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LITURGIA/2
tratto dal n. 01 - 2003

Una messa per gli uomini d’Africa


Il rito zairese risponde a «tre fedeltà: alla fede e alla tradizione apostolica; alla natura della liturgia stessa; all’indole religiosa e al patrimonio culturale africano e zairese». L’esperienza di Venanzio Milani, vicario generale dei Comboniani, nel celebrare l’eucarestia secondo il nuovo rito africano


di Giovanni Cubeddu


La chiesa del Sacro Cuore a Rungu, al termine della messa domenicale

La chiesa del Sacro Cuore a Rungu, al termine della messa domenicale

«Mi toccò una missione, a Rungu, dove erano già stati i domenicani quarant’anni prima. Non era la situazione romantica di gente che non avesse idea del cristianesimo… E comunque, non ci si incontra tra “un missionario” e “un pagano”, ma tra uomini. A me non capitò di essere quello che portava nuovi catecumeni alla Chiesa, perché erano già i laici a farlo. Il missionario andava e viveva il cristianesimo, rendeva testimonianza alla comunità dei fedeli, tra i tanti problemi del villaggio, saldo nel Vangelo e nella Tradizione, anche sociale, della Chiesa. La testimonianza del sacerdote è l’annuncio del Signore. Ma lui deve essere uno del popolo: sta con i poveri, condivide. Sono queste le cose che la gente percepisce».
Padre Venanzio Milani sta ricordando gli anni della sua missione nello Zaire (attuale Repubblica Democratica del Congo), dal 1975 all’85. La Congregazione dei Missionari comboniani cui appartiene, da allora gli ha affidato la cura dell’intera Africa francofona, che mantiene ancora oggi da vicario generale.
La damigianetta da dieci litri
«Partivo per il mio solito giro il martedì e tornavo la domenica sera, vivevo come la gente del luogo», riprende padre Venanzio, «portavo con me solo l’acqua, per evitare infezioni. Io e la mia damigianetta da dieci litri: era quanto bastava per cinque giorni, e mangiavo quello che mi davano, cioè di tutto... Nel mio giro mi facevo accompagnare dal catechista: a lui era affidato, tra l’altro, il compito di controllare la gestione economica della cappella. Poi la sera, tutti assieme eravamo attorno al fuoco. Sono cose che succedono ancora oggi, mica nei tempi antichi…, è lì che si parla e vengono fuori tutte le notizie, si diventa amici».
Chiediamo quali fossero le domande più frequenti che esprimeva chi era interessato alla Chiesa, incontrando i missionari. Ma ci accorgiamo, dalla risposta, dell’astrattezza della nostra domanda. «Una mentalità non si crea in un momento. Il salto che si chiede a questi uomini per farsi cristiani è alto, e il cristianesimo penetra a poco a poco. Le persone si vengono a trovare in rottura con i membri della loro stessa famiglia. Tanto per cominciare nei confronti della superstizione, della stregoneria o di certe tradizioni locali per cui, ad esempio, se ad uno muore la moglie, questi ha diritto ad avere la sorella, e se muore il marito, la donna diventa proprietà della famiglia di lui. Ma altre cose della tradizione africana, invece, si possono ben valorizzare…». Così viene spontaneo introdurre un tema sentito, che diventa il centro del nostro colloquio: l’inculturazione.

L’inculturazione non è
un progetto. Il rito zairese
«Sia chiaro, deve essere fatta dagli africani, non da noi. Di fronte alla tradizione del popolo africano siamo noi missionari che ci acculturiamo, ed è l’africano che, affascinato e conquistato dal Vangelo, lo riesprime. Il problema dell’inculturazione è delicato, non scopriamo nulla... Vi sono sempre state in proposito numerose voci. Il cardinale Joseph Malula auspicava che il diritto canonico evitasse di scontrarsi con la realtà africana, altri suggerivano che non si dovesse essere “canonicamente rigidi”, ad esempio, sul matrimonio, dato che per gli africani esso è da sempre un atto che si compie “a tappe”. Allora, che cosa è l’inculturazione? Definirla non è semplice, ma di certo ad essa serve che l’uomo abbia assimilato il Vangelo e che il Mistero trinitario, l’incarnazione, e tutte le nostre care verità di fede, anche se riespresse nel linguaggio della cultura del popolo, siano conservate».
A padre Milani capita di celebrare, anche a Roma nella curia comboniana, la messa secondo il “rito zairese”. «A livello liturgico l’inculturazione appare meno problematica», afferma. E del rito zairese padre Venanzio è partecipe prima che teorico, nonché, in certo modo, tra patrocinatori. «È una forma di celebrazione eucaristica alla maniera africana, fondata sulla liturgia romana. E ci sono delle cose molto belle», ci spiega. «Anzitutto le espressioni che si usano: non dei concetti astratti o peggio, come da un po’ troviamo sempre più spesso nelle nostre preghiere o nei foglietti sui banchi delle chiese. Al posto di “bontà” l’africano preferirà dire che un uomo è buono e che una cosa è buona; “giustizia” per un africano significa che vi sono persone, cose e situazioni giuste. Il linguaggio è alla portata di tutti. E, se si vuole, è anche più poetico, meno incline alle formulazioni accademiche: da un certo punto di vista in esso c’è un primato della realtà».
Già nel 1961 l’episcopato congolese aveva auspicato un certo adattamento liturgico «tanto più necessario per il fatto che la comunità africana è fondata su base religiosa. Il culto è l’elemento unificante tutta la comunità…». Da qui iniziò l’iter che, non senza contrasti, condusse, il 30 aprile 1988, la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti ad approvare il nuovo ordinario della messa «adattato all’indole e alle caratteristiche del popolo zairese». Scrivendone tempo fa ai confratelli comboniani, padre Milani precisava quali fossero, a suo giudizio, i confini di questo rito, che risponde, nell’ordine, a «tre fedeltà: alla fede e alla Tradizione apostolica; alla natura della liturgia stessa; all’indole religiosa e al patrimonio culturale africano e zairese».
La comunione nella chiesa di Saint Mbaga a Kinshasa

La comunione nella chiesa di Saint Mbaga a Kinshasa

Padre Venanzio ci offre così alcuni spunti sul rito zairese.
«All’inizio della messa si fa la conoscenza di tutti i partecipanti – se c’è un ospite lo si annuncia, così che la comunità possa dichiarare di accoglierlo, e viene sempre ricordato chi è il celebrante e da dove viene – e segue l’invocazione dei santi. L’aspetto della comunione è molto evidenziato nella liturgia zairese: comunione con chi è presente alla messa e con coloro che ci hanno preceduti, con i santi. Cioè, non c’è solo la Chiesa peregrinante lì presente, ma, come in tutti gli atti fondamentali della vita di un africano, vi è sempre un legame con l’eterno. Quindi ci si mette alla presenza di Dio: tutta la Chiesa, peregrinante e trionfante assieme. A questo punto si danza attorno all’altare. Per gli africani danzare attorno ad un centro significa venerarlo e comunicare alla forza vitale che da lì scaturisce, per esserne irradiati e successivamente ritrasmettere quanto si è ricevuto.
Il rito penitenziale è svolto dopo la liturgia della Parola, come si trova anche nella Bibbia. In base a che cosa infatti posso riconoscere il mio peccato? In base al mio giudizio? Se compio l’atto penitenziale all’inizio della messa, potrebbe sembrare che sia così, mentre gli africani lo pongono di seguito alla liturgia della Parola, perché solo nell’aver incontrato il Signore, nel paragone con Lui, ascoltando le parole del sacerdote, scopro il mio peccato. E ho qualcosa per cui domandare perdono, qualcosa per cui chiedere aiuto. Quando si fa l’aspersione con l’acqua santa dopo il rito penitenziale, si dice: “Signore, prendi i miei peccati, buttali nel profondo dell’acqua della tua misericordia e dimenticali”.
A questo punto seguono il rito della pace e la preghiera dei fedeli (perché solo in pace con Dio possiamo vivere in pace tra noi) e qui scaturisce la preghiera per i propri cari, gli amici, la parrocchia, la Chiesa, il mondo.
C’è un legame profondo tra il celebrante ed il popolo, ma è mantenuto anche attraverso una figura intermedia. Oggi molti sacerdoti esagerano quando infilano introduzioni, commenti e/o riflessioni in ogni momento della liturgia: tutte omelie improprie. Gli africani non lo apprezzerebbero, direbbero che ciò non è consono al sacerdote. Perciò nel rito zairese è stato posto un “annunciatore” che segnala ed introduce elementarmente i diversi momenti della messa».

Quei canti che sono poesia.
La liturgia dei piccoli
«La musica congolese è apprezzata in tutta l’Africa. Il talento musicale è diffuso nella Chiesa, dai sacerdoti fino agli arcivescovi Monsengwo e Matondo, al cardinale Etsou. Grazie al cielo, in Congo ci sono dei canti musicalmente belli, belli come testo, aderente al dettato biblico e non inventato, e leggeri come i versi della poesia africana. Ad esempio, il prefazio non è mai costruito come un monologo, ma come un dialogo (ugualmente la predicazione, ed è impressionante sentire certi botta e risposta del popolo nelle omelie…). Quando il prefazio è cantato – “ti lodiamo Signore che hai creato le foreste e gli animali, che hai creato il fiume ed i pesci” – il popolo risponde cantando. Anche al Canone il popolo risponde cantando. È come la preghiera eucaristica dei fanciulli, dove i bambini vocianti rispondono. Ecco, gli africani vivono spontaneamente la liturgia dei piccoli, a cui il Signore preferisce rivelarsi».
La danza attorno all’altare durante 
il Gloria, nella chiesa di Saint Mbaga

La danza attorno all’altare durante il Gloria, nella chiesa di Saint Mbaga


Ad experimentum
Viene fuori però che la strada per l’approvazione del rito zairese non è stata in discesa, che Roma ha frapposto difficoltà. «All’inizio ha permesso alcuni “esperimenti”. La prima autorizzazione fu rilasciata ai tempi della riforma liturgica. Ma forse Roma non sapeva tutto quello che succedeva. Io stesso, ad esempio, mi trovai da missionario a dover preparare il rito della celebrazione domenicale nelle cappelle dei villaggi che erano privi di sacerdote e mi basai sul rito zairese allora ad experimentum. Secondo Roma, tale rito sarebbe dovuto essere un tentativo circoscritto, invece in Congo era già ovunque praticato. Poi c’è stato un tempo di mancata comunicazione e di incomprensione con Roma. Infine, dopo una visita “ispettiva” in Congo di monsignor Noè, segretario della Congregazione per il culto divino, il rito fu definitivamente approvato.
Talvolta però, usando il rito zairese, alcuni missionari rischiano di dare spazio ad un folklore che in questo rito proprio non c’è, e che distoglie dal senso dell’eucarestia. Esiste la danza, o meglio dei gesti ritmici, al momento dell’ingresso, al Gloria, all’offertorio, mentre si portano i doni, e alla processione per la fine della messa. Andate alla chiesa di Sant’Alfonso a Mateke, che è stato uno dei luoghi d’origine del rito zairese: non vedrete mai delle “ballerine”, bensì l’assemblea dei fedeli che batte le mani e canta ritmando con il capo».

Il nostro Mistero
non è esoterico
Accennando alla staticità di Roma nel procedere sulla via dell’inculturazione, padre Milani ha aperto un dossier scottante. Come si custodisce il Mistero, pur usando di una certa “creatività” liturgica? Spiegazione: «Che il pane diventi il corpo di Cristo, che il vino diventi il sangue di Cristo, che quando il sacerdote dice la preghiera consacratoria venga ripresentata e riattuata la redenzione… questo è il Mistero. Cioè: in questa celebrazione è presente per noi di nuovo la redenzione di Cristo. Mistero non è rendere le cose misteriose, non è esoterico il nostro Mistero, noi siamo cristiani.
Il rito penitenziale nella parrocchia di Bibwa a Kinshasa

Il rito penitenziale nella parrocchia di Bibwa a Kinshasa

Non dobbiamo occultare le cose semplici per renderle “misteriose”. Il Concilio Vaticano II afferma che la liturgia esige la partecipazione dei fedeli: se devono partecipare dovranno pur capire… Quando il cardinale Ratzinger insiste sulla liturgia intesa come adorazione sono d’accordo, ma la liturgia è adorazione e insieme azione del popolo cristiano, come indica la parola stessa. Che talora nella nostra liturgia occidentale manchi il silenzio, che ci sia sempre più agitazione, su questo concordo con Ratzinger. Per carità, può accadere anche nel rito zairese… di allungare i tempi. Ma l’idea stessa di tempo è diversa per gli africani: esso non è una conquista, e se la messa è la cosa più importante della giornata, merita il tempo necessario. Per questo, nel rito zairese, prima delle letture troviamo una breve spiegazione, poi il silenzio, cui segue un canto appropriato, con testi biblici. Si canta anche dopo la seconda lettura, prima dell’Alleluja, come introduzione alla proclamazione del Vangelo. “Fratelli, il Verbo di Dio si è fatto carne” dice il prete, accingendosi a leggere, e il popolo risponde: “E abita in mezzo a noi, ascoltiamolo”. Perché tutti ricordino che quando nella Chiesa si legge il Vangelo, è Gesù Cristo che parla».
Il padre Milani vuole lasciarci con l’impressione che, per certi aspetti, il rito zairese mostri le cose più concretamente... «E le rende più partecipate, in armonia col creato, la cui bellezza viene esaltata, secondo la sensibilità degli africani. I quali è come se riscoprissero ogni volta che la celebrazione della messa dona pace all’uomo, mette pace tra le persone e con il creato in genere. La messa è resa molto più comprensibile».

Evitarono lo scontro
con una constatazione
di fatto

«A proposito del rito zairese e della libertà nella Chiesa, vorrei concludere con un episodio. Tutti ricordiamo la “questione della materia” dell’eucarestia, che è stata lunga, estenuante. Ci fu una grandissima discussione al Concilio. La questione ha interessato il mondo missionario, visto che quella che prima abbiamo chiamato “creatività” dei missionari è il tentativo di rendere più familiare il Mistero agli uomini di altri continenti, secondo segni a loro comprensibili. È chiarissimo che non tutte le materie possono essere materia eucaristica, perché non tutte significano quello che avviene nel sacrificio eucaristico. Detto ciò, tutti i dibattiti furono risolti a favore del pane e del vino, con la motivazione che oggi si possono avere entrambi con facilità ovunque nel mondo. Dunque i padri conciliari evitarono lo scontro con questa constatazione di fatto, non vollero insistere in un confronto teologico sulla materia dell’eucarestia».


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