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MESSICO
tratto dal n. 01 - 1998

L’incontro con Gesù Cristo e il grido del povero

Il nostro stupore quotidiano


Una giornata con Raúl Vera López, vescovo coadiutore di San Cristóbal. «Il potere di questo mondo, il neoliberismo o come lo chiamano adesso, la globalizzazione, non è una novità. La novità sono loro. Nella loro inermità questi poveri indios hanno fatto traballare un governo forte e monolitico»


di Davide Malacaria


«In mezzo a tutte queste sofferenze il Signore non ci ha abbandonato». Monsignor Raúl Vera López, vescovo coadiutore di San Cristóbal de las Casas, conclude così il suo breve saluto ai pellegrini che partono da questa piccola cittadina del Chiapas. Il pellegrinaggio, che toccherà le più importanti cittadine di questa tormentata regione, terminerà tra due giorni ai piedi della Vergine di Guadalupe, protettrice delle Americhe, per chiedere la pace. Ma il vescovo non andrà con i pellegrini. Si unirà a loro solo nella celebrazione finale di martedì 20 gennaio. Scopriamo il motivo di questa defezione quando ci invita a seguirlo in questa calda domenica di gennaio.
La giornata di Vera López si dipana tra strade tortuose che attraversano luoghi dai nomi di derivazione Maya. La prima tappa è San Francesco, una piccola chiesa della comunità di Saravia, che dipende dalla parrocchia di San Sebastiano a Comitan, piccola cittadina a un centinaio di chilometri da San Cristóbal de las Casas.
Ad accogliere Vera López la “banda” della comunità: cinque indios con tamburi e strumenti a fiato lo accompagnano su una strada polverosa fino alla chiesetta. Davanti a San Francesco due ali di gente. Il vescovo potrebbe fare la sua entrata trionfale là in mezzo. Invece si ferma e, a uno a uno, nessuno escluso, saluta tutti, chi con un abbraccio, chi con una stretta di mano, chi con una carezza. Gesti semplici, da buon pastore. Anche dentro la chiesetta la scena si ripete. Poi inizia la celebrazione. È messa solenne: si celebrano centosessanta cresime, oggi. Frutto di un anno di lavoro della parrocchia. Ma soprattutto della testimonianza dei catechisti indios che tra il fango, la povertà, le intimidazioni e le pallottole, hanno comunicato in semplicità la fede cattolica. «Già, perché qui c’è un solo sacerdote per un territorio immenso. A San Francesco la messa si può celebrare solo una volta al mese, in altri posti anche meno di frequente. Così la catechesi per la maggior parte è affidata alla cura dei laici, tutti indios». Questo ci spiega padre Ottavio che, insieme a un suo confratello domenicano, accompagna Vera López in questi giorni, prima di partire per prendere possesso della parrocchia che gli è stata affidata in Guatemala.
La cerimonia è semplice, tutti cantano, tutti rispondono, tutti si inginocchiano al momento della consacrazione. Alla fine i fedeli sono invitati ad accompagnare il pellegrinaggio alla Vergine di Guadalupe con le loro preghiere. Viene anche annunciata una novena per fare memoria della strage di Acteal, le donne si vestano in nero e gli uomini portino il lutto per nove giorni.
Poi a pranzo. Monsignor Vera López viene invitato in una stanza adiacente la chiesa. Un pezzo di pollo e una manciata di riso in un piatto di carta; e per posata un cucchiaino di plastica. Per l’ospite è pronta anche l’acqua e il sapone per lavarsi le mani, una cosa inusuale in questi posti.
Vera López è stato fatto prete a San Pietro da Paolo VI e vescovo da Giovanni Paolo II. Nell’agosto 1995 è stato affiancato a Samuel Ruiz García come vescovo coadiutore di San Cristóbal de las Casas. Una nomina che a molti è apparsa come un commissariamento del vescovo degli indios. Vera López ci scherza sopra: «Anch’io ho letto i giornali che scrivevano queste cose. In realtà io conosco Ruiz García da venticinque anni. Ricordo ancora quel giorno, lo accompagnavo in una zona della sua diocesi e si doveva passare nella foresta, guidati da apripista col machete e facendo attenzione ai morsi dei serpenti. Poi in questi ultimi anni ho lavorato a stretto contatto con lui. Insieme, alla sede del Conai (l’organo per la pacificazione istituito nella diocesi) a fare comunicati anche fino alle cinque di mattina. Io “destro” e lui “sinistro”? Barzellette». Poi si fa serio e continua: «Certo, se non avessi capito la situazione avrei rischiato di fare il vescovo degli avversari di Ruiz García». In particolare si riferisce ai coletos auténticos, i colletti bianchi, un piccolo gruppo di latifondisti molto influente in San Cristóbal de las Casas, che si dicono discendenti dai conquistadores spagnoli. I colletti bianchi hanno da tempo dichiarato guerra a Ruiz García, accusandolo di ogni sorta di male, non ultimo quello di dividere i cattolici per il solo fatto di dare voce al grido degli indios della regione. Nella loro preoccupazione religiosa hanno chiesto a più riprese la testa di Ruiz García. Nel ’93 hanno perfino occupato la Cattedrale. Ma le loro speranze sono rimaste frustrate e Ruiz García è ancora al suo posto.
Chiediamo a monsignor Vera López della situazione tragica del Chiapas e di quando ha appreso la strage di Acteal. «Ero in aeroporto per andare in Spagna quando ho saputo la notizia. Sono partito e, a Siviglia, ho denunciato la situazione». Dichiarazioni che gli sono valse una citazione giudiziaria dal gusto intimidatorio. «Ho solo detto quello che vedono tutti», minimizza. «Ma non c’è stata solo la strage di Acteal. Lì i morti sono stati 45. Hanno fatto notizia sui giornali perché 45 morti tutti insieme… Però non c’è solo quello. Nel nord del Chiapas i morti sono stati in un anno almeno 150, e ci sono posti da cui la gente, benché terrorizzata, non può neanche scappare perché è accerchiata. Ancora è tutto così…». Un gesto della mano e un sospiro che sottende tante cose. La vita e la morte, la pace e la guerra. Ma non c’è angoscia. Gli occhi celesti guardano i suoi amici indigeni lì intorno alla tavola e brillano lieti.
Il pranzo finisce. Si riparte per un’altra chiesa: è la volta della Vergine del Carmine, località Las Margaritas, sempre della parrocchia di San Sebastiano. Una locandina appesa alla chiesetta spiega come la grande diffusione nelle Americhe della devozione a San Sebastiano sia dovuta al fatto che «le popolazioni americane, generalmente guerriere, potevano vedere in lui il valente soldato cristiano che le conduceva a ingrossare le file pacifiche di Cristo Re». Anche qui chiesa gremita. Anche qui oggi è giorno di cresime: centoquaranta. Appare ancora più vero quello che aveva detto Vera López durante il pranzo: «Cosa mi ha colpito venendo qui tra questa gente? Le chiese affollate, la fede di questi indios. Pensate a questi catechisti, spesso vengono minacciati: “Se vieni qui a pregare ti ammazziamo”. E loro vanno». Tutto semplice, senza enfasi, senza retorica: «La catechesi che loro fanno non è una cosa astratta, è una vita». Un piccolo rinfresco povero e per questo ancor più prezioso. È sera, ora di andare. Il vescovo saluta e sorride dalla sua macchina. È contento di stare con i suoi. Non è solo voce dei poveri, ma un pastore che, più che guidare, guarda la vita di fede che la grazia suscita nel suo gregge. Quella vita ora così minacciata. Ma l’odio del mondo non scandalizza Vera López: «Il potere di questo mondo, il neoliberismo o come lo chiamano adesso, la globalizzazione, non è una novità. La novità sono loro». E indica due catechisti. «Nella loro inermità questi poveri indios hanno fatto traballare un governo forte e monolitico come quello messicano».
«Avevamo pensato di fare questo pellegrinaggio alla Vergine di Guadalupe per chiedere la pace e per far conoscere al mondo la nostra situazione», aveva detto Ruiz García sulla soglia della Cattedrale questa mattina. «Ora non è più così. Ci avviamo a questo pellegrinaggio come testimoni di una speranza nuova».


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