israelitica gli aveva precluso l’Università di Stato – si era dedicato da giovane agli studi sul Vicino Oriente antico. Dotato di una straordinaria capacità di sintesi, pubblicò, appena ventisettenne, Storia e civiltà dei Semiti presso Laterza (1949), un’opera destinata a un notevole successo, come dimostrano le sue diverse edizioni: francese, inglese, tedesca, spagnola, svedese, polacca, ceca, giapponese, rumena. Aveva cominciato a scrivere e a pubblicare sei anni prima. La sua bibliografia, esclusi i contributi alla stampa quotidiana, comprende tra il 1943 e il 1997 quasi seicento titoli, dei quali una parte rilevante, ma in ogni caso minoritaria, formata da opere di alta e larga divulgazione scientifica.
Per circa dieci anni, tra il 1945 – finito il periodo della sua clandestinità iniziato nel 1943 – e il 1955, si era dedicato, sotto la guida di Francesco Gabrieli e di Giorgio Levi Della Vida, da poco tornato dal volontario esilio negli Stati Uniti d’America, a studi di storia araba, rivolti in particolar modo al trapasso dal califfato omàyyade, che crollò alla metà dell’VIII secolo, a quello abbàside, e cioè, come è stato felicemente detto, al periodo che segnò il passaggio «dal regno arabo all’impero musulmano» (con questo titolo sono stati raccolti gli studi relativi in un volume dell’editore Morano di Napoli nel 1992). Già in quei dieci anni di attività intensa si era imposto in Italia e all’estero per la spiccata sensibilità di storico, per l’originalità delle sue ricerche e per la solidità dei risultati raggiunti.
Successivamente, l’orizzonte dei suoi studi mutò e si indirizzò verso la storia orientale antica con prevalente interesse per l’area siro-palestinese, con i volumi I predecessori d’Israele (1955), Il profilo dell’Oriente mediterraneo (1956), Le antiche civiltà semitiche (1958) con varie edizioni in altre lingue, e verso la linguistica semitica, con lavori quali Il sistema consonantico delle lingue semitiche (1954), Lezioni di linguistica semitica (1960) e l’introduzione alla grammatica comparata delle lingue semitiche pubblicata in Germania (1964). E poi ancora, rimanendo sempre nella stessa area geografico-culturale, verso la ricerca archeologica sul campo, specialmente in Israele.
Da qui all’archeologia fenicio-punica il passo non è stato troppo lungo. Il suo interesse per la “questione fenicia” è già bene illustrato in un rendiconto dell’Accademia dei Lincei del 1963. Dal 1964 in poi saranno sempre più frequenti suoi lavori sull’archeologia punica, non solo di studio a tavolino ma anche direttamente sul campo, alla guida delle missioni organizzate dall’Istituto per la civiltà fenicia e punica (per sua iniziativa costituitosi presso il Cnr) a Malta, in Sardegna, in Sicilia, in Tunisia. Nel 1966 vide la luce un’altra delle sue opere di maggior successo, Il mondo dei Fenici (Milano, Il Saggiatore), che ebbe anch’essa varie edizioni straniere. Seguirono, in questo campo, fra i molti altri scritti (articoli, memorie, monografie) I Fenici e Cartagine (1972), Alla scoperta della civiltà mediterranea (1979), Il mondo punico (1980), Cartaginesi (1982), Italia punica (1986), Chi furono i Fenici (1992), Il tramonto di Cartagine (1993), Introduzione alle guerre puniche (1994) e, pubblicato a Tunisi l’anno scorso, L’empire de Carthage.
Ciò che lega tra loro le variegate e molteplici facce di questa grande opera sulla civiltà fenicia e punica ha un importante significato storico. L’unità del mondo mediterraneo, infatti, di cui oggi a volte si parla in una prospettiva per lo più politologica, ben si comprende se non ci si chiude in una visione esclusivamente classicistica dominata dal binomio Grecia-Roma. Lo studio del mondo fenicio e punico assume quindi, da questo punto di vista, una importanza fondamentale anche per la storia dell’Italia antica, non meno di quello dei Celti o dei vari popoli italici (si veda il suo volume Gli Italici, del 1983). Al centro degli interessi di Moscati sono stati dunque problemi storici di rilevante attualità, perché lo studio del Mediterraneo antico è in fondo parte o propaggine di un orizzonte storiografico più vasto: quello dell’incontro Oriente-Occidente.
Non è un caso che a insistere su siffatte nuove prospettive degli studi sull’antichità sia stato un orientalista come Moscati, profondamente e direi entusiasticamente attratto dall’idea dell’unità euroasiatica che Giuseppe Tucci (1894-1984) aveva da tempo posto a base del programma scientifico e ideale dell’Ismeo (l’Istituto italiano per il Medio e l’Estremo Oriente ora confluito, insieme con l’Istituto italo-africano, nel nuovo Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, Isiao). Fu proprio per questa consonanza di orientamenti intellettuali e scientifici che fra Tucci e Moscati si instaurò, a partire dagli anni Settanta, un solido rapporto di collaborazione e amicizia che portò Moscati a succedere a Tucci nella presidenza dell’Ismeo alla fine del 1978, sia pure per breve tempo. Significativamente egli tenne la relazione introduttiva al congresso internazionale che l’Istituto organizzò nel dicembre 1983 sul tema «Eurasia: un continente», per celebrare il cinquantesimo anniversario della fondazione.
Moscati, d’altra parte, ebbe con Tucci più di un tratto in comune: come Tucci intuì il ruolo importante della ricerca archeologica sul campo per dare nuovo impulso agli studi orientali e come Tucci concepì un piano organico di sviluppo e collaborazione di discipline e competenze plurime, di cui è chiara testimonianza la promozione da lui fatta di un’articolata presenza nell’università italiana di insegnamenti che vanno dalla Storia del Vicino Oriente antico all’Archeologia del Vicino Oriente, alla Filologia semitica, alle Antichità fenicio-puniche. Ma il maggiore punto di contatto fra i due è stato senza dubbio lo spazio da loro dedicato, nella volgarizzazione e diffusione di nuove conoscenze scientifiche, proprio all’intreccio della civiltà occidentale, nelle sue stesse radici, con le civiltà dell’Oriente. E benché fosse lontano dalla sua area di studi (l’India, il Tibet, l’Asia centrale e orientale), Moscati riconobbe Tucci come uno dei suoi maestri, onorandone la memoria in pagine indimenticabili.
i questa crescita si deve a Moscati a cui va riconosciuto il merito di avere sostanzialmente fondato in Italia, a livello istituzionale, gli studi sul Vicino Oriente antico. L’Università di Roma (allora unica) vide nascere alla fine degli anni Cinquanta il Centro di studi semitici e poi l’Istituto di studi del Vicino Oriente; l’Istituto per l’Oriente il Centro per le antichità e la storia dell’arte del Vicino Oriente; il Cnr prima il Centro e poi l’Istituto per la civiltà fenicia e punica, mentre altre istituzioni, dall’Accademia dei Lincei (di cui è stato presidente) all’Istituto dell’Enciclopedia italiana, assegnavano in diversi modi agli studi sul Vicino Oriente e sul Mediterraneo antichi il posto che a essi compete in un Paese non provinciale e culturalmente all’avanguardia. Altrettanto si dica per le università italiane: da Roma a Bologna, da Napoli a Torino, molteplici sono stati gli insegnamenti attivati nel settore degli studi promossi da Moscati. Le sue capacità organizzative, inoltre, si sono misurate con grande e riconosciuto successo anche con la promozione e la cura di importanti manifestazioni culturali (si pensi alle mostre sui Fenici e sui Celti a Palazzo Grassi a Venezia, nel 1988 e nel 1991) e con la fondazione di nuove imprese editoriali di vario genere e con diverse finalità, dall’Enciclopedia archeologica dell’Istituto della Enciclopedia italiana al periodico mensile Archeo di De Agostini-Rizzoli.
Moscati non è stato solo uno studioso dall’intelligenza brillante e dall’eccezionale capacità di lavoro o uno straordinario organizzatore degli studi e delle ricerche, sia nella formazione di più di una generazione di allievi sia nel consolidamento o nella creazione di strutture e centri adeguati alle nuove esigenze culturali. Moscati è stato anche un maestro premuroso e, nello stesso tempo, un affettuoso discepolo. Tratto caratteristico della sua personalità è stata infatti la sincera venerazione per i suoi maestri, da Alfred Pohl a Giorgio Levi Della Vida, a Francesco Gabrieli. Alla loro memoria è sempre rimasto fedele con commovente e filiale affetto, segno certissimo della sua nobiltà d’animo. Gli allievi li ha sempre seguiti con l’incoraggiamento ad andare avanti con studi originali e con la costante preoccupazione di assicurare loro condizioni che ne potessero garantire l’avvenire di ricercatori in campi nei quali si erano tradizionalmente affermate solo rare figure di studiosi isolati.
Per questi motivi grande è l’eredità che lascia: una schiera di studiosi più e meno giovani dalle competenze molteplici e spesso complementari; nuove strutture di ricerca; una imponente opera di diffusione culturale; un messaggio, infine, che non deve e non può essere dimenticato o tradito, perché risponde alle esigenze più attuali e profonde della nostra società alle soglie del terzo millennio. L’intreccio fecondo di culture e civiltà solo apparentemente lontane costituisce infatti il tessuto o la trama della nostra stessa civiltà, di cui accompagna in alterne vicende la storia e di cui segna ineludibilmente il destino.


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