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DOPO IL CONCISTORO
tratto dal n. 11 - 2003

VIET NAM. La nuova legislazione sulla religione

Hô Chi Minh e il cardinale



di Gianni Valente


Sono due anni e mezzo che in Viet Nam l’Ufficio affari religiosi è occupato a stendere una nuova legislazione sulla religione. La macchina burocratica nutre se stessa con le proprie lungaggini esasperanti, che hanno già prodotto venti bozze di lavoro dell’ordinanza. Per cercare di evitare o prevenire brutte sorprese, proprio il neocardinale di Hôchiminhville Jean-Baptiste Pham Minh Mân di recente ha giocato una mossa sorprendente. Alla fine di giugno ha indirizzato una lettera alle massime autorità dello Stato, compresi il presidente dell’Assemblea nazionale e il segretario generale del Comitato centrale del Partito comunista, suggerendo di tagliar corto e accantonare tutto il “papiello” di bozze per tornare nientemeno che alla prima ordinanza sulla religione firmata nel lontano giugno 1955 dallo stesso padre fondatore del Viet Nam comunista, il presidente Hô Chi Minh.
Il presidente Hô Chi Minh

Il presidente Hô Chi Minh

Tutta la lettera (pubblicata integralmente sul n. 379 di Églises d’Asie, il bollettino d’informazioni delle Missions étrangéres de Paris) sponsorizza l’ordinanza 234 sulla religione emessa dal leggendario leader all’alba della sua epopea come non plus ultra della legislazione religiosa, pienamente adatta all’attuale situazione vietnamita. Nella lettera dell’arcivescovo non si risparmiano elogi allo «spirito di apertura che animava il presidente Hô» e la sua legislazione religiosa che, a detta anche di autorevoli giuristi vietnamiti, «riflette chiaramente le concezioni e le attitudini del nostro Stato nel suo lavoro di istituzionalizzazione della politica religiosa», ed esprime «idee umaniste che soddisfano il sentimento e la ragione, regolando le questioni religiose in una maniera tipicamente vietnamita». Il neocardinale sembra anche giocare di sponda con i timori della nomenclatura davanti al progressivo scolorire dei vecchi miti ideologici nel Viet Nam neoconsumista, quando scrive: «In questa epoca di rinnovamento e di adattamento in cui il Partito e lo Stato non cessano di ricordarci che occorre esaltare le idee di Hô Chi Minh, noi suggeriamo che esse siano riportate integralmente dentro la nuova ordinanza sulle religioni […]. Per mettere in opera una politica “favorevole sia al sacro che al profano” proponiamo allo Stato di prendere l’ordinanza 234 del presidente Hô come base dell’ordinanza concernente le attività religiose».
Tanta premura nel voler «tornare alla fonte» per correggere il progetto di legge «nello spirito del presidente Hô» si comprende bene quando l’arcivescovo snocciola uno ad uno gli articoli fondamentali della vecchia ordinanza. Che, in effetti, garantiva la non interferenza del potere civile negli affari interni della Chiesa, la libera predicazione dei missionari stranieri, l’autorizzazione ad aprire scuole private dove si poteva insegnare catechismo e anche seminari, senza limiti quantitativi prefissati. Nell’articolo 13 Hô Chi Minh riconosceva addirittura che «le relazioni tra la Chiesa del Viet Nam e la Santa Sede di Roma costituiscono un affare interno al cattolicesimo». C’è da dire che i bei princìpi rimasero sulla carta. Qualche tempo dopo la pubblicazione dell’ordinanza, nel Viet Nam del nord i missionari stranieri vennero espulsi, le scuole e i seminari furono soppressi e iniziò la persecuzione. Ma anche il richiamo puramente formale ai codicilli firmati dal padre della patria ha permesso «alla Chiesa cattolica del Viet Nam di seguire una evoluzione diversa ripetto a quella della Chiesa di Cina» (Églises d’Asie). E l’applicazione delle norme “liberali” targate Hô Chi Minh rimane anche ora un traguardo auspicabile in confronto alla situazione presente, dove il governo esercita il “diritto di veto” sulle nomine episcopali e impone quote risicate nell’ammissione ai seminari dei giovani aspiranti sacerdoti. Restrizioni che potrebbero essere codificate nelle bozze della legge in discussione. La stessa lettera dell’arcivescovo cita l’articolo 24 della XX bozza di ordinanza, che «obbliga i dignitari religiosi nelle loro funzioni a ottenere dalle autorità centrali o locali una approvazione e un riconoscimento scritto per poter svolgere attività religiose. Una tale disposizione» è il commento del neoporporato «non è realista, rende il clero troppo dipendente dal potere e può provocare numerose dispute».
Non è la prima volta che l’arcivescovo Pham Minh Mân nei suoi rapporti con il governo ricorre a formule e figure familiari alla nomenclatura vietnamita. Nel dicembre 2002, in un’altra lettera, la sua critica serrata alla società vietnamita attuale e alla sua gestione da parte della leadership politica aveva deplorato la mancata realizzazione degli obiettivi proposti dal VI Congresso del Partito comunista e suggerito come orizzonte dell’azione di governo la lotta a tutte le forme di «alienazione» (espressione-cardine del pensiero di Karl Marx). Senza tirare in ballo benemerite categorie “occidentali” come la libertà di coscienza e i diritti civili. Un approccio rispettoso del quadro culturale e politico vigente, che ripropone mutatis mutandis un habitus collaudato già da duemila anni. Da quando san Paolo, nelle sue traversie processuali, faceva appello al suo essere cittadino romano («Civis romanus sum») per chiedere al potere in vigore pro tempore il rispetto delle garanzie legali da esso stesso stabilite.
G.V.



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