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LETTURE
tratto dal n. 04 - 2002

Arriva la “ Legge”


Una pagina tratta da I miei alti e bassi, un piccolo libretto fuori commercio edito da Gabriele e Maria Teresa Benincasa. Il giovanissimo Andreotti, spettatore attento delle udienze nella pretura di un piccolo centro e poi in tribunale a Roma, vede passare in giudizio l’ubriaco e il rissoso, il bestemmiatore e la tenutaria


di Giulio Andreotti


Alle dieci del mattino di ogni giovedÌ, noi ragazzini villeggianti eravamo tutti lì, insieme a un gruppetto fisso di coetanei locali, ad attendere l’arrivo, con la corriera, della “Legge”. Con questo solenne vocabolo veniva salutato il pretore: un giovane che non aveva propriamente un’aria solenne, ma era circondato da un rispetto profondo. Nella gerarchia del piccolo centro collinare veniva subito dopo il vescovo e prima del maresciallo dei carabinieri e del medico condotto.
Due immagini di Un giorno in pretura, 1953, regia di Steno. Il giudice Peppino De Filippo e l’imputato Alberto Sordi

Due immagini di Un giorno in pretura, 1953, regia di Steno. Il giudice Peppino De Filippo e l’imputato Alberto Sordi

Non so se l’andare a testa scoperta fosse per lui un vezzo sbarazzino o un’abitudine solo estiva. Comunque lo esentava dal togliersi di continuo il cappello, per rispondere all’omaggio deferentissimo che tutti gli uomini senza eccezione gli riservavano. Qualcuno lo riveriva con il saluto fascista, ma non lo vidi mai alzare il braccio. Rispondeva a tutti indistintamente con un sorriso, nello stesso tempo condiscendente e distante.
Arrivato nel tempio della Giustizia, indossava la toga e si metteva subito al lavoro. La nostra piccola turba si collocava in fondo all’auletta e ascoltavamo attentamente anche le cose di cui capivamo poco o nulla il significato. Ma l’epilogo della cerimonia con la determinazione della sentenza, annunciata «in nome del Re» (da un certo giorno del 1936, del «Re Imperatore»), lo vivevamo quasi religiosamente. Pensavamo che il nostro giudice fosse un personaggio importantissimo e che prima di partire da Roma andasse al Quirinale a prendere lumi e che, dopo l’udienza, dovesse tornare a riferire.
Un cliente, se non fisso, molto assiduo del pretore era Gigetto, il falegname che un giovedì sì e uno no veniva a rendere conto della briga che aveva attaccato con qualcuno all’osteria della piazza, terrorizzando tutti con un coltellaccio a serramanico che brandiva minacciosamente. Non so come facesse a fare il suo lavoro, data l’imbibizione di vino che praticava a ogni ora del giorno, ma forse aveva qualche ricetta magica per smaltire la sbornia e ricominciare subito a bere. In pretura accettava senza scomporsi la multa che il giudice gli infliggeva insieme a una predicuccia moraleggiante. Ma un bel mattino la “Legge” lo diffidò: se fosse tornato al suo cospetto un’altra volta lo avrebbe dichiarato ubriaco abituale e non avrebbe più finto di credere che il suo coltellaccio fosse un amuleto contro il malocchio. Gigetto rispose con un piccolo inchino – non so se per ironia o per ingenuità – e mormorò che si sarebbe fatto spiegare da qualcuno le conseguenze di quel ventilato interdetto. Che però non venne mai, almeno fino al periodo che io rammento. Le riserve di pazienza del pretore erano infatti inesauribili. Grande tolleranza egli mostrò anche quando un mattino si trovò davanti Gigetto con in mano una tavoletta con inciso il memento: «La Giustizia è eguale per tutti». Gigetto gliela offrì dicendogli che fino a quando il motto restava alle sue spalle poteva dimenticarsene.
Un altro imputato particolarmente recidivo era Garibaldi. Non ricordo il suo vero cognome, ma l’abitudine in paese di usare solo i soprannomi lo salvò dalla condanna in cui le altre volte era incappato. Il reato ascrittogli era sempre di bestemmia, consumato evocando in modo tutt’altro che rispettoso il santo patrono del posto, san Bruno, un piemontese che qualche secolo prima era stato vescovo diocesano. Quella volta però aveva imprecato a nostro Signore e lo scandalo era stato più forte. Garibaldi, poco fidandosi del suo avvocato, denunciò ad alta voce che era vittima di un equivoco: la sua imprecazione non si riferiva affatto – non se lo sarebbe mai permesso – alla seconda persona della Santissima Trinità: ce l’aveva con Lorenzo Corsi, che tutti chiamavano con il soprannome di Gesù Cristo. Di fatti, il Corsi, che era poi il cavallaro dal quale anch’io, quando mia madre mi dava le cinque lire necessarie, affittavo un ronzino per fare una gita, era conosciuto solo con il suo pretenzioso soprannome, e Garibaldi venne prosciolto dall’addebito mossogli, anche se a causa dello spavento per qualche settimana lasciò in pace pure san Bruno.
Vittorio De Sica, nel ruolo di avvocato 
nel film Il bigamo, 1955,  regia di Luciano Emmer

Vittorio De Sica, nel ruolo di avvocato nel film Il bigamo, 1955, regia di Luciano Emmer

La corriera ripartiva a mezzogiorno, ma se l’udienza si prolungava era pacifico che ritardasse la partenza, senza che nessuno protestasse. Anzi tutti sapevano che il giovedì non si poteva contare sulla coincidenza con il treno delle 12,30 e che era meglio prenotarsi senz’altro per quello delle 14.
Non so se la ricreazione pretorile dei ragazzini del paese durasse ancora quando, una volta al liceo, mi disinteressai del rito settimanale estivo, ma per quello che mi riguarda, a Roma, durante l’inverno e la primavera, in previsione degli studi di giurisprudenza, andavo qualche volta ad assistere alle udienze del tribunale in quello che i romani chiamano il “Palazzaccio”.

Qualcuna di quelle udienze mi è rimasta impressa, ma quello che più conta è che, seguendole, appresi anche alcune nozioni generali sul sistema giudiziario che mi sarebbero tornate utili durante gli impensati sviluppi della mia vita. Gli avvocati d’ufficio, ad esempio. Non era raro infatti che gli imputati si presentassero senza un difensore. Allora veniva provveduto, d’autorità, ricorrendo a qualcuno dei professionisti – evidentemente dalla clientela molto scarsa – che erano lì in attesa di un ingaggio. Credo che lo Stato li retribuisse con poche lire, ma qualche volta ho visto che all’uscita dall’aula il patrocinato dava loro un piccolissimo onorario, specie se il professionista non si era sic et simpliciter rimesso alla Giustizia.
Qualche caso era semicomico, come quello di una giovane praticante procuratore, accusata di aver abusivamente indossato la toga e preso la parola in una causa penale. Era difesa dall’avvocato Cesare Mancuso (padre di un mio compagno di scuola), che si dedicò per una buona ora a giustificare romanticamente la ragazza che aveva quasi subcoscientemente – disse – precorso i tempi e si era sentita attratta dal fascino della toga. In via subordinata avanzò la tesi che fosse stato l’usciere a porre la toga stessa sulle spalle dell’ignara signora. Senza voler mancare di riguardo alla sostanza e alla forma dell’arringa, credo che a indurre i giudici a una assoluzione per mancanza di dolo fu lo scoppio di pianto che l’imputata non riuscì a frenare. Sospettai che fosse una sceneggiata precostituita, ma in verità rovinare una praticante bollandola per esercizio abusivo della professione sarebbe stato davvero iniquo.
Un’altra mattina arrivarono nel pretorio due coppie di “borgatari”, protagonisti di una rissa che all’inizio aveva coinvolto solo i quattro belligeranti ma era presto trascesa in una gazzarra, che non solo aveva provocato la denuncia per disturbo alla quiete pubblica, ma anche una motivata accusa di danneggiamento perché, tra spinte e spintoni, avevano finito con il mandare in avaria le tubature centrali dell’acqua. Le giustificazioni dei litiganti erano confuse, perché da un lato si palleggiavano le responsabilità e dall’altro si sentivano solidali nel respingere le pretese di indennizzo avanzate dal Comune, che aveva cercato di costituirsi parte civile ma non era stato accettato perché, rosso in volto, il rappresentante del Comune confessò di essere privo del mandato. Gli astanti parlavano tutti insieme, tanto da indurre il presidente a minacciare di sgomberare l’aula: il che sarebbe stato del tutto inutile perché il chiasso veniva dal banco degli imputati e, involontariamente, dai due avvocati che, con il sano proposito di far tacere i clienti, accrescevano quella babele sonora. L’udienza fu comunque tolta perché era suonata per tutti l’ora di andare a mangiare. Uno dei giudici a latere però captò delle espressioni irriguardose verso tutta la periferia della capitale, che provocarono la reazione immediata degli imputati, a sua volta espressa in termini non propriamente protocollari. Per fortuna il magistrato finse di non sentire e si affrettò a entrare nello stanzino dove, di regola, si ritiravano per deliberare. Come sia andata a finire non lo so.
L’imputato Totò nel film Le motorizzate, 1963, regia di Marino Girolami

L’imputato Totò nel film Le motorizzate, 1963, regia di Marino Girolami

Di genere diverso fu il processino contro una signora che, declinando le sue generalità, quanto alla professione si disse direttrice di una attività di cui a un certo articolo della legge di pubblica sicurezza. «Tenutaria», precisò allora con un tono di palese disistima il presidente, disistima che però non sembrò condivisa dai due a latere, ai quali la donna rivolse un cenno di saluto, spia di una consolidata conoscenza reciproca.
L’imputazione era di aver fatto entrare nella “casa” cinque minorenni, ma la signora non sembrava affatto preoccupata, giacché forse confidava nella solidarietà dei due clienti a latere che potevano mettere il presidente in minoranza. Anzi, rispose addirittura in modo altezzoso al presidente che le chiedeva giustificazioni: disse di poter esibire un diploma risalente ai tempi dello Stato Pontificio, quando l’ambasciata di Spagna, delegata alla sovrintendenza ispettiva del “settore”, autorizzava ad accogliere militari senza fissare un limite minimo di età. È ben vero che la norma era diretta ai soldati francesi di stanza a Roma, ma i cinque giovanotti oggetti di reato erano avanguardisti, e non considerarli militari poteva per lei essere causa di grane con il segretario federale, peraltro suo affezionato cliente.
Il disagio del giudice capo era evidente, tanto che non rimproverò la dama che, alla domanda se avesse “precedenti”, rispose con evasiva spudoratezza con un «come le salta in mente?». L’avvocato della signora capì al volo che poteva trarre vantaggio dall’imbarazzo del numero uno e dall’amicizia della cliente con i numeri due e tre. Di fatto avanzò subito richiesta di rinvio per un difetto nella citazione delle persone indicate dalla questura come presenti all’ingresso dei cinque ragazzotti: avevano dato infatti indirizzi e forse anche nomi inesistenti. E non è escluso che anche tra i questurini vi fossero visitatori abituali, magari a tariffe ridotte.
Il pubblico ministero, che si era scambiato strane occhiate con i giudici a latere, non si oppose. La camera di consiglio (honni soit qui mal y pense) durò pochi minuti. L’istanza fu accolta. La signora lasciò l’aula con l’orgogliosa sicurezza di aver vinto la partita.


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