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STATI UNITI
tratto dal n. 08 - 2008

Dibattiti

Alla ricerca di un equilibrio


I miti dell’identità americana, la corsa delle presidenziali e la necessità del compromesso in una nazione con l’anima di una Chiesa


di Anna Maria Cossiga


<I>A Ovest il corso dell’impero trova 
la sua strada</I>, studio per un murale 
per il Campidoglio degli Stati Uniti,  
Emanuel Gottlieb Leutze, 1861, Smithsonian American Art Museum, Washington

A Ovest il corso dell’impero trova la sua strada, studio per un murale per il Campidoglio degli Stati Uniti, Emanuel Gottlieb Leutze, 1861, Smithsonian American Art Museum, Washington

... [L]’inglese illuminato che arriva per la prima volta nel nostro continente... vede l’operosità del suo Paese natio messa a frutto in un modo nuovo... “Sono un misto di inglesi, scozzesi, irlandesi, francesi, olandesi, tedeschi e svedesi. Da questa varietà disordinata è nata quella nuova razza che chiamiamo americani. ... [Sono venuti qui] e tutto ciò che hanno trovato li ha rigenerati: nuove leggi, un nuovo modo di vivere, un nuovo sistema sociale. Sono diventati uomini nuovi. L’americano è colui che, essendosi lasciato alle spalle vecchie idee e costumi, ne ha ricevuto di nuovi dal nuovo stile di vita che ha abbracciato... Egli diventa americano perché viene accolto in seno alla nostra Alma Mater. Qui, gli individui di tutte le nazioni si fondono in una nuova razza di uomini, le cui fatiche e la cui posterità, un giorno, porteranno grandi cambiamenti nel mondo...» (Jean Hector de Crevècoeur, Lettere da un agricoltore americano (1782), Lettera III, «Che cos’è un americano»).
«Essere americano non è qualcosa che si eredita, ma qualcosa che si deve raggiungere» (Perry Miller, Nature’s Nation, Harvard University Press, 1967).
Ciò che precede sintetizza in modo esemplare l’essenza della “americanità”; o almeno di ciò che l’“americanità” è stata sino in tempi recenti. Ogni popolo, certamente, sente di appartenere a un gruppo ben preciso perché vive su un determinato territorio e aderisce a valori condivisi ma, nel caso della popolazione degli Stati Uniti, la costruzione dell’identità nazionale è avvenuta in modo consapevole e sistematico e anzi, diremmo, “strumentale”.
La Repubblica nata con la Dichiarazione d’indipendenza dall’Inghilterra del 1776 intende, sin dalla sua nascita, presentarsi al mondo come “diversa e particolare” e così viene considerata anche dagli osservatori stranieri. Il primo fu Alexis de Tocqueville il cui testo La democrazia in America, pubblicato tra il 1835 e il 1840, è divenuto un classico degli studi sugli Stati Uniti, ma non meno acuto nella sua osservazione fu G.K. Chesterton che, nel 1922, affermò che il carattere nazionale americano è una miscela dinamica di religiosità e di democrazia e, dunque, che l’America può essere considerata «una nazione con l’anima di una Chiesa» perché, come una Chiesa, si basa su un “credo”1.
La “particolarità”, vuoi oggettivamente esistente, vuoi parte del “mito americano”, è ancora sostenuta ai giorni nostri e non poco ha a che fare con l’atteggiamento degli Stati Uniti nel campo della politica estera e delle relazioni internazionali.
“Mito” va qui inteso nel senso di “racconto sacro” in seno a una “religione civile”; una narrazione, cioè, che mette in scena la visione del mondo e il senso storico di una cultura e che, raccontando le origini di un popolo, dà significato alla sua condizione presente e illumina la via per il futuro.
La “diversità” degli Stati Uniti rispetto al resto del mondo è il punto centrale sia di tale mito sia dell’identità nazionale americana a cui quella mitologia dà un fondamento, e si basa su tre aspetti fondamentali: l’esperienza migratoria e di colonizzazione; la consapevolezza di avere una missione assegnata direttamente dalla Provvidenza divina; l’esperienza della vita sulla frontiera. I tre aspetti si intersecano e si sovrappongono per dare vita a un’identità unica e tridimensionale.
I primi colonizzatori della zona che sarà più tardi nota come New England furono due gruppi di puritani inglesi: i “Padri pellegrini” del Mayflower, che fondarono Plymouth nel 1620; e quelli giunti dieci anni più tardi, in maggior numero e con più ampi mezzi finanziari, che fondarono la colonia del Massachusetts. Protestanti riformati negli insegnamenti di Martin Lutero e di Giovanni Calvino e con una regola rigorosa, i Puritani erano convinti di essere i prescelti da Dio e, dunque, individui speciali. In quanto eletti, come lo erano stati un tempo gli israeliti, il loro compito era riconquistare il selvaggio territorio americano alle forze del Male e farne la Nuova Canaan. Inoltre, come il quarantennale vagabondare nel deserto degli ebrei li aveva condotti alla riconciliazione con Dio, lo stesso sarebbe accaduto ai puritani grazie al progresso nelle foreste nordamericane. Il territorio colonizzato assume così un valore sacro e la conquista non è un fine in sé stesso: la fondazione di una Nuova Israele, infatti, riporterà la rettitudine in tutto il mondo, che così sarà rigenerato.
Oltre a questa “autoattribuita diversità” di “Popolo eletto”, i Puritani erano, in effetti, diversi dai fondatori di altri insediamenti nel Nuovo Mondo, generalmente uomini senza istruzione né risorse finanziarie proprie; i primi abitanti del New England, invece, avevano tutti un certo grado di formazione e, spinti da motivi spirituali più che dal bisogno economico, lasciavano la patria, dove spesso erano perseguitati, per «far trionfare un’idea»2.
Essi, inoltre, non furono emigranti nel senso che oggi diamo al termine, bensì planters, cioè fondatori di una colonia3 a cui spesso veniva concessa dal re una Carta che dava loro il diritto di costituirsi in società politica e di autogovernarsi, restando nell’ambito delle leggi della madrepatria.
Ciò che i Puritani riuscirono a fare fu costituire una res publica duratura fondendo e bilanciando di continuo la tradizione con la novità. Il successo della loro impresa fu tale che ancora oggi gli Stati Uniti conservano, in prevalenza, gli elementi centrali della cultura puritana: la religione cristiana, la morale e i valori protestanti, un’etica di lavoro, la lingua inglese, le tradizioni britanniche in fatto di leggi, di giustizia e dei limiti del potere, e un’eredità europea in fatto di arte, filosofia, letteratura e musica.
Dunque, sin dal periodo della colonizzazione, i padri fondatori degli Stati Uniti erano convinti di avere un “destino manifesto”, una missione “divina” nei confronti del resto del mondo. Se con i primi coloni, e in particolare con i Puritani, tale “missione” fu quella di portare la civiltà in un ambiente selvaggio sia dal punto di vista reale sia simbolico, con la nascita e l’espansione della nuova nazione il “mandato divino” divenne diffondere l’eguaglianza e la democrazia il cui sviluppo, fa notare Tocqueville, è un fatto, di nuovo, provvidenziale. «Quando lunghe osservazioni e sincere meditazioni», egli scrive, «avranno condotto gli uomini del nostro tempo a comprendere che lo sviluppo progressivo dell’eguaglianza è insieme il passato e l’avvenire della loro storia, questa sola scoperta darà a tale sviluppo carattere sacro. Voler arrestare la democrazia sembrerà allora voler lottare contro Dio e non resterà alle nazioni che acconciarsi allo stato sociale che loro impone la Provvidenza»4.
<I>Progresso americano</I>, John Gast,1872 circa, rappresentazione allegorica del cosiddetto “Destino manifesto”. Nella scena, una donna angelica (talvolta identificata come Columbia, una personificazione degli Stati Uniti del XIX secolo) 
porta la luce della “civilizzazione” verso Ovest assieme ai coloni americani, che stendono i cavi del telegrafo durante il viaggio. Gli Indiani d’America e gli animali selvatici scappano (o aprono la strada) nel buio del West “non ancora civilizzato” [© Corbis]

Progresso americano, John Gast,1872 circa, rappresentazione allegorica del cosiddetto “Destino manifesto”. Nella scena, una donna angelica (talvolta identificata come Columbia, una personificazione degli Stati Uniti del XIX secolo) porta la luce della “civilizzazione” verso Ovest assieme ai coloni americani, che stendono i cavi del telegrafo durante il viaggio. Gli Indiani d’America e gli animali selvatici scappano (o aprono la strada) nel buio del West “non ancora civilizzato” [© Corbis]

Il concetto di “destino manifesto”, seppure Il terzo aspetto fondamentale nella storia dello sviluppo dell’identità nazionale americana è, come abbiamo detto, l’esperienza dei pionieri sulla frontiera con quello che veniva definito Indian Country.
Come notato dal geografo Wilbur Zelinsky, «il fatto mitologico può trionfare quanto quello storico e il mito della frontiera, cioè la convinzione che essa abbia forgiato in modo determinate il carattere nazionale e la cultura americana, continua a persistere nell’immaginario della nazione». Il “mito” fu creato e abilmente narrato da Frederick Jackson Turner nel 1893 esattamente tre anni dopo la chiusura definitiva della frontiera tra gli Stati Uniti e il territorio indiano.
Quando parliamo di confine o di frontiera il concetto stesso sottintende, in qualche modo, la possibilità che essa possa essere spostata per consentire l’ampliamento proprio di quel territorio la cui estensione si vorrebbe mantenere immutabile.
Nel caso americano, la contrapposizione stabilità-dinamismo appare ancora più accentuata. Se da una parte, infatti, l’Indian Country e i popoli che lo abitano devono restare al di fuori della realtà civilizzata delle colonie prima e degli Stati Uniti poi, dall’altra il territorio al di là della frontiera deve essere conquistato, sia in senso reale, sia in senso simbolico. La conquista militare, infatti, viene rielaborata e giustificata culturalmente attribuendola, come abbiamo visto, a una missione affidata dalla Provvidenza per la necessaria avanzata del progresso e degli ideali di libertà e di democrazia. Non solo, ma perché si possa essere davvero americani, i modi di vita “altri”, cioè quelli degli indiani, devono in qualche modo entrare a far parte della realtà civilizzata.
La chiusura della frontiera nel 1890 segna, per Turner, la chiusura di un grande movimento storico, dato che fino a quella data “la storia americana” era stata in larga parte “la storia della colonizzazione del Grande Ovest”.
Per Turner, che definiva il Paese e la sua storia come lo spostamento verso Ovest di pionieri “bianchi”, la tesi della frontiera escludeva, come altri miti nazionali, la presenza degli indiani e di tutte le etnie che non appartenevano alla classe dominante.
Il discorso di Turner, comunque, è interessante per il modo in cui cerca di dare una risposta alla crisi identitaria delle classi medie americane alla fine del XIX secolo. La sua opera, che vuole studiare come i “germi europei” si siano sviluppati in America, intende anche dimostrare come l’esperienza della frontiera abbia trasformato e unificato gli immigrati rendendoli capaci di tagliare i legami con la madrepatria e di fondare una nazione moderna.
A prima vista, l’esperienza della frontiera consiste esclusivamente nella trasformazione e nel rinnovo delle radici europee degli immigrati, il che escluderebbe dalla storia americana la presenza dei nativi. Spesso, i nativi sono semplicemente assenti dal suo paesaggio immaginario, che appare vuoto e privo di abitanti, il proverbiale “terreno vergine” dell’ideologia coloniale; ciò che è nuovo nella tesi di Turner è che egli definisce l’indiano non in opposizione all’americanità, ma come predecessore del pioniere, l’americano per eccellenza e, perciò, della civiltà. Un tale concetto è evidentemente influenzato dalle teorie evoluzionistiche del tempo e riflette l’idea di progresso da cui dipendeva l’evoluzione sociale. L’autore traccia il percorso del progresso sociale in America che ebbe inizio con l’indiano e il cacciatore e proseguì con il mercante, l’allevatore, l’agricoltore e infine la città e il sistema industriale, e ridefinisce in questo modo il rapporto tra cultura dominante e cultura indigena. Mentre in precedenza gli indiani venivano rappresentati come l’antitesi della civilizzazione, egli li presentò come uno stadio necessario nello sviluppo della civiltà.
La tesi di Turner, dunque, non si limitò a rimodellare l’identità americana in base al passato della nazione, ma fornì i mezzi simbolici per preservarla nel futuro, giustificando allo stesso tempo l’espansione imperialistica degli Stati Uniti. Se il continuo movimento verso Ovest aveva significato la nascita di quella ben definita identità, allora il solo modo di salvare “l’americanità” era continuare l’espansione a Ovest che, terminata la conquista del Nord America, era possibile solo spingendosi oltre il Pacifico, realizzando così il “destino manifesto”dell’America.
Come dimostra la storia americana dalla fine del XIX secolo sino ai giorni nostri, l’espansione americana verso un “Ovest” ormai solo ideale non è mai cessata. Nel 1898 ci furono l’annessione delle isole Hawaii e l’occupazione di Cuba, Puerto Rico, Guam e Manila, nelle Filippine, come corollario alla guerra contro la Spagna. Ma assumersi la responsabilità di governare territori extracontinentali sapeva in qualche modo di imperialismo europeo, ed era difficile da mandare giù per un’ex colonia. Le giustificazioni culturali del nuovo corso della politica americana non tardarono ad arrivare. Si cominciò a distinguere tra il colonialismo illuminato della Gran Bretagna, e dunque della razza anglosassone, e quello degli altri Paesi europei, basato esclusivamente sulla violenza e sulla sopraffazione; si cominciò a parlare di “impero della libertà”, “impero della pace”, impero dell’intelletto”. In quanto anch’essi di origine anglosassone, e cooperatori nel compito della civilizzazione, gli americani emularono i britannici e trasformarono il colonialismo in una “tutela” destinata a preparare i Paesi occupati all’autogoverno democratico che sarebbe seguito a tempo debito.
I candidati alla presidenza americana John McCain e Barack Obama con il reverendo Rick Warren presso la Saddleback Church, Lake Forest, il 16 agosto 2008 [© AP/LaPresse]

I candidati alla presidenza americana John McCain e Barack Obama con il reverendo Rick Warren presso la Saddleback Church, Lake Forest, il 16 agosto 2008 [© AP/LaPresse]

La politica estera degli Stati Uniti, dalla Seconda guerra mondiale in poi, non si discosta certo di molto da questi presupposti. Oltre al compimento della propria missione civilizzatrice, l’America contemporanea ha sempre voluto costruire un “altro da sé” che ridefinisse continuamente, per opposizione, i tratti salienti della sua cultura nazionale. Che fosse il regime nazista di Hitler, la Corea e il Viet Nam comunisti, l’Unione Sovietica della Guerra fredda, o l’islam integralista dei nostri giorni, gli Stati Uniti hanno sempre avuto bisogno di un “diverso”, in senso territoriale e ideologico, contro il quale combattere per diffondere gli ideali di libertà, di eguaglianza e di democrazia di cui si fa portatrice.
La cultura americana ha subìto, come ogni altra cultura, continui cambiamenti. Negli anni, e soprattutto durante la guerra in Corea e quella in Viet Nam, la “missione” dell’America e il suo “destino manifesto” sono stati rifiutati e condannati da molti americani, che li hanno considerati come il maggiore esempio di imperialismo e di sopraffazione. Eppure, come i Puritani, gli Stati Uniti riescono sempre, in qualche modo, a bilanciare ciò che sembra contrastante. La condanna dell’interventismo americano viene soppiantata dal patriottismo quando l’America è sotto attacco. Ciò è accaduto per Pearl Harbour ed è accaduto di nuovo dopo l’11 settembre. Se nel momento del pericolo, vero o creato non importa, gli americani hanno appoggiato la “guerra al Male” del presidente George W. Bush e dunque l’intervento in Afghanistan e la guerra in Iraq, ora che i rischi sembrano minori e che troppi americani muoiono, giunge nuovamente la condanna per l’atteggiamento “da sceriffo del mondo” degli Stati Uniti.
I due contendenti per la Casa Bianca, Barack Obama e John McCain, hanno opinioni opposte sul futuro della campagna irachena ma, cittadini di «una nazione con l’anima di una Chiesa», non dimenticano di citare, nella campagna elettorale, la religione e Dio. È difficile prevedere il risultato delle elezioni, e questo proprio a causa della convivenza, in America, di due opposti che sempre, tuttavia, trovano alla fine un equilibrio.


Note
1 G.K. Chesterton, What I saw in America, Dodd, Mead, New York 1922, in G. McKenna, The Puritan Origins of America Patriottism, Yale University Press, New Haven 2007, p. 5.
2 A. de Tocqueville, La democrazia in America, Rizzoli, Milano 1992, p. 45.
3 Per la distinzione tra emigranti/immigrati e planters vedi J. Highman, Send these to me: Jews and other immigrants in Urban America, Athenaeum, New York 1975, p. 6.
4 Ibid., p. 22.
5 A. Stephanson, Manifest Destiny. American Expansion and the Empire of Right, Hill & Wang, New York 1996, p. 43.


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