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LA FEDE DEGLI APOSTOLI
tratto dal n. 01 - 2008

ET RESURREXIT TERTIA DIE SECUNDUM SCRIPTURAS

Visibile o invisibile? Dialogo sulla realtà di Cristo risorto


Risposta di Massimo Borghesi, professore ordinario di Filosofia morale nella facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia


di Massimo Borghesi


<I>L’incredulità di Tommaso</I>, Caravaggio, Bildergalerie, Potsdam-Sanssoucis

L’incredulità di Tommaso, Caravaggio, Bildergalerie, Potsdam-Sanssoucis

Pregiatissimo professor Torres Queiruga, la ringrazio della sua lettera che, in un panorama teologico-filosofico stagnante, offre l’occasione di riflettere su un tema di grande rilievo. Nel mio articolo, che recensiva il suo volume La risurrezione senza miracolo (Edizioni La Meridiana, Molfetta 2006), non affrontavo sistematicamente il suo pensiero1. Mi aveva colpito il taglio idealistico, hegeliano, con cui lei trattava della risurrezione di Cristo. La sua lettera mi ha indotto ad approfondire la sua riflessione sull’argomento con particolare attenzione al suo volume Repensar la resurrección, tradotto anche in italiano2. La sua lettura mi permette di chiarire come oggetto della mia analisi critica non sia la sua fede personale – che lei ha il pieno diritto di rivendicare – quanto la teologia e la filosofia sottese alla sua interpretazione del cristianesimo.
Lei è fermamente convinto che la trasmissione e la comprensione della fede, nel mondo contemporaneo, richiedano in teologia un «cambiamento di paradigma»3, la «necessità di un cambiamento globale e strutturale»4. Per esso si ha una «decostruzione della visione tradizionale»5, una decostruzione «sulle narrazioni pasquali»6 che porta a una loro «lettura non fondamentalista»7, cioè non letterale. Nel far ciò lei assume come guida e maestro Rudolf Bultmann, il quale «ha dimostrato in maniera irreversibile essere “mitologica”»8 la visione neotestamentaria così come è espressa nel linguaggio (ingenuamente) realistico dei Vangeli. Per Bultmann «mitologica è la concezione in cui il non-mondano, il divino appare come mondano, umano, e l’aldilà come l’aldiquà»9. Mitologica è, dunque, l’intera Rivelazione cristiana nella misura in cui intende l’operare di Dio in modo storico-empirico; mitologici sono i miracoli, segni sensibili della potenza divina. Come afferma Bultmann, con disarmante semplicità: «Non ci si può servire della luce elettrica e della radio, o far ricorso in caso di malattia ai moderni ritrovati medici e clinici, e nello stesso tempo credere nel mondo degli spiriti e dei miracoli propostici dal Nuovo Testamento»10. Lei non accede alle stesse conclusioni radicali del teologo di Marburg. Lo segue, però, nell’idea di fondo, quella per cui il discorso neotestamentario «in quanto discorso mitologico, non è credibile dagli uomini di oggi»11. Questa persuasione la porta alla convinzione che sia venuta l’ora di un rivolgimento globale, nella teologia del Gesù risorto, le cui linee tento qui, brevemente, di riassumere.

Teodicea razionalistica, teologia del «non accadimento», cristianesimo «socratico»
Il primo e fondamentale presupposto di Bultmann è bene espresso da David Friedrich Strauss nella sua Leben Iesu del 1835: «Il divino non può essere accaduto così (anzitutto in modo immediato, e poi per di più in modo rozzo) o ciò che è accaduto così non può essere divino»12. Si tratta del postulato razionalistico per cui Dio (se esiste) non può agire o manifestarsi sensibilmente nello spazio e nel tempo. Dio non può essere causa di eventi particolari ma solo fonte delle leggi universali. Questo porta Strauss (e con lui Bultmann) a una «filosofia del non accadimento»13, a una teoria che è la sistematica negazione della possibilità dell’Incarnazione. Ciò non sorprende. Dal Deus sive natura di Spinoza, al «largo fossato» tra le casuali verità storiche e verità universali di Lessing, alla critica alla fede superstiziosa di Kant, l’iter è il medesimo: Dio non può manifestarsi nella storia. Panteismo e deismo, da versanti diversi, si oppongono all’Antico e al Nuovo Testamento, alla fede ebraica così come a quella cristiana.
In modo singolare lei, nel suo volume Ripensare la risurrezione, accede a tale punto di vista criticando il «deismo interventista [sic!14, il quale opera mediante “miracoli”, cioè interventi puntuali nello spazio e nel tempo. Questa idea del divino, che si esprime nelle preghiere e nelle formule della pietà cristiana, è per lei espressione di uno «schema immaginativo»15 (di tipo kantiano) di una mentalità ingenua, popolare, che non comprende che Dio, in realtà, non opera mediante miracoli ma attraverso una creatio continua che non viola l’autonomia del mondo con le sue leggi naturali. In ogni istante Dio fa «tutto quanto è possibile: “poeta del mondo”, cerca di portarlo alla massima realizzazione permessa dai limiti e dalle incompatibilità inerenti alla sua finitezza»16. Così lei torna (consapevolmente) a Leibniz e alla sua idea del migliore dei mondi possibili. «Dio “potrebbe” non aver creato il mondo ma, se lo ha creato, questo è finito e, se è finito, in esso non possono non comparire la carenza e la contraddizione: il male. Altrimenti il mondo sarebbe infinito come Dio»17. In tal modo «il male, come già aveva visto Leibniz […], ha la sua condizione di possibilità nella finitezza»18. Dio, creando il mondo in quanto finito, crea, con esso, la necessità del male. Il male è necessariamente connaturato alla finitezza, ontologicamente intrinseco alla natura finita. Non so se lei si rende conto delle valenze “gnostiche” di questa posizione e della sua inconciliabilità con la dottrina cristiana.
È singolare comunque come questo “ritorno a Leibniz” trascuri le critiche di Voltaire, critiche dalle quali emergono, con tutta evidenza, i limiti della teodicea razionalista. Per essa con il cristianesimo non accade nulla di veramente nuovo, di nuovo rispetto alle cause antecedenti. La “teologia del non accadimento” è quella per cui il cristianesimo è ridotto a manifestazione di un processo in atto, a disvelamento di ciò che, implicitamente, è già presente nella natura.
Se non esistono miracoli e l’azione divina è immanente alla natura allora la “Rivelazione” diviene l’atto di conoscenza mediante cui l’uomo religioso si accorge del carattere divino del mondo. La “Rivelazione” viene a coincidere con una gnosi salvifica. «In definitiva, la rivelazione consiste nel “rendersi conto” che Dio, come origine fondante e amore comunicativo, è “già dentro”, in quanto abita la creazione e in essa si manifesta. Lo fa vedere soprattutto nell’essere umano, cercando di farci scoprire la sua presenza, vincendo la nostra cecità e spezzando le nostre resistenze: noli foras ire: in interiore homine habitat veritas»19. La Rivelazione si risolve e che l’abita e la dinamizza»20. Il cristianesimo diviene una «maieutica storica»21, Cristo un novello Socrate che aiuta i discepoli a trovare, nella loro esperienza interiore, la certezza di un’esperienza di risurrezione che non abbisogna di alcuna conferma esteriore. In tal modo, come osservava Ratzinger in un saggio sempre attuale del 1970, «nel cristianesimo non viene più a noi qualcosa dal di fuori che possiamo ricevere come nuovo e indeducibile da noi stessi, diventa invece oggettivo ciò che è pur sempre orizzonte del nostro pensiero e della nostra riflessione. In questo modo la storia, in quanto extra, è divenuta troppo insignificante e fondamentalmente spacciata a favore dell’ontologia. È scomparsa l’ek-stasi della fede per l’en-stasi dello sprofondamento filosofico»22.

«Come non ricordare i tentativi di una gnosi sempre rinascente sotto molteplici forme[...] di cui una temibile china tende a svuotare impercettibilmente tutte le ricchezze e la portata di quello che è innanzitutto un fatto: la risurrezione del Salvatore» papa Paolo VI
La struttura contro l’Evento
L’assimilazione della Rivelazione al piano della creazione, della grazia alla natura, dell’esteriorità – nel senso di Emmanuel Lévinas – all’interiorità, conduce all’affermazione per cui la Rivelazione è «presente in tutte le religioni e perfino in ogni conoscenza filosofica»23. Lei mostra, in tal modo, di condividere la prospettiva del cristianesimo trascendentale, “anonimo”, già criticata da Henri de Lubac e da Hans Urs von Balthasar24. Si tratta di un modello che da un lato è l’erede dell’idealismo postkantiano e, dall’altro, si impone nel clima degli anni Settanta, segnato, a livello culturale, dall’egemonia dello strutturalismo. Questa corrente, come lei sa, non ammette avvenimenti, salti qualitativi nel processo storico. L’evento viene compreso, anticipato, diluito, all’interno di una struttura, di una rete di rapporti già data, di un orizzonte. Così nel modello strutturale-idealistico Gesù “diviene” Dio o “appare” come Dio solo all’interno di una struttura apocalittica propria dell’ebraismo. La struttura traccia la continuità di un processo; ciò che non vede è la discontinuità. Non vede il “nuovo paradigma” che lei, richiamandosi a T. S. Kuhn, vuole applicare alla teologia contemporanea. Così è vero che in Cristo le attese messianiche di Israele, apocalittiche, sapienziali, si compiono, ma il compimento non è dato al modo di una sintesi ma di una figura nuova che, dando forma ad aspetti eterogenei (il Re glorioso di Israele e il Giusto umiliato e sofferente), non può essere dedotta da ciò che la precede. L’Evento eccede la struttura. Non recependo questa novità, lo strutturalismo teologico è un trattore che livella, azzera, spiana. La «struttura teologica»25, a cui lei si richiama, è un modello per cui, nell’antico Israele, i profeti, assassinati dagli uomini, sono rivendicati da Dio. È quanto accade nel tardo giudaismo con l’episodio dei martiri Maccabei. Dio non può non risuscitare i giusti d’Israele. Questo modello diviene, per lei, il criterio esplicativo della coscienza della Risurrezione: «La fede nella risurrezione deve realizzarsi dentro una identica struttura»26.
Questa è costruita secondo una duplice scansione. Da un lato Gesù viene visto come il culmine della «speranza che l’escatologia corrente, di taglio apocalittico, spostava alla fine dei tempi»27. Qui prende forma la fede nel Risorto poiché «senza questo orizzonte difficilmente potrebbe essere compresa la risurrezione di Gesù: in esso ha le sue radici»28. D’altro lato Gesù viene compreso come “risorto” per il suo particolare destino di morte. Come le segnalavo nel mio precedente articolo il suo procedere ricorda qui la dialettica contraddizione-riconciliazione propria di Hegel: il positivo può attuarsi solo mediante l’abisso del negativo, l’idea di risurrezione tramite l’esperienza della morte. Questa lettura dialettica la porta a rifiutare la lettera del testo evangelico, quella che insiste sullo scandalo di fronte alla croce, la fuga dei discepoli, la loro paura. «Questa visione conta indubbiamente su due forti sostegni: da un lato, il prestigio che le fornisce l’essere molto presente nello schema redazionale delle stesse narrazioni evangeliche e, dall’altro, il suo prestarsi a essere usata come facile risorsa apologetica: qualcosa dovette succedere tra la mancanza di fede, che portò alla codarda fuga, e la viva fede che trasformò i discepoli in araldi coraggiosi e audaci. Questo qualcosa sarebbero gli avvenimenti eccezionali e miracolosi che li portarono a confessare la risurrezione»29.
Questa ragionevole spiegazione, che motiva il passaggio dallo scandalo della morte in croce alla fede nel Risorto, è però da lei rifiutata con una motivazione che, se permette, è del tutto opinabile. Secondo la sua argomentazione non è ammissibile che i discepoli, che erano amici di Gesù, lo abbiano abbandonato nell’ora della morte. «Avrebbero dovuto essere autentici mostri sul piano psicologico e una vergognosa eccezione sul piano storico. Perché ogni volta che un grande leader muore per fedeltà alla sua causa, ciò che suscita è precisamente un rafforzamento nell’adesione e un aumento di prestigio»30. Lei argomenta qui in modo davvero singolare. La sua spiegazione potrebbe avere una sua plausibilità di fronte a un leader politico messo a morte: «I “criminali” di Roma erano gli eroi del popolo da essi soggiogato»31. Ma di fronte a uno che aveva avanzato la pretesa di essere il Messia e il Figlio di Dio la morte è scacco e fallimento. Lei non può aggirare, come fa l’idealismo, questo nodo, non può togliere lo scandalo del Venerdì Santo storico e ridurlo al «Venerdì Santo speculativo» (Hegel). La morte in croce non è il “catalizzatore” della Risurrezione, è l’ora delle tenebre in cui gli amici fuggono. L’iconografia cristiana ha impiegato più di un millennio per raffigurare il crocifisso negli spasimi della morte. Come può pensare che quella vista del Calvario, devastante per chi lo aveva conosciuto, potesse indurre a “immaginare” uno che vince la morte? La sua fiducia che dal negativo proceda il positivo, è, in realtà, l’ultima eredità della dialettica hegeliana. Se la dialettica non è la legge della storia la sua argomentazione è solo opinione.

«Ancora oggi vediamo questa tendenza manifestare le sue ultime drammatiche conseguenze giungendo a negare, da parte di fedeli che si dicono cristiani, il valore storico delle testimonianze ispirate o, più recentemente, interpretando in modo puramente mitico, spirituale o morale, la risurrezione fisica di Gesù» papa Paolo VI
Il Risorto “invisibile”
La fede dei discepoli non nasce quindi da “qualcosa” di nuovo – un avvenimento – che è accaduto dopo la morte di Cristo in croce. Non dall’esperienza sconvolgente, empirica, di un corpo trafitto che torna a rivivere in forme nuove, analoghe rispetto alla condizione fisica precedente. No. La certezza che Cristo è risorto dipende solo dalla struttura, dal trascendentale, dall’orizzonte precomprensivo dei discepoli, da un modello teorico. Questo modello assume la forma di un sillogismo: 1) Dio, giusto, non può non risuscitare tutti coloro che muoiono per la giustizia. 2) Gesù, morto in croce, è giusto. 3) Gesù non può non essere risuscitato da Dio. L’idea di Risurrezione è una conclusione logica, il risultato di un ragionamento.
Come scrive Giuseppe Barbaglio, nel numero di Concilium curato da lei e dedicato a “La risurrezione dei morti”, ai discepoli «è successo che da una catastrofe psicologica è nata una personale “risurrezione”: sono risorti a un’esperienza nuova di fiducia in Gesù. Come è potuto avvenire? Si sono interrogati, sono riandati con i ricordi alle parole e alla vicenda del Maestro, hanno meditato – si suppone – le Scritture e hanno concluso che questa loro risurrezione spirituale non è stata un’autonoma impresa: non un processo psicologico di elaborazione del lutto, della perdita, bensì un dono di grazia dello stesso Gesù; e l’hanno interpretata come “apparizione”»32. Si tratta di una deduzione, di una «“apparizione” di Cristo non ai loro occhi, bensì alla loro vita»33.
Le apparizioni pasquali sono interpretazioni, risultato di una operazione mentale la cui fonte viene attribuita a Dio. Il mentalismo – ciò che in precedenza chiamavo idealismo – spiega il no a ogni descrizione realistica, sensibile, carnale, del Risorto. «La presenza del Risorto in sé stessa non è accessibile ai sensi corporei, perciò le “apparizioni” nella misura in cui fossero “fisiche” non potrebbero essere apparizioni del Risorto. Chi prende, più o meno, alla lettera questi racconti deve tenere conto di trovarsi davanti a una interpretazione, vale a dire a un processo mediante il quale qualcosa di accaduto nel mondo induce nel protagonista la convinzione di una presenza non-mondana, di carattere trascendente»34. Ciò che viene visto è il Gesù morto, non il Gesù risorto. Il carattere trascendente della Risurrezione è incompatibile con un’esperienza empirica: «Toccare col dito il Risorto, vederlo venire sulle nuvole del cielo o immaginarlo mentre mangia sono raffigurazioni d’innegabile taglio mitologico»35. La «visione del Risorto […] non ha semplicemente senso»36, di più, «è impossibile»37. La Risurrezione non è un miracolo, «nel senso di un avvenimento empiricamente verificabile»38, non è un «avvenimento storico»39. Collocata nello spazio dell’agire trascendente di Dio essa non ha visibilità nel mondo. Essa diviene certa solo in quanto corrisponde alla struttura, al modello messianico-apocalittico che, in Cristo, trova una sua raffigurazione esemplare. «In concreto, attraverso il destino di Gesù, la comprensione dell’azione risuscitatrice del “Dio dei viventi”, già prima scoperta nel suo significato fondamentale, raggiunge il suo vertice»40. L’esperienza dei discepoli non sta qui nella «rottura della storia mediante processi miracolosi» ma «nella corretta captazione e interpretazione di ciò che la situazione concreta, in quanto determinata dall’azione salvatrice di Dio […], sta manifestando alla coscienza credente»41.
Il cristianesimo, da Evento – fatto nuovo che irrompe nella storia, presenza “carnale” del divino nel mondo –, si tramuta qui in ermeneutica, interpretazione, captazione. Non potrebbe essere altrimenti, dato che sul piano empirico non accade nulla, nulla di fenomenicamente rilevabile. «La risurrezione avviene sulla croce stessa»42, non v’è uno iato tra la morte e la risurrezione di Gesù, la «teologia dei tre giorni»43 è insostenibile. Così come lo è quella dello «stadio intermedio»44 che separa il destino delle anime dalla risurrezione corporea nell’ultimo giorno. Ciò è possibile perché – e qui, mi permetta, risiede tutto l’equivoco della sua lettura – la risurrezione non indica la risurrezione della carne. “Ripensare la risurrezione”, per lei, significa purificare la credenza nella sopravvivenza personale dopo la morte da ogni connotazione fisicistica. Questo spiega la sua tranquilla accettazione del «sepolcro non vuoto»45 di Gesù, l’affermazione sulla «preservazione della identità di Gesù nonostante la permanenza del suo cadavere nel sepolcro»46. Cristo risorge come spirito, non nella sua umanità corporea. Risorge non il corpo, né solamente l’anima, «ma la “persona” nella sua nuova (per noi incomprensibile) configurazione in quanto contrapposta al “cadavere”»47.
Nel dualismo tra anima-persona e corporeità la sua riflessione ritrova la classica opposizione tra Ellade e Israele che Oscar Cullmann ha portato alle estreme conseguenze. La credenza nella risurrezione corporea, così come si esprime nelle narrazioni pasquali, è, per lei, una conseguenza della mentalità ebraica dei discepoli. «Dati il loro contesto culturale e la loro antropologia, non potevano pensare né esprimere altrimenti l’esperienza che stavano vivendo»48. I discepoli, cioè, potevano pensare la Risurrezione solo a partire «dal carattere prevalentemente unitario dell’antropologia biblica»49. Essi «interpretando la risurrezione di Gesù secondo gli schemi di un avvenimento empirico (tomba vuota, apparizioni empiriche) fecero quanto era allora culturalmente possibile»50. Come per Bultmann, un ebreo del I secolo non poteva vedere il mondo che all’interno dell’involucro del mito. Non “vedeva” cose reali; “interpretava”. Vedeva all’interno di una “visione del mondo” (Weltanschauung) che deformava il suo sguardo. Questo presupposto dello storicismo postilluminista, per cui solo noi uomini del XX-XXI secolo siamo in grado di distinguere tra immaginazione e realtà, la porta a negare la possibilità che i discepoli siano testimoni oculari51, a negare valore giuridico alla loro testimonianza52. «Oggi sappiamo che le narrazioni [del Cristo risorto] non possono essere prese alla lettera poiché sono costruzioni immaginifiche sulla base di ricordi del Gesù che i discepoli avevano visto e udito»53.
Le descrizioni delle apparizioni del Risorto sono «costruzioni immaginifiche»! Personalmente se pensassi così non sarei cristiano ma il più radicale degli idealisti! Le apparizioni pasquali, nell’orizzonte idealistico, sono costruzioni teologiche, non descrizioni di fatti che hanno rilevanza teologica. Lo sono al pari dei miracoli, compreso quello della risurrezione di Lazzaro che vale solo come «illustrazione simbolica»54 della risurrezione di tutti. «Il miracolo di Lazzaro non è mai accaduto; il miracolo di Lazzaro accade sempre»55. Questa è davvero la teologia del non accadimento.

«“Non è più legato alle frontiere dello spazio e del tempo. Si muove con una libertà nuova, sconosciuta sulla terra, ma allo stesso tempo viene affermato con forza che Egli è Gesù di Nazareth, in carne e ossa, quello che ha vissuto precedentemente con i suoi, e non un fantasma”. [...] Non si tratta dunque soltanto della sopravvivenza gloriosa del suo io» papa Paolo VI
Lo spirito (idealistico) contro la lettera (realistica)
Nel mio articolo precedente criticavo la sua posizione in quanto idealistica. Nella sua lettera di risposta lei si mostra sorpreso di questo rilievo e afferma di essere decisamente “realista”. La lettura di Ripensare la risurrezione mi conferma, però, che la sua prospettiva è assolutamente interna al punto di vista idealistico-trascendentale. È questo punto di vista che la porta a negare la possibilità di un’esperienza empirica di Cristo risorto. La porta a negare ogni connotazione fisica, evidentemente di una fisicità trasformata, a Gesù risorto. Donde il modo ambiguo in cui lei usa il termine “risurrezione” che, dal suo punto di vista, è una «metafora pericolosa»56. In effetti la sua “decostruzione” del racconto evangelico, che vorrebbe conservarne lo “spirito” superandone la “lettera”, lascia nel lettore – sono parole sue – «una certa sensazione di artificio o addirittura di in-esegesi, come se si fosse introdotto nei testi qualcosa che in nessun modo essi contengono»57. Le confermo, dal mio punto di vista, che l’impressione è giusta. La violenza ermeneutica, propria della posizione idealistica, è quella di capovolgere l’ordine delle cause e degli effetti. Nel caso della Risurrezione questo implica che ciò che viene dopo (la fede nel Risorto) diviene la causa di ciò che viene prima (la vista del Risorto). Così lei raccoglie le argomentazioni di Wolfhart Pannenberg, derivate da Paul Althaus, per cui il kerygma della Risurrezione «non avrebbe potuto reggersi in Gerusalemme né un giorno, né un’ora, se il vuoto della tomba non fosse constatato da tutti gli interessati come un fatto reale»58. Per l’antropologia ebraica non era possibile credere a Gesù risorto se il suo cadavere continuava a giacere nel sepolcro. Lei riconosce che, in questo caso, si tratta di argomentazioni “serie”, e tuttavia ne conclude, all’inverso, che «l’esperienza della risurrezione di Gesù ha fatto sì che i discepoli credessero la tradizione della tomba vuota»59. Aggiunge che «l’ipotesi del sepolcro non vuoto permette una lettura molto più coerente e di maggior forza semantica [sic!]»60. Perché, le chiedo? Perché l’ipotesi del sepolcro non vuoto dovrebbe essere più plausibile? Dal punto di vista razionalistico lo comprendo: qui vale la spiegazione che i discepoli, di nascosto, hanno trafugato il cadavere. Ma dal punto di vista del racconto evangelico? Lei stesso riconosce che nel caso del sepolcro vuoto «esegeticamente non è possibile dirimere la questione, poiché, in pura analisi storica, ci sono ragioni serie tanto per l’affermazione quanto per la negazione»61. Ammesso e non concesso che le cose stiano così, perché allora optare per l’ipotesi del sepolcro non vuoto? La risposta non può che essere una: perché lei accetta il kantismo di Bultmann come un assioma indubitabile. Per una opzione filosofica, non per una evidenza esegetica. Lei opta per Bultmann, persuaso che solo così lo “spirito” del Vangelo può comunicarsi all’uomo moderno. Rifiuta la “lettera” per una sorta di apologetica succube dell’idealismo moderno. In tal modo il messaggio cristiano potrebbe tornare a essere accessibile a orecchie che non vogliono sentir parlare di miracoli e di un Risorto in carne e ossa. Si trascura che lo scandalo di fronte a uno risuscitato dai morti è già nella reazione pagana al discorso di Paolo all’Areopago di Atene (At 17, 31-32). Il suo razionalismo vuole togliere questa possibilità. Tipico è il modo in cui lei risolve il dilemma della tomba vuota. Cioè affermando che «superate le aderenze dell’immaginario che rappresentano il Risorto come ritornato a una figura (più o meno) terrena e preso in tutta serietà il carattere trascendente della risurrezione, la permanenza o no del cadavere perde di rilevanza»62. Se il Risorto non ha alcun rapporto con il proprio corpo il problema del cadavere, presente o meno nel sepolcro, non ha più importanza. Si tratta però di una violenza ermeneutica la quale non de-mitizza il “mito”, ma, al contrario, riduce a mito quanto, nel testo evangelico, ha valore storico. Lo può fare perché l’esegesi è guidata da un’originaria precomprensione filosofica che ha già deciso, in via preliminare, che il divino non può manifestarsi e agire in forma umana. Così in Bultmann «le sue conclusioni esegetiche non sono il risultato di constatazioni storiche, ma provengono da un insieme strutturato di presupposti sistematici»63. Questo lo riconosce anche lei quando afferma che «non è l’esegesi dei dettagli quella che decide l’interpretazione finale, ma la coerenza dell’insieme»64. Questa coerenza deve essere capace di «offrire una risposta alle legittime esigenze della cultura attuale»65, dove per “cultura attuale” si intende il razionalismo postidealistico. L’orizzonte filosofico decide, in tal modo, dell’ermeneutica del testo biblico. Assume una priorità ideale. Così si condivide appieno l’orizzonte di Bultmann il quale «è convinto che i fatti, così come sono descritti nella Bibbia, non possono essere accaduti, e trova dei metodi che dovrebbero mostrare come in realtà sarebbero accaduti. A questo livello, l’esegesi moderna comporta una “reductio historiae in philosophiam”: la storia viene ricondotta alla filosofia e attraverso la filosofia»66. Una esegesi autentica, al contrario, non può escludere, a priori, che Dio possa entrare e agire “sensibilmente” nella storia umana. Questa ipotesi è la Rivelazione cristiana.

«E la Chiesa esorta, sempre sotto la guida di sant’Agostino, a cercare le soluzioni attraverso lo studio unito alla preghiera: “Quanto agli studiosi dei testi sacri, non solo li si deve spingere a conoscere i generi letterari in uso nelle Sacre Scritture […] ma anche, e ciò è la cosa principale e più necessaria, a pregare per comprendere”» papa Paolo VI
Una cristologia docetista
Il razionalismo filosofico si esprime nella persuasione che l’espressione “risurrezione della carne” sia un mero «simbolismo»67, un modo per dire che Cristo, anche dopo la morte, è rimasto la stessa persona. Ma, in tal modo, è il cuore della posizione cristiana che viene meno. Se Cristo non è risorto “nella carne”, il Verbo non si è veramente incarnato. Negare la “fisicità” della Risurrezione è come negare la realtà dell’Incarnazione. L’affermazione del Prologo di Giovanni – Et Verbum caro factum est (Gv 1, 14) – ha come conseguenza la possibilità dell’esperienza empirica del Risorto. La vista di Gesù “vivo” è la condizione di possibilità della fede. Pensare diversamente è accedere alla “cristologia docetista” di Bultmann per il quale, nel dualismo tra evento e parola, «la realtà, cioè l’esistenza concreta e carnale di Cristo e quella dell’uomo in generale, è esclusa dall’ambito del significato»68. Diversamente da Bultmann, per il quale il Risorto è solo nella predicazione, nel kerygma, lei crede nella realtà di Cristo dopo la sua morte, ma è una “realtà” che non comprende la carne. Cristo è “immortale”, al pari di Eracle, al pari di ogni uomo che muore. Perché mai, allora, la fede in Lui? Perché mai in Gesù la comprensione dell’azione suscitatrice di Dio «raggiunge il suo vertice»69, un «vertice insuperabile»70? Se Cristo è solo il «primogenito dei defunti»71, come ogni uomo che morendo risorge, se il suo «primato cronologico affonda nel primato ontologico»72, dove sta la differenza tra Cristo e l’umano in generale? Che ha di speciale la vita del Cristo “maieutico”, socratico, a cui sono stati tolti miracoli e segni del divino come residui “mitologici”? Nel dualismo tra lo spirito e la lettera la figura di Gesù si divide tra il Gesù storico che, sul modello ariano, è un uomo virtuoso assunto da Dio, e il Gesù divino, risorto, il quale assume una forma “docetista”. Un Cristo “gnostico”, non ebreo, per il quale la carne, da un lato, non è utile alla salvezza, e, dall’altro, non è redenta dalla corruzione della morte. Il nuovo paradigma, da lei auspicato, lotta qui contro la visione ebraica, in direzione di una prospettiva gnostica. Lo riconosce anche lei quando afferma che «l’antropologia biblica […] difficilmente permetteva di concepire e di rappresentare la risurrezione senza tener conto del corpo fisico. Di qui l’insistenza sull’elemento visivo e sensibile […] forse influenzato dalla polemica antignostica»73. Si tratta di un passo importante. Nella sua cristologia la natura umana non viene realmente assunta. Il suo Risorto, senza corpo, trasporta inevitabilmente la cristologia in un orizzonte docetista.

Tre considerazioni finali
Concludo la mia risposta con tre osservazioni. La prima: accogliendo la demitizzazione bultmanniana lei crede di riconciliare cristianesimo e pensiero moderno. Il prezzo di questa riconciliazione, però, è proprio il venir meno dell’interesse dell’illuminismo verso il cristianesimo. Diversamente dall’idealismo hegeliano, per cui la religione è ormai “superata” nella filosofia, l’illuminismo lotta con il cristianesimo sul piano della verità storica. Lo dimostra, attualmente, l’interesse,anche polemico, della cultura laica verso il Gesù di Nazaret di Benedetto XVI74. Togliendo valore storico al racconto evangelico, “mitizzando” la storia, lei non solo toglie il terreno di contesa ma anche quello di un possibile interesse. Se il Vangelo, quando parla di miracoli, è mitico, non sfuggirà a tale giudizio nemmeno il suo Risorto di cui nessuno ha potuto vedere l’aspetto e la forma. Il suo “spettro” non sfugge alla critica di Kant contenuta nei Träume eines Geistersehers. In realtà la sua posizione antiempirista è una presa di posizione contro l’illuminismo, un rifiuto a dialogare e misurarsi con quel tipo di cultura. Essa è, in secondo luogo, un rifiuto a confrontarsi con quella parte del pensiero del Novecento, di ascendenza ebraica – dal dialogisch Denken (Buber, Rosenzweig), alla Scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno), al messianismo politico (Benjamin) –, in cui il tema della redenzione della carne e della storia ha un valore cruciale. Il suo idealismo si preclude, inoltre, ogni possibile valorizzazione delle tendenze realistiche che emergono nell’estetica contemporanea, tendenze in cui emerge un interesse verso la risurrezione cristiana intesa come «prova estetica della possibilità della speranza»75.
La sua posizione anti-estetica mi conduce alla seconda osservazione. La sua visione del Cristo risorto, il quale «non ha – né può avere – alcuna delle qualità fisiche che costituivano il suo corpo mortale»76, presenta più di un’analogia con la posizione iconoclasta quale emerge dalla lettera di Eusebio di Cesarea alla sorella dell’imperatore Costantino, Costanza, studiata da Christoph Schönborn in un suo importante volume77. Per il vescovo Eusebio non era possibile raffigurare Cristo in icona perché, dopo la sua morte, il suo corpo glorioso non aveva più alcuna analogia con quello mortale. Così per lei «vederlo [il Risorto], significherebbe vedere qualcosa di empirico e di finito: non Dio, ma un idolo. E così, negare la possibilità delle apparizioni empiriche è l’unico modo di garantire l’autentica realtà del Risuscitato»78. Vedere Dio in forma umana è idolatria. Il divieto veterotestamentario torna, in lei, nel divieto di “rappresentare” la Risurrezione. Il Cristo risorto di Piero della Francesca, così come l’Incredulità di Tommaso del Caravaggio, appartengono all’arte del passato, alla visione mitologica del mondo propria di un’era in cui il cristianesimo è contrassegnato da una fede ingenua e popolare.
«Davanti a questo mistero, siamo tutti presi dall’ammirazione e colmi di stupore, proprio come davanti ai misteri dell’Incarnazione e della nascita verginale . Lasciamoci quindi introdurre, con gli apostoli, nella fede in Cristo risorto che solo può darci la salvezza» papa Paolo VI
La terza e ultima osservazione riguarda una sua persuasione di fondo. A più riprese lei afferma che «nessun teologo responsabile prende oggi alla lettera le narrazioni pasquali»79. Afferma, altresì, che «nelle trattazioni serie è scomparsa l’insistenza sui “miracoli” – compresi ora per lo più come “segni” che non interrompono il funzionamento delle leggi naturali –, o sulla proclamazione diretta della sua divinità da parte dello stesso Gesù. S’insiste, al contrario, sulla “cristologia indiretta”»80. Ora, a parte l’opinabilità del termine “serie”, vorrei soffermarmi su quel “nessun teologo responsabile”. Come può affermare questo? Lei stesso riconosce che alcuni tra i più grandi teologi del Novecento sono fermamente persuasi della piena attendibilità delle narrazioni pasquali. Come Karl Barth che, nella sua Dogmatica, «accentua sempre di più il realismo temporale delle apparizioni e la tomba vuota, […], insistendo sul carattere unico, in quanto fisico e sensibile, dell’esperienza apostolica»81. Come Wolfhart Pannenberg che sottolinea la storicità e la realtà delle apparizioni e il significato del sepolcro vuoto82. Come Rudolf Pesch che, in una sorta di autocritica della sua prima posizione, scrive: «Le visioni del Risorto – che io considero correggendo la mia opinione precedente, sufficientemente garantite come avvenimenti storici – erano visioni nelle quali Gesù è apparso a testimoni come Figlio dell’Uomo»83. Come N. T. Wrigth, cui lei riconosce, fra coloro che attualmente argomentano a favore della fattualità del Risorto, «serietà e ampia erudizione»84. A questi si può aggiungere Karl Rahner nella misura in cui non si attiene al nuovo paradigma. «Mantiene ancora, in effetti, lo schema ereditato della risurrezione di Gesù come “fatto singolare”, nel senso di distinguere “tra la risurrezione di Gesù [già accaduta] e la nostra risurrezione [ancora] da attendere”»85.
Barth, Pannenberg, Pesch, Wright, Rahner, sono nomi di «non allineati» che desumo dal suo studio. Non sono certo gli unici. Ricordo, tra gli altri, il grande discepolo di Bultmann, Heinrich Schlier, che lei cita ma di passaggio, per il quale nelle narrazioni pasquali “vedere Gesù” non è «una conclusione deduttiva che viene mutuata dalle consuete rappresentazioni (giudaiche) […]. Non si tratta di un “vedere Gesù” che poi si chiarisca mediante un’interpretazione, ma si tratta di una percezione immediata di Gesù Cristo che si fa percepire risuscitato ed elevato al cielo»86. Schlier e gli autori indicati in precedenza sono protagonisti del Novecento teologico, né possono essere etichettati come “conservatori”. La loro importanza, il fatto che essi rimangano fedeli al modello tradizionale nella lettura dei testi pasquali dovrebbe invitare a una maggior cautela riguardo all’“universalità” del nuovo paradigma, che, per altro, non è affatto “nuovo” avendo alle spalle (da Strauss in poi) almeno due secoli87. Dovrebbe rendere cauti sulla sua pretesa “evidenza” e indubitabilità. Lei stesso riconosce che la sua «riflessione si muove necessariamente su un terreno ipotetico»88. Ma se è così, come può essere tanto certo di essa da rimproverare Rahner, Pannenberg, Pesch di voler rimanere fermi a una lettura letterale, mitologica, del testo evangelico? Non è ingenuo pensare che la “vera” comprensione della Rivelazione inizi solo ora, dopo essere rimasta “imbottigliata” nell’involucro del mito per due millenni? In questo arco di tempo lo Spirito dov’era? Lavorava come la “talpa”, di hegeliana memoria, per perforare la forma della “rappresentazione” (Vorstellung) e arrivare al concetto? Non penso che lei creda davvero questo.


Note
1 M. Borghesi, La risurrezione senza il risorto, in 30Giorni, n. 10, ottobre 2006, pp. 76-85.
2 A. Torres Queiruga, Repensar la resurrección. La diferencia cristiana en la continuidad de las religiones y de la cultura, Editorial Trotta, Madrid 2005, tr. it., Ripensare la risurrezione. La differenza cristiana tra religioni e cultura


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