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CUBA
tratto dal n. 01 - 1998

CUBA. Appunti sul viaggio del Papa

Il protocollo e un incontro tra uomini


Non è stato solo un evento politico e religioso. Perché tra Giovanni Paolo II, che ebbe il ruolo di martello nel far crollare i regimi comunisti dell’Est, e Fidel, l’ultimo leader-fondatore di uno Stato socialista, si è creata una corrente di simpatia umana. Al Papa era successo solo con Reagan e Gorbaciov. Le prospettive per la Chiesa cubana


di Marco Politi


Passeranno alla storia anche le mani di Fidel e di Karol Wojtyla. Osservandole il giorno del commiato all’aeroporto dell’Avana, si capiscono molte cose. Giovanni Paolo II e Fidel Castro si danno l’addio ed entrambi tengono la destra dell’altro fra le proprie mani. È un intreccio affettuoso che non ha niente di protocollare. È il segno di un incontro fra uomini, al di là della loro carica.
Il viaggio a Cuba di Giovanni Paolo II, dal 21 al 25 gennaio scorso, non ha solo rappresentato un evento politico e religioso straordinario. È stato anche particolare per il suo risvolto umano. Tra l’ultimo leader-fondatore di uno Stato socialista e il Pontefice, che ha svolto il ruolo di martello nel far crollare il socialismo reale nell’Est Europa, si è creata una corrente di simpatia umana. Soltanto con due statisti Giovanni Paolo II ha avuto nei suoi vent’anni di pontificato un feeling speciale. Due statisti totalmente diversi per cultura e personalità: Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov. Ma entrambi accomunati da un’idea non “politichese” della propria missione, entrambi ispirati a una visione utopica del proprio ruolo. Reagan era convinto di dover lottare contro il cosiddetto Impero del Male per liberare un “Paese cristiano” come la Russia. Gorbaciov era animato da una grande carica morale nel suo sforzo (poi fallito) per riportare il sistema sovietico agli ideali dell’umanesimo marxiano.
Fidel Castro è rimasto affascinato dalla personalità di Wojtyla, dal suo messaggio di fede e di giustizia sociale ed ha accolto con profondo rispetto – come lui stesso ha dichiarato a conclusione della visita – anche quelle parole su cui poteva non essere d’accordo. Giovanni Paolo II, a sua volta, è stato colpito dalle “connotazioni umane” di Castro (come ha confidato un membro del seguito papale) e ha avvertito chiaramente che dopo il crollo del muro di Berlino il leader della revolución attinge nuovamente alle sorgenti nazionali, popolari, umanistiche che originarono il suo movimento. Sono convinto che Giovanni Paolo II intendesse riferirsi anche a Fidel, quando a proposito di Che Guevara ha dichiarato: «Io sono convinto che volesse servire i poveri».
Anche su questa base di intesa umana fra i due leader dovranno essere misurati gli sviluppi della situazione cubana a partire dal gennaio 1998. Nei cinque giorni della sua permanenza Giovanni Paolo II ha tracciato di fatto il manifesto della transizione politica nei suoi principi base: libertà di espressione, libertà di organizzazione, libertà di iniziativa della società civile, salvaguardia delle conquiste sociali del castrismo (nel campo dell’istruzione e della salute), partecipazione di tutti – anche dei dissidenti, che seguono la via pacifica – alla politica, pieno coinvolgimento dei cattolici nella vita pubblica, libertà di azione pastorale e sociale per la Chiesa, compreso il suo accesso ai mass media.
Il testimone passa ora alla Chiesa cattolica cubana. Giovanni Paolo II è stato molto attento durante tutta la sua permanenza a mettere in luce il ruolo-guida del cardinale Jaime Lucas Ortega y Alamino, arcivescovo dell’Avana. Ovunque andasse, il Pontefice si metteva a fianco il porporato in modo da mandare un messaggio chiaro ai dirigenti cubani. Come per dire: d’ora innanzi è con la Chiesa locale che dovete trattare, senza pensare di poter negoziare con la Santa Sede al di sopra della sua testa.
Sessantadue anni, creato cardinale nel 1994, Ortega y Alamino è arcivescovo dell’Avana dal 1981 e quando era sacerdote è stato punito dal regime con qualche mese in un campo di lavoro agricolo perché considerato “non conforme”, cioè non sottomesso. Come leader della Chiesa cubana è una personalità di notevole equilibrio, dotata di fiuto politico e soprattutto di carisma. Ortega y Alamino ha una grande capacità di entrare in contatto con l’uditorio. Il suo linguaggio caloroso, preciso, semplice, persino didattico, mai arido, coinvolge immediatamente i presenti. Lo ricordo a una messa all’aperto in una chiesa alla periferia dell’Avana, poche settimane prima dell’arrivo del Papa. Raccontava, tra gli applausi e le risate di sollievo, come i cubani avessero perso la paura di esprimere la propria fede: «Per lungo tempo il cubano ha detto: “Signore, Tu sai che crediamo in Te, ma sono obbligato a dire che non credo”. Ma la nuova generazione non accetta più queste ipocrisie». Quindi il porporato descriveva a tinte vivaci quei giovani, che non smettevano di cantare canzoni religiose una volta abbandonato il sagrato. «C’è sempre qualcuno» diceva il cardinale «che dice: “Da questo punto in poi” – la fine del perimetro della Chiesa – “non si può più”. Ma loro, i giovani, continuano a cantare...».
Partito papa Wojtyla, molti si sono chiesti se sulla Chiesa cubana calerà di nuovo la saracinesca. È estremamente difficile rispondere. Tutto lascia indicare il contrario. Perché il disgelo tra regime e comunità cattolica non è frutto dei dodici mesi che hanno preceduto la visita papale. È dal 1994-95 che le autorità hanno cominciato a consentire alla Chiesa una maggiore libertà di azione nell’ambito pastorale. La data non è casuale. Coincide con la svolta economica di Cuba, la “rettificazione”, cioè il programma caratterizzato dall’apertura agli investimenti stranieri e dalla creazione di zone economiche speciali dove le aziende estere o le joint-venture godono di privilegi particolari. Della nuova politica economica fa parte anche la libera circolazione del dollaro e l’autorizzazione a piccole attività private individuali nel campo dei servizi, della ristorazione, della manutenzione.
In questo clima di lento risveglio della società civile, anche i parroci delle grandi città hanno goduto di una libertà di movimento impensata negli Stati di tipo sovietico (Polonia a parte). Già da due, tre anni è cresciuto notevolmente in molte parrocchie il numero dei catechisti laici, e la frequenza di bambini e adulti alle classi di catechismo (che si svolgono nelle chiese) è passata da poche decine a parecchie centinaia.
Tra preti e fedeli si sono ristabiliti nuovi legami. «Nella mia parrocchia della Milagrosa» mi ha detto all’Avana padre Jesus Maria Luzarreta «abbiamo visitato con équipes di 160 laici già dieci volte tutte le 5.200 famiglie della parrocchia». E non è affatto un caso isolato. Rinascono tradizioni come le posadas, i pellegrinaggi natalizi con canti e preghiere di cortile in cortile. Riprendono intorno alle chiese processioni come quella della domenica delle Palme. Si creano “case di culto” presso famiglie, disposte ad accogliere nel proprio appartamento celebrazioni, lezioni di catechismo, predicazioni, o a distribuire materiale d’informazione religiosa nel vicinato.
In molti posti i parroci organizzano mense per gli anziani e gli infermi in collegamento con il servizio statale, a volte – come i salesiani dell’Avana – utilizzano l’oratorio per una specie di corsi di avviamento professionale. La Caritas ha varato progetti di assistenza domiciliare agli anziani, ai malati di Aids, ai ragazzi di quartiere.
Il fenomeno non è ristretto alla capitale. Anzi, nella diocesi di Pinar del Rio è in corso da quasi quattro anni un’esperienza pilota: un intellettuale cattolico, ingegnere agronomo di formazione, Dagoberto Valdes, ha fondato nella città un Centro di formazione civica e religiosa, che oltre a pubblicare una rivista estremamente vivace, Vitral, ha messo in piedi una sorta di università popolare con oltre quattromila partecipanti, la maggior parte al di sotto dei trent’anni. I corsi del Centro, che si svolgono nelle case e nelle chiese di Pinar, affrontano i temi del lavoro, dell’economia, della famiglia, dell’etica, del quartiere, della società. Dal Centro frontazioni», è stato il suo consiglio, lavorare insieme per il progresso di Cuba.


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