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TERRA SANTA
tratto dal n. 03 - 2002

Inermi come Gesù Bambino


Padre Ibrahim, uno dei francescani della basilica della Natività a Betlemme, racconta i giorni dell’assedio. Ecco il suo diario


di padre Ibrahim Faltas


La Basilica della Natività presidiata dalle truppe israeliane

La Basilica della Natività presidiata dalle truppe israeliane

Martedì 2 aprile, alle tre del pomeriggio, stavo insieme a dei giornalisti italiani che qualche ora prima erano arrivati al nostro convento, mentre l’esercito israeliano dava l’assalto a Betlemme, quando sono entrati più di duecento palestinesi anche loro in fuga dall’offensiva israeliana. Molti sono entrati dalla porta principale del nostro convento, dopo averla forzata. Altri venivano dalla parte dei greci ortodossi. Si sono radunati tutti nella basilica della Natività, che sorge sul luogo dove è nato Gesù. Non c’è stato bisogno di parole, non ci sono state spiegazioni né esplicite richieste di asilo. La situazione si spiegava da sé. Mentre tutto il complesso della basilica veniva posto sotto assedio, abbiamo subito pensato che con quella gente avremmo dovuto dividere il nostro cibo e le nostre risorse. L’accoglienza per chi cerca rifugio nella nostra casa, chiunque sia, è scritta nella nostra storia.
Tra chi ha cercato rifugio qui non ci sono solo persone armate. C’è anche il governatore di Betlemme e l’avvocato del convento, che sono accorsi all’inizio per tentare di risolvere la situazione e non sono più potuti uscire. Molti altri sono semplici cittadini di Betlemme che si trovavano qui vicino quando è cominciato l’assalto israeliano, e sono scappati per istinto verso quello che sembrava loro un luogo sicuro per chi è in difficoltà. Alcuni di loro sono cristiani. Ma tutti, in un modo o nell’altro, partecipano alle messe e alle cerimonie liturgiche che noi 35 frati continuiamo a officiare nel luogo dove è nato Gesù. In questi giorni, quando io ho celebrato messa nella Grotta della Natività, la basilica era sempre piena di persone. Sono per gran parte musulmani, ma non sono usciti. Sono rimasti dentro, in silenzio, con rispetto, e io ho detto messa davanti a loro.
Le fonti israeliane insistono nel presentarci come ostaggi tenuti sotto tiro dalle armi di chi è qui. Ma a tenerci qui è solo il desiderio di portare avanti e veder concludere bene una trattativa di pace. E di voler ancora tutelare, con la nostra inerme presenza, un luogo così caro. Anche in questa situazione così difficile abbiamo il privilegio di poterci inginocchiare nel luogo dove è nato Gesù. Basta questo. È un conforto grande.
Questa nostra situazione, mi sembra abbia qualcosa a che vedere col mistero cristiano. Con quella vicenda che proprio qui, all’inizio, hanno potuto vedere i poveri pastori e i re magi. Siamo dei poveri frati inermi e disarmati. Era inerme anche Gesù Bambino, quando qui ci fu la strage degli innocenti ordinata da Erode. Noi siamo anche figli di san Francesco. Colui che andò a incontrare il sultano Malik-al Kamil, proprio al tempo in cui le nazioni cristiane d’Occidente facevano le crociate per liberare i luoghi santi. Francesco venne per chiedere la pace. Al capitolo XVI della Regola si legge: "I frati che vanno tra i saraceni non facciano liti e dispute, ma siano soggetti a ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani e quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio… E tutti i frati, ovunque sono, si ricordino che hanno consegnato e abbandonato il loro corpo al Signore nostro Gesù Cristo e che per suo amore sono esposti a nemici sia visibili che invisibili". Uomini religiosi qui invocano il nome di Dio nel compiere le loro disperate azioni sanguinarie o nel giustificare le sanguinarie rappresaglie degli eserciti. Invece il cuore del cristianesimo ha qualcosa a che vedere con una inermità così.
Noi siamo anche figli di san Francesco. Colui che andò a incontrare il sultano Malik-al Kamil, proprio al tempo in cui le nazioni cristiane d’Occidente facevano le crociate per liberare i luoghi santi
Quella che è testimoniata dalla storia di Samir Ibrahim Salman. Da più di trent’anni si alzava ogni mattina per venire a suonare le campane, qui nella basilica. A Betlemme lo conoscevano tutti. Era un cristiano ortodosso che faceva anche da campanaro. Come si suol dire, una persona alla buona. Un uomo semplice di poche parole, con una vita qualunque. Tutto il suo orgoglio era in quel gesto semplice che faceva tutti i giorni. Il terzo giorno d’assedio, un cecchino israeliano lo ha centrato mentre usciva di casa per attraversare la piazza della Mangiatoia, alle sei e mezza di mattina, come faceva ogni giorno per andare a suonare le campane. È morto dissanguato, perché col coprifuoco, per molte ore, nessuno gli si è potuto avvicinare per soccorrerlo. Ma il suono delle campane si sente lo stesso. Adesso le suona il fratello, che è rimasto chiuso nel convento dei greci ortodossi.
Il 4 aprile, i soldati israeliani hanno sfondato una porta laterale della basilica. Quello, fino a oggi, è stato il momento più difficile per noi. Tutti i palestinesi si sono riversati nel nostro convento, c’è stato anche uno scambio di colpi tra l’esercito israeliano e i palestinesi armati, e ci è sembrato in quel momento che il destino di noi frati fosse quello di rimanere come vittime tra i due fuochi opposti.
Poi la situazione si è calmata. Ed è ripresa questa singolare convivenza. Noi abbiamo fornito ai gruppi che hanno riparato nel convento delle bombole di gas, e si preparano da mangiare per conto loro, nel chiostro del convento di Santa Caterina. Ci sono anche degli adolescenti. Con loro e con gli altri non parliamo di politica, ma solo delle necessità e delle cose concrete. Cerchiamo di trovare soluzioni per i loro bisogni materiali. A guardarli, fanno tutti pena. Sperano che anche la basilica verrà liberata dall’assedio, il giorno che cesserà l’occupazione generalizzata dei territori palestinesi. Uno di loro è ferito e non sono riusciti a estrarre le pallottole dalla sua carne.
Il 6 aprile, gli assedianti hanno provato a sparare anche a me. Alle dieci e mezzo avevo aperto la finestra della mia stanza per dare uno sguardo alla scuola della custodia di Terra Santa, di cui sono direttore. Un cecchino israeliano ha preso la mira e il proiettile mi ha sfiorato la faccia, ho sentito il suo soffio sul viso. Non so se mi aveva riconosciuto. Era lontano. Subito dopo, sono andato a dire la messa, ringraziando il Signore di questo miracolo. Ho pregato anche san Giuseppe, che protesse Gesù Bambino qui a Betlemme, quando fuggirono in Egitto.
La domenica, 7 aprile, sapevamo che il Papa all’Angelus avrebbe parlato della Palestina. A mezzogiorno, abbiamo seguito l’Angelus in collegamento con Roma. E abbiamo anche suonato le campane.
Sono molti i fratelli e gli amici che ci chiamano da ogni parte del mondo, ci parlano delle preghiere che stanno rivolgendo al Signore per noi. Ci chiamano i sindaci delle molte città gemellate con Betlemme e molti italiani. Ci ha telefonato spesso il vescovo di Montepulciano e quello di Fiesole. Ci ha chiamato anche Antonio Bassolino, presidente della regione Campania, e Lorenzetti, presidente della regione Umbria e quello della regione Toscana, Martini. E anche Romano Prodi.
Dal pomeriggio di domenica 7 aprile è venuta a mancare l’elettricità e anche l’acqua. Hanno anche occupato la Casa Nova, il nostro ostello per pellegrini, adiacente al convento. Quella notte, una squadra di soldati israeliani ha tentato il blitz nel convento, e ci sono stati degli scontri. Noi frati eravamo molto vicini. Stavamo tutti insieme nella parte del seminario. Tutti svegli, perché quella notte i colpi di mortaio e di mitraglia si sentivano vicini e avevamo paura. Quando c’è stato l’attacco, solo un muro ci separava dai locali in cui ci sono stati i combattimenti. Alle quattro e mezza del mattino siamo stati avvertiti che l’edificio della parrocchia stava andando a fuoco. Siamo andati, abbiamo visto che era tutto bruciato, che c’era un ragazzo morto sul terrazzo del convento, e che la basilica della Natività era stata gravemente danneggiata. Siamo entrati nella basilica, e abbiamo trovato tante macerie e mosaici distrutti. Il ragazzo ucciso non lo conoscevo, era uno di Gaza. Il suo corpo, oggi che scrivo, sta ancora qui, e inizia a decomporsi, perché gli israeliani non hanno permesso a nessuna ambulanza di avvicinarsi.
Il lutto di alcune ragazze palestinesi

Il lutto di alcune ragazze palestinesi

Solo quattro frati, dall’inizio dell’assedio, hanno abbandonato il convento per motivi di salute. Noi altri stiamo bene, siamo tranquilli, nessuno vuol lasciare il convento. Questo è il nostro posto. La notte tra lunedì 8 e martedì 9 aprile, sono anche riuscito per la prima volta a dormire qualche ora di filato con tranquillità. I rifugiati dormono tutti all’interno della basilica, con delle sentinelle che fanno i turni di guardia per paura di attacchi notturni da parte dell’esercito israeliano. Finora sono stati rispettosi, puliscono a turno il chiostro e i locali dove trascorrono queste giornate di attesa. Il 9 aprile, di notte, un proiettile rimbalzato su un muro ha ferito all’addome un giovane rifugiato che si trovava in uno spazio aperto del complesso della Natività. Il giorno dopo, dall’edificio del municipio, un cecchino ha centrato anche un monaco armeno che stava nella sua camera. Il proiettile ha perforato i battenti chiusi della finestra. Nel convento armeno non ci sono rifugiati palestinesi. Ma il convento da quella parte è esposto al tiro e i cecchini sparano a tutto quello che si muove. Per fortuna gli assedianti hanno permesso che il ferito fosse portato in ospedale. Ma continuano ogni tanto a lanciare raffiche contro i muri. O sparano colpi mirati contro le finestre. Ne hanno infrante almeno una decina.
La scuola che dirigo, fino alle vacanze di Pasqua, aveva funzionato. Quando c’era la pace, in questi giorni di primavera, facevamo le gite e i saggi di fine d’anno. Adesso tutti gli studenti, chiusi nelle loro case, mi hanno chiamato e mi hanno detto che stanno pregando per me. Spero di poterli rivedere presto tutti quanti.


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