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SANTI
tratto dal n. 04 - 2008

«Io non saprei concepire una vita senza preghiera»


La fede cristiana vissuta semplicemente, come laico consacrato del Terz’Ordine di san Francesco, nel suo lavoro di professore universitario di Diritto romano e nella trama delle amicizie e degli incontri quotidiani. Storia del beato Contardo Ferrini


di Giovanni Ricciardi


Contardo Ferrini

Contardo Ferrini

Il 13 aprile del 1947, beatificando Contardo Ferrini, Pio XII lo definì «il modello dell’uomo cattolico dei nostri giorni». Un paradigma, insomma, come lo sono, ciascuno a suo modo, tutti i santi. Ma nel caso di Ferrini il Papa voleva anche sottolineare che il cuore della santità cristiana non si esprime necessariamente in un’esperienza eccezionale, di grande risonanza, dentro e fuori la Chiesa. Voleva richiamare l’essenziale.
Contardo Ferrini (1859-1902) durante la sua vita non compì miracoli, non fondò ordini religiosi; al suo nome non sono legate grandi opere di carità, uno speciale servizio missionario o una particolare influenza sulla vita della Chiesa, benché fosse un uomo di grande cultura: “soltanto” la fede cristiana, vissuta pienamente e gioiosamente nel suo stato di laico consacrato nel Terz’Ordine di san Francesco, nel suo lavoro di professore universitario di Diritto romano, nella trama delle amicizie e degli incontri quotidiani. Achille Ratti, che prima di diventare papa col nome di Pio XI lo aveva conosciuto bene, sintetizzò così la sua figura al processo di beatificazione: «A me non consta di doni speciali soprannaturali conferiti da Dio al Ferrini, se non che mi parve sempre quasi miracolo la sua fede e la sua vita cristiana al suo posto e nei tempi nostri».
Nacque a Milano il 4 aprile 1859 da una famiglia profondamente cattolica. Il padre Rinaldo, professore di Scienze matematiche e fisiche al Politecnico del capoluogo lombardo, fu una figura di riferimento importantissima per il giovane Contardo, come pure don Adalberto Catena, confessore di Alessandro Manzoni e più tardi padre spirituale dello stesso Ferrini. Gli studi classici, l’Università di Pavia, che lo vide laurearsi a pieni voti in Diritto a soli 21 anni, un soggiorno di perfezionamento di due anni a Berlino gli aprirono prestissimo le porte della carriera universitaria, tanto che ottenne la cattedra di Esegesi delle fonti del Diritto romano a Pavia a soli 24 anni. L’attività di docente lo porterà prima a Messina, poi a Modena e infine di nuovo a Pavia, dove insegnò fino alla morte.
Così Ferrini si trovò a vivere in un ambiente in cui la professione di anticlericalismo e l’adesione a ideali massonici era la norma. In questa temperie, il fatto che Contardo non facesse mistero della propria appartenenza alla Chiesa appariva già di per sé come una coraggiosa testimonianza. «Non avete idea come la fede fosse combattuta e come tanti la perdevano»: sono parole di un vecchio amico di Ferrini raccolte nel 1953 da don Rino Bricco a Suna, oggi Verbania, sul Lago Maggiore, in cui la famiglia trascorreva la villeggiatura e dove spesso Contardo amava tornare: «Ma vedere i due Ferrini, il padre Rinaldo e il figlio Contardo, sereni, sicuri nelle loro convinzioni, valeva più di tutte le prediche».
Ciononostante, Ferrini non espresse mai riprovazione per chi la fede non l’aveva o la osteggiava apertamente. Non concepì il suo cattolicesimo come una “sfida” al mondo. Lo statista liberale Vittorio Emanuele Orlando, che visse con lui a Messina per un certo tempo, a partire dal 1887, quando la loro carriera era agli inizi, così testimoniò al processo di beatificazione: «Egli con me evitava ogni forma diretta di ciò che chiamerei proselitismo religioso. In altri termini egli non faceva pesare nei rapporti quasi fraterni che ci univano le diversità del nostro costume in rapporto alle pratiche religiose: ma sono fermamente e profondamente convinto che a ciò fosse indotto da questa sola ragione, che cioè vi sono dei casi in cui ogni tentativo di quel genere non è destinato a produrre effetti benefici».
Le testimonianze che su di lui furono prodotte durante la causa concordano sul fatto che la sua vita, il modo con cui affrontava il lavoro o il rapporto con gli studenti, le amicizie e il tempo libero, dedicato soprattutto alle passeggiate in montagna e al contatto con la natura, lasciavano trasparire naturalmente la bellezza limpida della sua fede e una profonda vita spirituale. Che aveva avuto la sua prima espressione sensibile nel giorno della Prima comunione, quando Contardo, secondo quanto riferirono il padre e il fratello, rivelò una commozione e un mutamento interiore «tanto importanti da essere percepiti anche visibilmente». Quasi un sigillo su quella che sarebbe stata l’impronta della sua santità. Per tutta la vita Ferrini seguì cioè, per così dire, la via “ordinaria” della Chiesa: messa quotidiana, opere di carità – che praticava in una delle forme allora più comuni di apostolato: le Conferenze di san Vincenzo – e preghiera: «Io non saprei concepire una vita senza preghiera», scriveva: «Uno svegliarsi al mattino senza incontrare il sorriso di Dio, un reclinare la sera il capo ma non sul petto di Cristo. Io supplico il Signore che la preghiera non abbia a morire mai sulle mie labbra, che prima abbia a uscire il mio spirito, perché il giorno che tacesse la preghiera sulle mie labbra sarebbe finita in me ogni vita mortale! Se tacesse la mia preghiera, vorrebbe dire che Dio mi ha abbandonato!».
Attratto dalla spiritualità di san Francesco, il 6 gennaio 1886 ne abbracciò la regola come laico consacrato nel Terz’Ordine.
La facciata della chiesa Madonna di Campagna a Pallanza, Verbania. In questa chiesa Contardo Ferrini veniva 
ad ascoltare la santa messa insieme ai genitori

La facciata della chiesa Madonna di Campagna a Pallanza, Verbania. In questa chiesa Contardo Ferrini veniva ad ascoltare la santa messa insieme ai genitori

La sua attività di studioso fu notevole: si potrebbero citare i suoi oltre duecento articoli, moltissimi se si pensa che morì a soli 43 anni; un trattato di Diritto penale romano che fu considerato per decenni una pietra miliare nel campo degli studi di romanistica; l’elogio aperto che di lui fece il grande Theodor Mommsen: «Per merito del Ferrini, il primato degli studi romanistici passa dalla Germania all’Italia». Si potrebbe citare la sua esperienza politica nell’amministrazione comunale di Milano, dal 1895 al 1899, in cui si distinse per la difesa dell’insegnamento religioso nelle scuole primarie, ma anche per una posizione conciliatorista nel rapporto fra Chiesa e Stato. Fu insomma un uomo di successo nella vita accademica e in quella pubblica, un uomo stimato per la vastità della sua cultura. Ma questo non gli impediva, quando tornava nella sua Suna, di entrare nella chiesa parrocchiale prima del canto dei Vespri per assistere anche alla lezione di catechismo impartita la domenica pomeriggio dalle maestre elementari del suo paese, perché, diceva, «c’è sempre da imparare».
Contardo Ferrini, che fu grande ammiratore e lettore assiduo delle opere di Rosmini, non pubblicò scritti di carattere religioso o spirituale, ma dopo la sua morte, la fama di santità e le numerose lettere indirizzate soprattutto all’amico Vittorio Mapelli, per la loro bellezza, suscitarono l’attenzione e la sorpresa di alcuni uomini di Chiesa, come il vescovo di Treviso Andrea Giacinto Longhin (anch’egli diventerà beato), che diede l’avvio alla causa. Sono scritti in cui emerge una fede vissuta nel solco di san Francesco, che ruota attorno al cardine dell’umiltà: «L’umiltà è verità, non altro che verità. E quindi l’unica dignità della vita […] L’umiltà è nel conoscere tutta la nostra miseria, la nostra fragilità; l’umiltà sta nel non disperare, perché siamo in buone mani […]. L’umiltà [...] è il profumo nascosto della virtù che ascende solitario a Dio, nei rapporti coi nostri fratelli produce la mansuetudine, la dolcezza, la cortesia». A questo programma si attenne per tutta la sua vita. Morì prematuramente a Suna, a soli 43 anni, il 17 ottobre del 1902, per aver contratto il tifo bevendo a una fonte inquinata durante una delle sue passeggiate in montagna. Molti anni prima aveva confidato per lettera a un amico: «Quanto a me, preferirei morire nella mia Suna. Se la morte mi cogliesse qui in Modena disturberei troppe persone, il rettore dell’Università, i professori, le autorità dovrebbero scomodarsi in mille modi; a Suna mi accompagnerebbero all’ultima dimora soltanto gl’intimi, la gente del paese, i bambini, i poveri, quelli che soffrono, quelli che pregano, quelli che veramente giovano all’anima».

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