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MESSICO
tratto dal n. 01 - 1998

L’incontro con Gesù Cristo e il grido del povero

I naufraghi della globalizzazione


Nella Selva Lacandona l’ennesimo esempio di come all’attuale neoliberismo non interessa lo sviluppo del popolo ma solo lo sfruttamento delle risorse


di Davide Malacaria


Il Chiapas è al centro del mondo. La povertà degli indios, la guerriglia dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) guidata dal subcomandante Marcos, la controinsorgenza ad opera di gruppi paramilitari, sono da tempo sotto osservazione della stampa internazionale. Ma il Chiapas, anche sotto i più potenti riflettori, rimane un rebus complesso di cui è difficile trovare una chiave interpretativa esauriente. Proviamo a evidenziare alcuni dei fattori in gioco.
San Cristóbal de las Casas è il centro simbolico della vicenda. Questa bellissima cittadina, un tempo uno dei fiori all’occhiello del turismo messicano, non è il capoluogo della regione. La sua importanza risiede nella storia, legata soprattutto al domenicano Bartolomeo de Las Casas, che ne fu il primo vescovo e che legò il suo nome alle denuncie delle vessazioni e delle violenze subite dalle popolazioni indigene ad opera dei conquistadores spagnoli.
Proprio nella città di San Cristóbal de las Casas, negli anni Settanta, si ripropone la “questione india”. In seguito al Congresso indigeno, tenutosi nel 1974, nasce un movimento rivendicativo che, frazionato in gruppi più diversi, inizia a dare voce e organizzare la protesta dei discendenti dai Maya, pesantemente sfruttati dall’élite dominante. Iniziative che spaventano i grandi latifondisti, che potenziano la loro dotazione di manipoli di armati, le guardie bianche, con funzioni di difesa e offesa personale. A complicare le cose c’è la geopolitica, che fa del Chiapas la regione più meridionale del Nord America, una sorta di porta verso il Centro e il Sud America, aree che tanto interessano la politica più o meno palese degli Stati Uniti.
Ad imprimere una svolta, verso la fine degli anni Ottanta, è la scelta neoliberista del presidente Salinas de Gortari. Il Messico ha da tempo regolato la questione indigena concedendo alle singole comunità gli ejidos, terre collettive che le comunità ridistribuiscono per la coltivazione, con il vincolo della incedibilità, ai propri appartenenti. Per decisione di de Gortari, la clausola di non cedibilità decade: ora i singoli assegnatari possono a loro volta vendere. A beneficiare della situazione sono i grandi proprietari terrieri, unici ad avere la liquidità necessaria per comprare. Per le comunità è un colpo mortale: nelle zone dove questo processo è allo stato avanzato, queste vengono disgregate e gli indios sono ridotti, da contadini poveri, a braccianti al limite della soglia di sopravvivenza. Di contro, a forbice, cresce la ricchezza di una ristretta oligarchia.
In più, negli anni, la regione scopre di avere ricchezze nascoste. In Chiapas si produce più della metà dell’energia elettrica del Messico e sul suo territorio si trova il 30 per cento delle risorse idriche del Paese. Tesori di cui non usufruisce la popolazione indios che per il 90 per cento vive senza energia elettrica, senza acqua. Per fare un piccolo esempio, in molte comunità l’approvvigionamento idrico avviene scavando buche per raccogliere l’acqua piovana. Ma ancor più preziose sembrano rivelarsi altre ricchezze meno palesi che hanno risvegliato interessi internazionali. «È stata segnalata l’esistenza di un grande bacino petrolifero situato tra il Guatemala e il Chiapas e già sfruttato nella parte guatemalteca. E, inoltre, cercando il petrolio, si è scoperto anche un ricco giacimento di uranio», spiega Andres Aubry, profondo conoscitore del Chiapas ed autore di uno studio sui gruppi paramilitari. Ricchezze che con la liberalizzazione delle frontiere con il Canada e gli Stati Uniti, avvenuta a seguito dell’accordo Nafta, divengono di più facile sfruttamento. E quindi ancora più interessanti.
Proprio in concomitanza con l’entrata in vigore dell’accordo Nafta, come un fulmine a ciel sereno, entra in scena l’Ezln, movimento che si richiama al precedente rivoluzionario di Emiliano Zapata, degli inizi del Novecento. Il 1° gennaio 1994, senza spargimenti di sangue, un manipolo di guerriglieri prende per un giorno il controllo totale di San Cristóbal de las Casas. Da allora vengono attuate una serie di azioni per rivendicare la difesa del popolo contro le ingiustizie subite, a livello locale e nazionale, e per chiedere una qualche autonomia per la regione anche in considerazione della sua specificità legata alla cultura e alla tradizione indios. Nel tempo, l’Ezln si conquista una diffusa simpatia. Attorno ai compañeros nasce un sostegno nascosto, fatto di donazioni e appoggi logistici. Un sostegno che si sviluppa pure a livello internazionale, anche perché il movimento guerrigliero ha scelto di lottare più con Internet che con i mitra.
La diocesi di San Cristóbal de las Casas, per scongiurare l’accrescersi della conflittualità, si interpone creando il Conai, un organismo diocesano che dialoga con il governo e con l’Ezln alla ricerca di una soluzione pacifica per le esigenze di un popolo che anche il governo, almeno a parole, dice di conoscere e voler risolvere. È un dialogo difficile, in cui non vengono risparmiate critiche al vescovo Ruiz anche da parte di esponenti della gerarchia ecclesiastica messicana. Intanto il Messico conosce una grande crisi economica: alla fine del ’94 crolla la Borsa di Città del Messico, salvata da un massiccio intervento degli Stati Uniti.
La guerriglia e la repressione continuano e, dopo fasi alterne, tra il febbraio e il luglio del ’96, grazie alla mediazione del Conai, si giunge agli accordi di San Andrés tra governo e Ezln, che sembrano poter porre fine al conflitto. Ma è un accordo che ancora oggi rimane soltanto sulla carta.
Intanto, dal ’96 iniziano a nascere gruppi paramilitari sparsi nel territorio chiapaneco. Hanno nomi diversi e bizzarri: il gruppo Paz y Justicia, Máscara roja ecc. Sono organizzazioni che si sovrappongono e si confondono con le preesistenti guardie bianche, ma se ne distinguono per i connotati politici reazionari finora inesistenti. La situazione precipita. I gruppi paramilitari si rendono protagonisti di atti di intimidazione, di vandalismo, di uccisioni e veri e propri massacri, come documenta Acteal. Il governo messicano spiega questo incrudelimento del conflitto come un fatto locale. E, ufficialmente per sedare le acque, invia l’esercito. Da parte dell’Ezln e della diocesi di San Cristóbal invece si parla di un piano organizzato di controinsorgenza che gode di appoggi e finanziamenti da parte, se non proprio del governo, certamente di alcuni dei suoi componenti. In Chiapas si starebbe dispiegando una strategia bellica definita “guerra a bassa intensità”. In una pubblicazione del Centro per i diritti umani Fray Bartolomé de Las Casas, organo della diocesi che raccoglie e diffonde dati sulle vessazioni subite dalla popolazione civile da parte dell’autorità pubblica (denuncie di desaparecidos, di arresti illegali, di torture), si legge la definizione di “guerra a bassa intensità”, presa dalle dichiarazioni di un ufficiale americano: «Una opzione meno costosa a livello politico, militare e economico si trova nella opzione di una guerra prolungata di logoramento, concettualizzata come guerra a bassa intensità che, senza abbandonare la possibilità di una invasione, usa una prospettiva più globale per affrontare i conflitti. Combinando elementi militari, politici, economici, psicologici, di intelligence e di controllo della popolazione, questa alternativa cerca di rinvigorire le forze armate dei Paesi alleati e promuovere movimenti insorgenti controrivoluzionari che siano la punta di lancia che risolva il conflitto». E, in effetti, dalla comparsa dei gruppi paramilitari la povertà, la paura e l’insicurezza sono cresciute in maniera esponenziale insieme al numero degli sfollati, gente cui hanno bruciato case e requisito terre e che ora ingrossa i campi profughi sparsi nel territorio chiapaneco. Il governo nega di appoggiare o lasciare impuniti gli operatori e i fautori della controinsorgenza. «Ma nemmeno uno dei gruppi paramilitari è stato finora smantellato», dice ancora Aubry. Nei giornali messicani sempre più diffusamente si scrive dell’appoggio dell’esercito ai gruppi paramilitari. La rivista Proceso, uno dei settimanali Ora, sotto la pressione internazionale, il governo messicano è attento a dare un’immagine di buona volontà e trasparenza. È quindi un momento propizio per percorrere la strada della pacificazione. L’alternativa è il genocidio.


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