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ITALIA
tratto dal n. 01 - 1998

Perché la diminuzione delle nascite e l’invecchiamento demografico nel nostro Paese possono creare problemi di integrazione con il resto dell’Europa

Culla vuota, nazione povera


La popolazione continua a invecchiare. Le morti superano le nascite ormai da alcuni anni e solo il flusso migratorio dall’estero fa sì che non ci si accorga che la popolazione diminuisce. Uno studio statistico per capire gli effetti della denatalità


di Ornello Vitali


A intervalli periodici, si torna a parlare del problema della popolazione del nostro Paese, caratterizzato, nel tempo, da indicazioni di diverso segno che i mass media non trascurano di porre in evidenza. Tipica è la circostanza che, per il 1996, l’Italia ha fatto registrare un tenue aumento delle nascite di circa 11mila unità rispetto al 1995, riportandosi al livello del 1994. Appare difficile, tuttavia, interpretare tale circostanza come l’inizio di un nuovo ciclo ascensionale del fenomeno, troppi essendo i parametri, e di ben altra rilevanza, che spingono alla cautela.
Va innanzitutto sottolineato infatti che, ormai da un certo numero di anni, le morti superano le nascite, dando luogo ad un saldo naturale (per l’appunto la differenza fra nascite e morti) di segno negativo. Tale particolarità non è stata minimamente modificata dal segnale di ripresa delle nascite sopra specificato. E se il nostro Paese, nel complesso, non pone ancora in evidenza una diminuzione della sua popolazione totale, ciò è dovuto al saldo del movimento migratorio con l’estero che, nel periodo successivo al censimento del 1991, esprime un andamento costantemente positivo, con eccedenze degli immigrati sugli emigrati che sfiorano le 100mila unità annue.
Questa stentata dinamica della popolazione italiana che, secondo non pochi studiosi, prelude ad una sua diminuzione, soprattutto se, come ci impongono i trattati europei, saremo costretti a regolamentare i flussi immigratori extracomunitari, ha radici di lungo periodo che appaiono scarsamente suscettibili di modifica. In effetti, dopo il 1964, anno in cui si verificarono oltre un milione di nascite, il fenomeno ha manifestato una decisa tendenza alla contrazione, in linea con i mutamenti intervenuti nella nostra società, tanto che ormai i bambini nati superano di poco il mezzo milione annuo. Una diminuzione di grande portata, non avvertita nelle sue conseguenze a livello popolare nei cui confronti, anzi, hanno agito in passato precisi filoni culturali che sono riusciti a far credere che come conseguenza di quei comportamenti riproduttivi si sarebbe pervenuti a una condizione di benessere, il pieno avvento del Welfare State, che invece manifesta ben altri connotati.
Quanto si osserva per l’intero Paese è una sintesi di comportamenti che appaiono alquanto differenziati nelle diverse zone che lo compongono. In effetti, se si considerano le 46 province dell’Italia settentrionale si desume che soltanto 8 presentano un saldo naturale positivo, mentre nell’Italia centrale ciò accade 2 volte su 20. Si deve pertanto concludere che il Centro-nord costituisce ormai una vasta area in cui le morti superano le nascite. Concorre a rendere meno critica la situazione demografica complessiva del Paese, pertanto, il solo Mezzogiorno, ripartizione ancora a saldo naturale positivo, nella quale, peraltro, i segni negativi provinciali del saldo naturale stesso tendono ad aumentare nel tempo (cfr. la cartina qui a fianco).

Perché la popolazione italiana sicuramente decrescerà
Si è detto che il segnale riguardante il lieve aumento delle nascite è lungi dal potersi interpretare come una sostanziale ripresa del fenomeno. In effetti, il quoziente di natalità, esprimente il rapporto tra il numero dei nati-vivi e la popolazione residente, è passato dal 9,2 per mille al 9,3 per mille nei due ultimi anni considerati, ma è ancora piuttosto lontano dal 9,7 per mille del 1993. Come si vede, in termini relativi, si è in presenza di una risalita piuttosto esigua che, tuttavia, potrebbe essere stata prodotta anche dalla circostanza che sono entrati in Italia numerosi contingenti di individui provenienti dai Paesi in via di sviluppo, di solito a più alto potere riproduttivo. L’esperienza insegna, però, che tale effetto si esaurisce nel tempo, dato che la popolazione immigrata tende ad assumere i modelli riproduttivi propri di quella autoctona.
Tuttavia, ciò che maggiormente fa riflettere al riguardo è la fondamentale misura del “numero medio di figli per donna” (delle donne che si trovano in età feconda, cioè convenzionalmente da 15 a 49 anni). Come è noto, affinché sia assicurato il livello di sostituzione, cioè affinché una popolazione non imbocchi il sentiero della diminuzione, occorre che quel parametro si aggiri intorno al valore 2,1. Tenuto conto della circostanza che non tutte le coppie risultano feconde, per motivi biologici o per scelta, occorre cioè che ogni coppia di genitori dia alla luce in media un po’ più di due bambini. Se il parametro si discosta dal valore di riferimento sopra segnalato, la popolazione tende ad aumentare nel caso che superi 2,2 o 2,3, ovvero a diminuire se si attesta sull’1,9 o 1,8. E ciò accade, in prima approssimazione, con tanta maggiore rapidità quanto maggiore è la distanza esistente fra il numero medio di figli per donna effettivo e quello di riferimento.
La tabella acclusa sintetizza, con l’eloquenza delle cifre, sia la situazione dell’Europa dei Quindici (Eur 15), sia quella dei più importanti Paesi che la costituiscono con riferimento ad un arco temporale piuttosto esteso. Dalla sua osservazione si trae che la Comunità si situa su livelli di fecondità piuttosto precari per quanto attiene al livello di sostituzione. Fra i vari Paesi, a riprova di ciò che si è in precedenza asserito, l’Italia si trova in posizione più critica. Una situazione che non può non destare una qualche preoccupazione anche perché il dato medio dell’Italia nasconde comportamenti regionali (Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Emilia-Romagna e Toscana) per i quali il depauperamento demografico si rivela più sensibile: in esse, il parametro considerato risulta addirittura inferiore all’unità.

Effetti dell’invecchiamento demografico
Eppure, sino a poco tempo fa, non erano pochi coloro che vedevano con favore un arresto della crescita demografica e, al limite, l’avvio di un processo di diminuzione della popolazione, esistendo taluni motivi che spingevano verso questo tipo di soluzione. Essi si basavano però su assunzioni che, pur non disconoscendo gli aspetti scientifici del problema, introducevano considerazioni globali sostanzialmente da rifiutare e dissimulavano i veri termini della questione. In effetti, un conto è considerare la popolazione mondiale nel suo complesso, la cui crescita impetuosa può destare preoccupazione, e tutt’altra cosa è esaminare l’andamento demografico italiano o quello comunitario. In questi due ultimi casi, e segnatamente in quello del nostro Paese, vi è ormai un problema di sostegno di crescita della popolazione, pena la sua diminuzione o, anche, l’apertura indiscriminata delle frontiere, operazione quest’ultima che ci viene impedita, come detto, dall’adesione ai trattati internazionali europei.
Qui non è tanto il caso di considerare l’evoluzione del numero degli individui del nostro Paese, caratteristica pure assai importante, quanto di esaminare l’evoluzione delle sue strutture demografiche e, in particolare, quella per età. Ed è noto che un Paese che non cresce più dal punto di vista demografico, o anche che dà luogo ad una popolazione pressoché stazionaria, tende a presentare un invecchiamento della propria struttura per età, cioè ad invecchiare demograficamente. Ciò comporta una sovrarappresentazione delle classi di età anziane e una sottorappresentazione di quelle di età giovane, rispetto a strutture “equilibrate” che le popolazioni hanno mantenuto durante il lungo periodo in cui crescevano, sia pure a ritmi più o meno decisi.
e – e nel caso italiano costituiscono già una realtà pressante – altri problemi di natura spirituale, economica e sociale che non sono da sottovalutare.
Tralasciando i primi – che possono sintetizzarsi nella perdita di slancio che, a vario titolo, affligge un Paese in cui i giovani sono pochi – le questioni di natura economica e sociale che si profilano appaiono rilevanti. Anche perché esse sono di tipo strutturale e risultano inscindibilmente connesse proprio con i problemi dello Stato sociale che si volevano risolvere contenendo le nascite. In particolare, le difficoltà appaiono soprattutto pronunciate nel caso del sistema pensionistico, perché i pochi giovani che lavorano debbono, con i loro contributi, far fronte alle pensioni dei molti anziani. Ma esse si verificano anche nel settore sanitario, dove i molti anziani hanno bisogno di cure più estese e costose, ed in quello assistenziale, sia per individuare misure che facilitino ai giovani l’ingresso nel mondo del lavoro, sia perché, fra qualche anno, le pensioni potranno essere ridotte, col nuovo metodo contributivo recentemente adottato, ove la sostenibilità del nostro sistema economico lo dovesse richiedere.
Di qui sorge la necessità di riflettere in misura più approfondita sulla fase demografica del nostro Paese. In passato si è fatto poco o niente. Nemmeno al giorno d’oggi, però, malgrado qualche presa di coscienza che si manifesta anche ai più alti livelli di governo, si sta operando nella giusta direzione. Prova ne sia che una quota notevole dell’attivo della gestione delle prestazioni temporanee, quelle che dovrebbero servire per la maternità e per la rivalutazione degli assegni familiari, viene invece fatta confluire nel Fondo pensioni lavoratori dipendenti per il pagamento delle pensioni. Come è noto, infatti, con il passaggio dal metodo retributivo al metodo contributivo operato dalla riforma Dini (legge 335/95) per la liquidazione delle pensioni, l’aliquota di equilibrio si è dovuta portare dal 27,27 per cento al 32 per cento. Ci si domanda, a questo punto, che tipo di equità attuariale sia questa e, soprattutto, se e come si provvederà al riequilibrio della struttura per età della popolazione nel nostro Paese. È indubbio che, ove si procedesse lungo questa direzione, si verificherebbe una inversione della tendenza demografica eliminando in parte il disavanzo pensionistico attuale e futuro. Ma tutto ciò va considerato in un quadro ampio delle necessità del Paese, mentre anche la imminente legge sulle migrazioni sembra da esso svincolata. E così non rimane che sperare sulla non contraddittorietà delle misure che verranno varate.

(Ha collaborato Giuseppe Greco)


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