Home > Archivio > 11 - 2003 > Udienza al diavolo nazista
STORIA
tratto dal n. 11 - 2003

Udienza al diavolo nazista


Nel 1938 papa Pio XI voleva incontrare Hitler per fermare la persecuzione anticattolica in Germania. Lo scrive Giovanni Sale, storico della Civiltà Cattolica, nel suo ultimo libro. Intervista


di Pierluca Azzaro


Storico della rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica, Giovanni Sale divide il suo tempo tra l’attività giornalistica, gli archivi e la didattica. A settembre, per i tipi della Jaca Book, ha dato alle stampe Dalla Monarchia alla Repubblica (euro 19), che ha ricevuto diverse segnalazioni sulla stampa. Recentemente invece, sulla Civiltà Cattolica, ha reso pubblico un inedito che rivela l’intenzione di Pio XI di incontrarsi con Hitler. A lui chiediamo delucidazioni su alcune di queste carte inedite che ha voluto rendere note in questi ultimi mesi.

Sino ad oggi l’atteggiamento del Papa in occasione della visita di Hitler a Roma dal 3 al 9 maggio 1938 era stato reso da due immagini: la chiusura dei Musei Vaticani e la repentina partenza di Pio XI e dei prelati della Casa Pontificia per Castel Gandolfo, pochi giorni prima dell’arrivo del Führer a Roma. Dai documenti da lei rinvenuti emerge invece un elemento nuovo: Pio XI si rende disponibile ad un colloquio con Hitler.
GIOVANNI SALE: Il fatto che il Papa volesse incontrare Hitler è confermato dalla relazione che l’allora nunzio apostolico in Italia, Francesco Borgongini Duca, mandò alla Segreteria di Stato per informarla del suo incontro con Buffarini Guidi, l’allora sottosegretario di Stato all’Interno, avvenuto il 26 aprile, dunque pochi giorni prima della visita del Führer a Roma. All’inizio del colloquio, il nunzio confida a Buffarini che le notizie giunte in quel momento al Papa sulla situazione dei cattolici in Germania l’avevano letteralmente fatto piangere: sacerdoti incarcerati solo perché buoni preti, divieto assoluto per le partorienti ammesse agli istituti nazisti di far battezzare i neonati, sostituzione del battesimo con un altro rito per l’ammissione dei bambini alla “comunità germanica”, ed altro ancora. Alla fine della conversazione il nunzio si fa latore di un messaggio del Papa a Hitler: qualora egli ne avanzi formale richiesta, il Pontefice è disponibile a ritornare da Castel Gandolfo per incontrarlo, anche all’ultimo momento.
Cosa si riprometteva Pio XI da quell’incontro?
SALE: Nelle intenzioni di Pio XI, quell’incontro non doveva certo avvenire per motivi di immagine, anche perché sicuramente sarebbe stato strumentalizzato dalla propaganda nazista. Doveva invece essere preceduto da un protocollo, da un previo accordo, al centro del quale doveva stare la questione della persecuzione anticattolica in Germania. Il fatto poi che appena tre giorni dopo la conclusione della visita di Hitler a Roma, Pio XI desse disposizione affinché fossero emanate le Otto proposizioni contro il razzismo germanico da indirizzare a tutte le università cattoliche del mondo, lascia supporre che, se si fossero incontrati, il Papa avrebbe posto al dittatore tedesco anche la questione dell’antisemitismo. Il gesto di Pio XI deve essere letto nel quadro della rottura definitiva tra la Chiesa e il nazismo che si consuma a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, basti pensare alla Mit brennender Sorge emanata nel 1937; eppure, nonostante tutto, il Papa fa un ultimo tentativo. Tutto poi naufraga per il rifiuto ferreo di Hitler di vedere il Papa. Un rifiuto che deve essere letto come un segnale forte, lanciato ai cattolici tedeschi e alla Santa Sede, sul fatto che Hitler intendeva portare fino in fondo la sua lotta contro la Chiesa e contro il cristianesimo, che riteneva inconciliabili con le nuove “dottrine religiose” del nazionalsocialismo. Non dimentichiamo poi che buona parte della resistenza tedesca al nazismo faceva riferimento all’episcopato tedesco.
Sopra, Pio XI; sotto, Benito Mussolini e Vittorio Emanuele III salutano Adolf Hitler al termine della sua visita a Roma il 9 maggio 1938

Sopra, Pio XI; sotto, Benito Mussolini e Vittorio Emanuele III salutano Adolf Hitler al termine della sua visita a Roma il 9 maggio 1938

Veniamo al dopoguerra, al quale si riferisce la gran parte dei documenti inediti raccolti nel suo libro. Lei dimostra che, al contrario di ciò che comunemente si crede, Pio XII non fu uno strenuo difensore della causa monarchica…
SALE: Il 29 maggio 1946, dunque pochi giorni prima dello storico referendum del 2 giugno, Pio XII parlò col direttore della Civiltà Cattolica e gli disse chiaramente di non essere contrario ad una forma repubblicana dello Stato italiano e che, in base all’esperienza che egli aveva avuto durante la sua lunga permanenza in Germania, rilevava che anche i regimi repubblicani possono garantire la libertà della Chiesa. Più in generale è sorprendente notare come sia proprio papa Pacelli a rassicurare la gerarchia cattolica sulla non pericolosità della forma di governo repubblicana: «Guardate ai concordati firmati con i Länder tedeschi nel primo dopoguerra, guardate alla Repubblica di Weimar in Germania» diceva il Papa. «Ecco come uno Stato retto da una forma repubblicana e in presenza di un forte partito di centro ha stipulato dei concordati soddisfacenti. Se questo è avvenuto in Germania, può avvenire anche da noi, che abbiamo una tradizione affine a quella tedesca». Se il Papa avesse potuto votare, probabilmente avrebbe scelto la monarchia, ma a differenza di molti vescovi, Eugenio Pacelli non aveva paura di una eventuale svolta repubblicana. Piuttosto aveva paura che dalle votazioni per la Costituente, i cui membri dovevano essere eletti nella stessa tornata elettorale, uscisse una maggioranza socialcomunista e che, di conseguenza, l’Italia si ritrovasse con una Costituzione ispirata al bolscevismo.
La minaccia del comunismo sta anche al centro di un colloquio al quale lei dà particolare rilievo: quello svoltosi nel gennaio del 1946, vale a dire nell’imminenza delle prime elezioni del dopoguerra – quelle amministrative della primavera del 1946 – tra il capo della Commissione interalleata Ellery W. Stone e il conte Enrico Galeazzi…
SALE: La rilevanza dell’episodio è data anche dal suo carattere, per così dire, di “incontro al vertice”. Stone, infatti, era una sorta di “viceré” italiano, mentre il conte Galeazzi, insieme al principe Carlo Pacelli, era un uomo di fiducia di Pio XII che, per le questioni delicate, si serviva più di questi canali privilegiati che non della consueta diplomazia vaticana. Attraverso Galeazzi, Stone chiede alla Segreteria di Stato di «entrare in pieno nel campo politico», di iniziare subito un’opera capillare e costante di “catechizzazione” dei cattolici contro il pericolo rosso. Ma la Segreteria di Stato, pur sottolineando l’incompatibilità tra cattolicesimo e comunismo, si rifiuta di esporsi in prima persona nella lotta politica. Ed anzi, alcuni giorni dopo, pur nel massimo rispetto, risponde agli alleati che loro «facciano tutto il possibile per far svolgere le elezioni in un’atmosfera di tranquillità». Insomma la Chiesa non aveva nessuna intenzione di gettarsi nell’agone politico, riflettendo, tra l’altro, la visione che aveva De Gasperi del rapporto tra la Chiesa e la Dc; una visione, questa, che causò dei contrasti con una parte della Curia che, invece, premeva perché la Chiesa ponesse ai partiti che appoggiava delle condizioni: un anticomunismo tale da chiedere addirittura che il Pci fosse messo fuorilegge. Ma De Gasperi rispose che, nonostante l’antagonismo con quel partito restasse, questo non era possibile, perché la conseguenza sarebbe stata lo scoppio dello scontro sociale che, tra l’altro, era proprio quello che anche la Chiesa voleva assolutamente scongiurare.
Umberto di Savoia mentre vota per il referendum del 2 giugno 1946

Umberto di Savoia mentre vota per il referendum del 2 giugno 1946

In effetti i documenti allegati al suo libro mostrano che, in materia di alleanze politiche, in quel momento le posizioni all’interno della Curia erano più diversificate di quanto comunemente si pensi.
SALE: Monsignor Francesco Borgongini Duca, ad esempio, spaventato dalla prospettiva della progettata fusione tra socialisti e comunisti, in un dispaccio del 18 gennaio 1946 indirizzato all’allora sostituto della Segreteria di Stato Giovanni Battista Montini, auspica lo “sganciamento” dei socialisti dal Pci ed una collaborazione democristiano-socialista. Di fatto, caldeggia la nascita di un centro-sinistra. Ma occorre sottolineare che la proposta era legata alla contingenza storica. Il problema era staccare i socialisti dal Pci, perché era chiaro a tutti che i due, insieme, rappresentavano un pericolo per la democrazia; e, pur di evitare quella fusione, si era disposti a prendere in considerazione anche un possibile centrosinistra.
Quale fu la risposta di Montini?
SALE: Da una serie di testimonianze parallele, si evince come l’allora sostituto alla Segreteria di Stato seguisse De Gasperi nella sua scelta politica di un centro che guardava a sinistra. E tuttavia da un’alleanza con i socialisti in quel momento storico Montini vedeva sorgere delle difficoltà. Temeva in particolare lo sganciamento delle classi medie dalla Dc e, probabilmente, la nascita di un altro partito cattolico, con forte connotazione di destra. Insomma in quel momento un accordo tra la Dc e i socialisti sarebbe stato deleterio. Ripeto: quella possibile scelta era dettata dal realismo politico, lo stesso poi che animò De Gasperi quando alcuni mesi dopo, il 4 giugno 1946 – e dunque a scrutinio ancora in corso per il referendum e la Costituente – confidò al nunzio che, in caso di vittoria della Repubblica, i partiti di sinistra gli avevano proposto un tripartito Dc-Pci-Psi con gli Esteri ai comunisti, Nenni capo del governo e lui presidente della Repubblica; ma che lui, piuttosto, avrebbe tentato di sganciare i socialisti dal Pci, proponendo ai primi la presidenza della Repubblica e mantenendo per sé la presidenza del Consiglio. Poi le cose andarono diversamente, ci fu la scissione dei socialdemocratici dal Psi, le elezioni del 1948 e la costituzione del quadripartito con socialdemocratici, repubblicani e liberali…
Una domanda su Palmiro Togliatti: c’è un episodio inedito narrato da Borgongini Duca che sembra gettare una luce nuova sul suo atteggiamento nei confronti della Chiesa cattolica: nel febbraio del 1946 Pio XII nominò cardinale il cinese monsignor Tien, e in suo onore l’ambasciata di quel Paese offrì un ricevimento al quale partecipò anche il leader del Pci, a quel tempo ministro di Grazia e Giustizia, pur sapendo perfettamente che il pranzo era offerto in onore del neocardinale…
SALE: E quando l’incaricato d’affari cinese, alla fine del suo discorso, pregò gli astanti di brindare alla salute del Papa, del capo dello Stato cinese Chiang Kai-shek e del cardinale, tra lo stupore generale alzò il calice anche il leader del Pci. Così nel resoconto ufficiale di quell’evento stilato per monsignor Tardini, allora segretario della Sacra Congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari, il nunzio sottolineò come la serata fosse stata un entusiastico omaggio al Sommo Pontefice e alla Chiesa cattolica, da parte dei non cattolici, al quale non si erano sottratti né l’ambasciatore sovietico né i ministri comunisti, che erano intervenuti sapendo esplicitamente anche dall’invito scritto che il pranzo era in onore di un cardinale.
Che messaggio voleva lanciare Togliatti con quel gesto?
SALE: Era stata da poco inaugurata l’ambasciata dell’Urss in Italia, un fatto che aveva destato una grave e comprensibile inquietudine in un movimento cattolico italiano segnato dall’anticomunismo e profondamente scosso dalla persecuzione dei cristiani nell’Unione Sovietica. Così, alla prima occasione pubblica che gli si presentò, Togliatti tentò di smorzare le tensioni. Ma c’è un altro episodio, forse più significativo dell’atteggiamento di Togliatti nei confronti della Chiesa. In un documento che ho potuto visionare, Togliatti dice a un vescovo: «Desidererei che la Chiesa riconoscesse al Pci un ruolo di moderazione nel fatto religioso. Il comunismo italiano non è un comunismo che intende perseguitare la Chiesa». E poi aggiunge: «Ma è bene che questo pensiero non si sappia in giro». Ed effettivamente fu proprio Togliatti che, contro il parere della maggioranza comunista, in sede di Costituente lanciò l’ordine di scuderia di approvare l’articolo 7 della Costituzione, che recepiva il Concordato e i Patti Lateranensi. Togliatti era fortemente cosciente dell’identità nazionale italiana, e dunque voleva presentarsi alla nazione come rispettoso delle tradizioni culturali del nostro Paese. Sapeva benissimo che, anche nella migliore delle ipotesi, il Pci non avrebbe potuto governare contro la Chiesa, contro le diocesi, contro i sacerdoti. Opportunismo, propaganda? Una cosa è certa: il realismo politico fa parte della coscienza politica e in questo Togliatti fu un maestro. Non c’è dubbio: i maggiori protagonisti di quel tempo furono Togliatti, De Gasperi e Montini.


Español English Français Deutsch Português