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IL WTO DOPO CANCUN
tratto dal n. 10 - 2003

Dopo il fallimento della Conferenza interministeriale del Wto

I poveri diventano grandi


Da Cancun escono parzialmente vincitori i G-23, la nuova alleanza capeggiata da Brasile, India, Sudafrica e rinvigorita dall’adesione di Nigeria e Indonesia. I pilastri del multilateralismo nato dopo la Seconda guerra mondiale sono in crisi, ma stanno emergendo nuovi poli utili per governare la globalizzazione


di Francesco Martone


Da sinistra, i delegati dell’Argentina, dell’Ecuador, dell’Egitto, del Brasile e del Sudafrica a Cancun

Da sinistra, i delegati dell’Argentina, dell’Ecuador, dell’Egitto, del Brasile e del Sudafrica a Cancun

L’appuntamento di Cancun, della Conferenza interministeriale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) tenutasi lo scorso settembre, è giunto in una congiuntura estremamente delicata, caratterizzata da una forte crisi dei sistemi di governance globale. Se da una parte le Nazioni Unite soffrono gli effetti delle scelte unilaterali da parte degli Stati Uniti, dall’altra l’istituzione cardine della governance economica globale, l’Fmi, è messa sotto accusa per la gestione errata della crisi argentina.
Nell’incontro annuale dell’Fmi e della Banca mondiale tenutosi a Dubai poco dopo Cancun, è apparso chiaro a tutti gli osservatori che la crisi del multilateralismo sta colpendo come in un domino tutti i pilastri creati nell’immediato secondo dopoguerra, cioè il sistema Onu e quello di Bretton Woods. Ogni grande crisi può essere tradotta in grande opportunità, ed anche in questo caso ci troviamo forse ad un momento costitutivo, o “liminale”, nel quale si possono creare le premesse per un modello di governo globale efficace, efficiente, e senz’altro più giusto ed equo. Per meglio comprendere come ciò possa avvenire sulla scia del fallimento di Cancun, sarà opportuno fare un passo indietro alle origini del Wto, che nasce il primo gennaio 1995 come successore del Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade) il cui scopo era quello di prevenire le guerre commerciali e le rivalità economiche. A suo tempo a Bretton Woods le potenze che avrebbero vinto la Seconda guerra mondiale avrebbero dovuto fondare, accanto alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale, una terza istituzione economica internazione, l’Ito, ma l’opposizione di Inghilterra e Stati Uniti lo impedì. Si diede così vita al Gatt, un accordo per lo sviluppo e la negoziazione di regole internazionali per il commercio (che prevedeva una organizzazione omonima incaricata di gestire il processo), che si è poi condensato nell’Uruguay Round, svoltosi dal 1986 al 1994.
Accanto al Gatt presero vita altri accordi: dal Gats (sui servizi), al Trims (sugli investimenti), al Trips (sui diritti di proprietà intellettuale). Il Wto di fatto unifica Gats, Trips e Trims in un’unica organizzazione, con regole uniche ed un sistema di risoluzione delle controversie. Obiettivo del Wto è pertanto quello di aumentare il libero scambio attraverso l’abbattimento delle barriere al commercio quali dazi, sussidi e tariffe preferenziali per aumentare il benessere delle popolazioni degli Stati membri. Secondo il principio della nazione più favorita, ciascun membro del Wto dovrà trattare gli altri come se fossero i migliori partner, con delle eccezioni che riguardano i Paesi che fanno parte di un’area di libero scambio o i Paesi che introducono sanzioni contro prodotti provenienti da Stati che attuano politiche commerciali discriminatorie.
Sulla carta il Wto potrebbe godere di un modello decisionale fortemente democratico, almeno in confronto a quello vigente nelle istituzioni finanziarie internazionali (principio “un dollaro un voto”) o nell’Onu (diritto di veto nel Consiglio di sicurezza). Nonostante il principio “una testa un voto” e nonostante il fatto che viga nel Wto il principio del consensus, le decisioni cruciali sono prese in segretezza, nelle cosiddette “Green Room”, in incontri chiusi dei Paesi più forti quali quelli del Quad (Usa, Giappone, Canada, Ue), oppure inserendo temi controversi all’ultimo minuto, come nella Conferenza interministeriale di Doha del novembre 2001, o come successo a Sydney, nel novembre 2002, in riunioni ristrette dove vennero ammessi solo 25 dei 144 Paesi membri.
La questione della democrazia però non riguarda solo l’istituzione, ma anche le conseguenze dell’erosione del ruolo degli Stati e dei Parlamenti nel poter perseguire il bene comune. Le normative sociali, ambientali e di produzione locale, e quelle relative ai diritti dei lavoratori sono viste come ostacolo al libero commercio e quindi da rimuovere, poiché il mercato viene prima di ogni altra cosa. Da Doha, l’urgenza di rafforzare la credibilità e la legittimità del Development Round (il round dello sviluppo lanciato proprio in quell’occasione) ha portato pertanto ad una situazione a scatole cinesi, la più grande delle quali, quella che contiene le altre, è rappresentata dall’agenda programmatica del Wto; e il resto deriva dalle altre conferenze Onu: da quella del Millennio, che lanciò il programma per il perseguimento dei Millennium Development Goals, a quella di Monterrey sui Finanziamenti per lo sviluppo, a quella di Johannesburg del settembre 2002 (della quale abbiamo trattato in queste pagine, cfr. 30Giorni, n. 9, settembre 2002, pp. 52-57), a quella, pressoché ignorata a Johannesburg, della Fao sull’alimentazione. Nel contenitore di Doha quindi entrano tutte le questioni, dalla lotta alla povertà, alla lotta alla fame nel mondo, alla tutela dell’ambiente.
Gli spazi lasciati aperti dalla crisi finanziaria ed operativa delle agenzie Onu sono stati per “default” occupati da istituzioni dotate di forte potere coercitivo – se non politico per lo meno finanziario o commerciale, quali appunto il Wto – e di grandi risorse finanziarie a disposizione (Banca mondiale e Fmi). Così si è andato affermando quello che negli Usa si chiama “mission creep”, uno snaturamento delle ragioni d’essere di queste istituzioni finanziarie e commerciali, che senza alcun mandato ufficiale si sono appropriate di temi e compiti che poco hanno a che fare con la loro struttura e le loro capacità. Il fallimento di Cancun probabilmente può essere letto anche in quest’ottica: l’agenda negoziale della Conferenza era sovraccarica di tematiche delicate che avrebbero necessitato di ben altro tipo di discussione e di foro. Questa situazione dovrà essere risolta in maniera decisiva per poter ricostruire le basi di un dialogo eguale che possa contribuire ad un ripensamento in positivo dei modelli e delle strutture di governance globale.
Ciò però non basta: andrà anche operata una analisi critica dell’impianto ideologico che caratterizza l’operato del Wto. Non esiste oggi libero scambio tra eguali. Nessun governo pratica il libero scambio, basti pensare ai “Farm Bill” americani o ai sussidi all’agricoltura dell’Ue che contraddicono il diritto dei Paesi in via di sviluppo di usufruire delle stesse condizioni di accesso ai mercati dei produttori dei Paesi ricchi. Questa materia nasconde la grave ipocrisia di Paesi produttori, Usa e Ue in primis, che chiedono oggi ai Paesi in via di sviluppo di aprire ancor di più i loro mercati, ma che non vogliono rinunciare a sostenere con fondi pubblici i prodotti agricoli nazionali. A Cancun il negoziato però non è crollato sull’agricoltura, bensì sul rilancio della discussione sui cosiddetti temi di Singapore, ovvero la liberalizzazione degli investimenti privati, gli appalti pubblici e le norme per la concorrenza. Ed è proprio sugli investimenti che si gioca oggi la partita più rilevante, poiché sussiste il rischio di creare una situazione di profondo svantaggio per quei Paesi che ne dovrebbero in effetti beneficiare. È comprensibile quindi la netta opposizione dei Paesi in via di sviluppo, Paesi che non hanno potere politico nelle istituzioni finanziarie internazionali, né le capacità tecniche per tener testa alle forti lobby del nord del mondo. A maggior ragione a fronte di un proliferare di iniziative di libero scambio. Basta guardare al sistema delle tariffe dei Paesi ricchi: 4 volte superiori per i prodotti del sud rispetto a quelle per i prodotti degli altri Paesi del nord.
A tali condizioni il commercio non porta ricchezza diffusa e non contribuisce automaticamente all’alleviamento della povertà, se non a talune condizioni. Infatti i Paesi in via di sviluppo perdono in virtù delle imposizioni tariffarie circa 19.8 miliardi di dollari l’anno, l’equivalente del budget annuo medio della Banca mondiale!
A Cancun i delegati dei Paesi in via di sviluppo lo hanno ripetuto all’unisono: «Non crediamo che, a queste condizioni, maggior libertà di commercio porterà a maggior sviluppo, né che il commercio debba essere inteso come il fine ultimo, ma come uno degli strumenti per perseguire la lotta alla povertà».
Ciononostante, i Paesi più ricchi, e soprattutto l’Unione europea, hanno dimostrato di non saper comprendere le sfumature politiche del dibattito, né l’urgenza di venire incontro alle richieste legittime della nuova alleanza dei “G-plus”. Piuttosto l’Unione europea si è trincerata dietro l’ostinatezza di voler forzare la discussione su temi, come gli investimenti, sui quali almeno 90 Paesi avevano da tempo dichiarato la loro opposizione. Il fallimento di Cancun è anche quello di una organizzazione tecnocratica che non sa ascoltare quello che accade, non sa recepire gli umori e le legitttime preoccupazioni del mondo esterno. Se il multilateralismo tradizionale delle Nazioni Unite è oggi in crisi, certamente lo è anche quello del Wto, alla mercé degli interessi specifici delle più potenti coalizioni di Stati membri. Di fronte alle sue contraddizioni interne, il segretariato ha ripiegato su vecchie formule di negoziato dietro le quinte, gli incontri informali, le famigerate “Green room” che escludono i Paesi in via di sviluppo. Già a Seattle questa pratica antidemocratica aveva provocato la rivolta di questi ultimi. Al di là del merito, cioè la tematica commerciale, le contraddizioni e le dinamiche che si innestano in questi appuntamenti sono infatti essenzialmente politiche. E laddove manca la politica, manca necessariamente la base di un ipotetico accordo. Da Cancun escono parzialmente vincitori i G-23, questa nuova alleanza capeggiata da Brasile, India e Sudafrica, rinvigorita dall’adesione di Nigeria ed Indonesia. C’è il Brasile, che, forte di un patto economico e politico siglato qualche mese fa con India e Sudafrica, cerca di ritagliarsi un ruolo di leader non solo a livello continentale ma anche globale. A livello regionale Lula potrà ora mantenere una posizione forte nel negoziato per l’Area di libero scambio delle Americhe, fortemente voluta da Washington, rafforzare l’asse con l’Argentina e il patto commerciale del Mercosur.
Questo fronte ha avuto la capacità di rompere il duopolio Usa-Ue nel settore agricolo, e si propone come un attore di primo piano nel panorama multilaterale. Da Cancun si aprono gli spazi per un nuovo modello di multilateralismo nel quale gruppi di Paesi con interessi o vocazioni affini possano confrontarsi in maniera più democratica. Insomma, un multilateralismo multipolare? Secondo molti, chi ha vinto veramente sono invece stati gli Usa, o meglio la destra più unilateralista che vede come il fumo negli occhi ogni foro multilaterale. Del resto gli Usa restano comunque in grado di continuare a concludere accordi bilaterali, attraverso i quali possono mostrare a volontà i loro muscoli, lontano dai riflettori dei media globali e dall’occhio attento dei movimenti e delle Ong.
Il commissario europeo per il commercio Pascal Lamy, durante il vertice di Cancun

Il commissario europeo per il commercio Pascal Lamy, durante il vertice di Cancun

La questione centrale pertanto non è quella di opporsi tout court al commercio globale, né di rilanciare formule localiste, né tanto meno di continuare sulla strada di un liberismo senza freni. Piuttosto, per superare il fallimento di Cancun, i governi dei Paesi ricchi dovranno finalmente interrogarsi su quali siano le condizioni necessarie affinché il commercio sia effettivamente una leva (non l’unica, ma essenziale senz’altro) per un modello di sviluppo centrato sullo sradicamento della povertà, sulla sostenibilità e sull’equità e giustizia sociale. In un partenariato globale per lo sviluppo, il commercio è considerato in relazione ad altre questioni cruciali, quali la cooperazione allo sviluppo, la riforma delle istituzioni finanziarie internazionali, politiche innovative per la soluzione del debito estero (come procedure eque e trasparenti di arbitrato internazionale), gli interventi correttivi riguardanti l’instabilità dei prezzi delle materie prime, l’elaborazione di strumenti politici per prevenire le speculazioni finanziarie e costruire regole per il settore privato.
Si può affermare pertanto che la vera riforma del Wto non passa in primis attraverso quell’istituzione, ma – in un capovolgimento delle scale gerarchiche – attraverso la riaffermazione della centralità del sistema Onu, e degli impegni presi dalla collettività internazionale per tutelare e promuovere il diritto al cibo, alla salute, i diritti dell’ambiente e dei lavoratori, il diritto all’educazione, all’acqua. Il Wto dovrà essere quindi sottoposto ad una cura dimagrante, restituendo alla competenza delle agenzie Onu temi quali l’agricoltura, i diritti dei lavoratori, dell’ambiente, i servizi e gli investimenti. La partita che si apre ora non è certamente facile: sullo scheletro del multilateralismo si dovrà ricostruire un luogo nel quale discutere democraticamente di commercio, e delle modalità con le quali i mercati globali devono essere orientati verso le priorità di sviluppo socialmente giusto ed ecologicamente sostenibile.


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