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CHIESA
tratto dal n. 03 - 1999

Storia di un prete italiano


Da don Milani a Roberto Benigni. Dal ’48 al duemila, aspettando un giubileo senza fanfare. Incontri, ricordi e attese di un parroco del Mugello diventato cardinale di Firenze. Silvano Piovanelli racconta la sua avventura


Intervista con il cardinale Silvano Piovanelli di Gianni Valente


Il cardinale Silvano Piovanelli, arcivescovo di Firenze dal marzo 1983

Il cardinale Silvano Piovanelli, arcivescovo di Firenze dal marzo 1983

Ad Deum qui laetificat iuventutem meam, «Al Dio che rende lieta la mia giovinezza». Con questa preghiera, un tempo, iniziava la messa. La recitavano i bambini e gli adolescenti. Ma anche i vecchi consumati dagli anni.
Silvano Piovanelli, cardinale a Firenze, ha da poco festeggiato i settantacinque anni. Ha scritto al Papa la lettera di rinuncia all’ufficio, come comanda il diritto canonico. E ha scritto anche ai suoi preti di Firenze, chiedendo loro di non perdere tempo in «chiacchiere inutili», perché «non sappiamo quando il Santo Padre vorrà accettare le mie dimissioni». Ma se oggi, dopo cinquant’anni da prete e sedici da vescovo, si mette a raccontare la sua vita, si vede subito che il cuore è giovane, come quello di un innamorato. Quasi se ne scusa, mettendo le mani avanti: «Questo» dice «mi ha sempre reso tranquillo: il fatto di non aver scelto io».
Nell’intervista che segue, Piovanelli racconta gli incontri, i luoghi e le circostanze che hanno segnato la sua avventura cristiana. Il racconto diventa anche una storia collettiva: la storia della Chiesa fiorentina degli ultimi decenni.
Lungo il cammino, tante piccole scintille lasciano intuire da dove provenga quella «giovinezza dello stupore» che allieta ancora i giorni di questo parroco diventato principe della Chiesa.

Eminenza, partiamo da lontano. In quale ambiente è germogliata la sua fede e la sua vocazione di sacerdote?
SILVANO PIOVANELLI: L’ambiente nel quale sono nato e cresciuto, nel Mugello, era semplice, di gente del popolo. Il mio babbo era un imbianchino muratore. Mia mamma era una donna di casa che faceva la lavandaia per aiutare un pochino il bilancio familiare. Io e mio fratello eravamo due ragazzi come tanti. La cosa che nella mia infanzia è rimasta come un punto luminoso e che, ancora oggi, tutte le volte che ci ripenso, mi commuove, è quando per la prima volta ho pensato di farmi prete. Io facevo la quinta elementare. Ero con una classe di catechismo in passeggiata con il mio parroco (noi lo si chiamava, e lo si chiama ancora, priore). Eravamo molto allegri, un ragazzo stava suonando il tamburo, noi si cantava. In cammino per la strada siamo passati vicino a una casa di contadini. E da quella casa una donna, vedendoci passare, ha detto: «Ma guardalo, sembra don Bosco!». Si riferiva al mio parroco, vestito con la tonaca, con in testa il nicchio, circondato dai ragazzi, un po’ come veniva sempre rappresentato Giovanni Bosco, che a quei tempi era stato santificato da poco. Allora anch’io ho guardato il mio priore, e mi sono detto: vorrei essere come lui. Questo è stato il primo bagliore, ma un bagliore così forte che mi ha deciso, a quell’età, a lasciare la famiglia, venire a studiare a Firenze, al seminario, facendo una cosa per quei tempi audace. Avevo solo undici anni.
L’ambiente nel quale sono nato e cresciuto, nel Mugello, era semplice, di gente del popolo. Il mio babbo era un imbianchino muratore. Mia mamma era una donna di casa che faceva la lavandaia per aiutare un pochino il bilancio familiare. Io e mio fratello eravamo due ragazzi come tanti. La cosa che nella mia…
Lei è del 1924. Questa fu una buona “annata” di sacerdoti, a Firenze...
PIOVANELLI: Nella vita quotidiana del seminario, tutta intessuta di preghiera e di studio, insieme a quei compagni, crebbe quell’inizio. Fu un periodo di grande fervore. Noi lavoravamo sul serio; entusiasmandoci per il latino, il greco. Ricordo con quanta passione si studiavano i poeti: a parte il Manzoni, anche Foscolo, Leopardi, D’Annunzio. Più tardi, durante gli studi di teologia, in classe con me c’erano anche compagni che poi divennero importanti come don Giuseppe Franci e don Lorenzo Milani.
Lei è cresciuto circondato da testimoni del cattolicesimo fiorentino. Tutta la sua vita è punteggiata dagli incontri con loro. Da don Giulio Facibeni a don Lorenzo Milani, a monsignor Enrico Bartoletti, a Giorgio La Pira...
PIOVANELLI: Questa è la grazia che ho ricevuto, veramente. La fortuna della mia vita. Otre a quelli che ha ricordato, aggiungerei padre Turoldo, don Divo Barsotti, padre Balducci. Tutte individualità gratuite, non programmate, suscitate dal Signore a una a una. Come diceva il cardinale Suenens, l’imprevisto è lo stile di Dio. Non sono mai diventati un gruppo organizzato. Tra di loro, che pure a volte si incontravano, non c’era nessuna tentazione di omologazione. Ognuno era semplicemente se stesso. Nessuno di loro ha avuto il problema di dar vita a cose che sopravvivessero a loro stessi in forza di una organizzazione umana. Erano tutti figli della Chiesa e proprio per questa figliolanza erano uomini liberi. Stella a stella differt in claritate, ogni stella ha la sua luce nella chiarità del firmamento. Che è veramente bello perché è fatto di questa varietà.
Firenze, 25 marzo 1999. Un momento della processione per la festività dell’Annunziata con cui la Chiesa della città ha cominciato un tempo di preparazione speciale al Giubileo

Firenze, 25 marzo 1999. Un momento della processione per la festività dell’Annunziata con cui la Chiesa della città ha cominciato un tempo di preparazione speciale al Giubileo

È stato scritto: «Sembrò ad un certo punto che Firenze fosse diventata una città troppo piccola per assorbire una simile pioggia di grazia». Vorrei che lei ricordasse brevemente i suoi incontri con alcuni di loro. A partire dal suo compagno di seminario, don Milani.
PIOVANELLI: Vivemmo insieme i quattro anni di teologia, al seminario, dal ’43 al ’47, e venimmo ordinati sacerdoti lo stesso giorno. Erano i giorni drammatici del pane a tessera; la gente faceva acrobazie per sopravvivere. Lorenzo, assolutamente povero nell’uso del denaro, condivideva con noi tutto quello che gli arrivava dalla sua famiglia borghese, dalla fattoria di Gigliola. Ricordo il suo entusiasmo quando, non so come, scoprì che in Francia era uscito il libro di Godin Francia: Paese di missione? Ci coinvolgeva nelle discussioni, nelle traduzioni, voleva far conoscere quei contenuti anche in Italia. Noi gli abbiamo voluto bene sempre, ma non l’abbiamo capito subito. Era «dieci anni in anticipo sui tempi», come diceva lui stesso. E una sua certa durezza nei gesti e nelle parole ha reso difficile ad alcuni penetrare il suo cuore. Ma poi, come don Mazzolari, ha accettato di soffrire per la Chiesa e dalle sue stesse mani. Il segno misterioso del profeta.
Tra il ’47 e il ’48 lei, appena ordinato sacerdote, viene mandato a Rifredi e diviene, giovanissimo, collaboratore di don Giulio Facibeni. Cosa significò vivere un anno così cruciale, anche dal punto di vista politico, avendo davanti agli occhi la testimonianza di questo sacerdote in odore di santità?
…infanzia è rimasta come un punto luminoso e che, ancora oggi, tutte le volte che ci ripenso, mi commuove, è quando per la prima volta ho pensato di farmi prete. Io facevo la quinta elementare. Ero con una classe di catechismo in passeggiata con il mio parroco (noi lo si chiamava, e lo si chiama ancora, priore)…
PIOVANELLI: Questo santo lo conoscevamo già. Eravamo ammirati di don Giulio Facibeni, fino al punto che la nostra classe di seminario ha insistito perché venisse a farci la preparazione al sacerdozio. Erano anni caldi. A Rifredi eravamo in un ambiente operaio. C’era la grande fabbrica della Galileo. Ma monsignor Facibeni era un prete che era nel cuore degli operai, per cui era stimatissimo. Attraverso lui abbiamo vissuto quei tempi, con le difficoltà che facevano parte di quel momento storico, senza lacerazioni interiori, sentendoci insieme nella situazione.
Poi lei è stato chiamato a seguire il seminario minore. E lì visse e lavorò per lunghi anni insieme a monsignor Bartoletti.
PIOVANELLI: Sono stato al seminario minore prima come vicerettore e poi come responsabile unico dal ’48 fino al ’60. Bartoletti è stato rettore del seminario minore e poi rettore unico di tutti i seminari fino al ’57. Più tardi, come segretario dei vescovi italiani, ha segnato profondamente la storia della Chiesa Poi, nel ’60, il cardinale Ermenegildo Florit la nominò parroco di Castelfiorentino. Qualcuno dice che fu una “normalizzazione” per tagliar corto col vostro modo di guidare il seminario, considerato troppo permissivo. Eppure per lei quell’esperienza non si rivelò un triste esilio...
PIOVANELLI: Qualcuno l’ha interpretato in quella maniera, ma io non l’ho mai pensato. E poi, dico la verità, Dio non normalizza mai le cose. Forse gli uomini possono anche tentare di normalizzare: ognuno fa il suo gioco, come si dice. Ma Dio scrive diritto anche sulle nostre righe storte. Ricordo che quando fui mandato a Castelfiorentino fu un grande distacco. Non mi aspettavo un cambiamento, ero immerso nella preparazione dell’inizio del nuovo anno al seminario, mi ricordo che ho anche pianto ma, allo stesso tempo, mi sono sentito libero. Questo mi ha sempre reso tranquillo: il fatto di non aver scelto io.
Piovanelli in Giordania nel 1995

Piovanelli in Giordania nel 1995

Dal ’61 al ’79, lei fu parroco a Castelfiorentino, che alcuni definivano allora “il comune più rosso d’Italia”. Anni turbinosi, a volte difficili anche nella Chiesa. Cosa la confortò in quel periodo?
PIOVANELLI: Non oso dire, come diceva il vescovo di San Salvador Oscar Romero, di essere stato convertito a Cristo dal mio stesso popolo; ma certo quello che ho imparato l’ho imparato in parrocchia. In quegli anni a volte c’era chi diceva: il nostro cristianesimo fatto di tradizioni bisogna smantellarlo; la parrocchia è senza futuro; bisogna ricominciare ripartendo da zero. Magari la notte non ci dormivo, rigirandomi nella mente quei giudizi. Ma poi la mattina riprendevo coraggio, vedendo le persone che venivano a messa. Uomini e donne che ascoltavano il Vangelo, che cantavano lieti. Padri di famiglia, magari rotti dalla fatica del lavoro, ma fedelissimi alla messa domenicale, con gli occhi vivi e gioiosi. Donne indaffarate dietro ai figli e alla casa, capaci di dirti tra una faccenda e l’altra poche parole di fede che t’illuminavano per tutta la giornata. E poi, l’imprevisto di essere confortati anche da chi era lontano, da chi non veniva magari in chiesa. Le racconto un episodio. Quando ci fu la grande alluvione, nel ’66, anche a Castelfiorentino ci furono gravi danni. Rimase isolata la casa di riposo dove c’erano gli anziani. Appena le acque si ritirarono, io andai là, per rimediare al grande disagio. Gli anziani non potevano più star lì. Dove mandarli? Ho chiamato la gente, ho detto: «Guardate, se non vogliamo mandarli via, l’unico modo è prenderli in casa nostra». Mi raccontarono di uno che non veniva mai in chiesa, ma che accolse una coppia di vecchietti e la fece dormire nel proprio letto, mentre lui e la moglie dormivano sul divano. A quest’uomo dal cuore buono, penso che forse gli capiterà quello di cui parla il Vangelo di Matteo al capitolo 25: «“Ma quando mai, Signore, t’abbiamo fatto questo?”. “Quella volta che tu mi mettesti a letto, nel tuo letto, e tu e tua moglie andaste a dormire sul divano”».
In Italia ci sono ormai quasi quattromila parrocchie senza parroco. Allo stesso tempo, tante parrocchie vengono organizzate secondo un modello di efficientismo aziendale. Per chi chiede i sacramenti scatta la richiesta di partecipare a corsi di preparazione sempre più lunghi, che vengono spesso percepiti, dai moltissimi “lontani”, come un ricatto...
Eravamo molto allegri, un ragazzo stava suonando il tamburo, noi si cantava. In cammino per la strada siamo passati vicino a una casa di contadini. E da quella casa una donna, vedendoci passare, ha detto: «Ma guardalo, sembra don Bosco!». Si riferiva al mio parroco, vestito con la tonaca, con in testa il nicchio, circondato…
PIOVANELLI: Per appartenere ad una parrocchia non è necessario appartenere a nessuna altra forma di comunione che non sia quella fondata puramente sulla professione di fede. Questa essenzialità minimale, questo rimanere alle poche cose che bastano per essere cristiani può essere una forte garanzia della libertà del cristiano. Potremmo pensare alla lotta di Paolo per assicurare a ogni uomo la possibilità di essere cristiano senza per questo dover diventare prima ebreo. Il cristiano entra nella Chiesa semplicemente professando la fede in Gesù Cristo e facendosi battezzare. Anche nell’amministrare i sacramenti, occorre avere criteri che aiutino a “non gettare le perle ai porci”. Ma d’altro canto, non si possono creare ostacoli e imporre pedaggi eccessivi a chi chiede i sacramenti, anche se sembrano persone dalla fede incerta e lacunosa. La larghezza della Chiesa nell’amministrare i sacramenti ha l’indubbio vantaggio di salvaguardarla dal rischio di ingabbiare la fede in schemi e forme da cui ogni fedele deve essere libero. Mi ricordo che La Pira, dopo che in Francia era venuta fuori l’idea di ritardare i sacramenti, fece un intervento bellissimo in un consiglio pastorale diocesano, in cui diceva: «Non negate la grazia! È la grazia che tocca i cuori e li trasforma!». Bisogna sempre essere attenti, nella Chiesa, a non prendere atteggiamenti che ci facciano sottolineare più i mezzi che il fine. Il segreto è che il sacerdote consideri sempre la condizione reale del soggetto che ha davanti. Non si tratta tanto di dilatare spiegazioni e preparazioni. Il parroco, di suo, ha come compito quello di incontrare la gente, di rispettare il passo di tutti, di scendere magari al loro livello per partire da lì e andare in alto, ma partendo dal punto in cui è la gente. Perché Dio ha sempre tempo, siamo noi che siamo insofferenti e impazienti. E poi, piuttosto che dire alla gente: «Sali fin qui», bisogna scendere fin lì. È quello che diceva don Milani: quando c’è poca gente in Chiesa, non domandarti perché non sono qui. Domandati piuttosto perché tu non sei lì.
Quegli anni controversi videro l’esplosione della contestazione anche nella Chiesa...
PIOVANELLI: Io dico la verità: a quei tempi, almeno in molti di noi che, ad esempio, si entusiasmavano per il Concilio, non c’era tanto l’idea di cambiare alcune cose, quanto piuttosto di guardare la Chiesa in un modo più profondo, e poi di andare incontro al mondo in maniera più aperta e più evangelica. Poi, è vero, c’erano i tradizionalisti che avevano paura a lasciare il proprio attracco, a prendere un pochino il largo, e poi c’erano gli altri che volevano innovare ad ogni costo, come se semplicemente nell’innovare ci fosse la salvezza. Ma guardi che tra quelli che hanno vissuto il Concilio, in tanti eravamo proprio in questa fase di nuovo innamoramento della Chiesa. Riscoperta inattesa del suo volto, delle cose essenziali. Io, grazie a Dio, l’ho vissuta sotto la sollecitazione esistenziale della vita vissuta tra la mia gente. Quindi con la possibilità di verificare a tu per tu l’autenticità, la consistenza delle cose.
Piovanelli durante un incontro con alcune famiglie disagiate di Firenze

Piovanelli durante un incontro con alcune famiglie disagiate di Firenze

Con l’arrivo di Benelli come nuovo arcivescovo di Firenze, lei fu nominato, prima, vicario generale e, poi, vescovo ausiliare della diocesi fiorentina. Che ricordo conserva di Benelli?
PIOVANELLI: Io penso che il cardinale Benelli bisogna guardarlo fuori dallo schema in cui lo avevano presentato e in cui a Firenze molti per tanto tempo lo hanno visto. Lui veramente aveva il cuore del pastore, e ha consumato per questo la sua vita. Io ricordo l’inizio della visita pastorale, che avevamo pensato insieme. Mentre eravamo in macchina, e lui guidava – voleva guidare sempre lui – mi fa: «Oggi sono proprio contento». «Perché, eminenza?». «Ah, perché oggi si comincia la visita pastorale, ora finalmente comincio a fare il prete». Anche riguardo alla situazione della fede e della Chiesa, aveva negli ultimi anni intuizioni sorprendenti. Ad esempio, due settimane prima di morire, parlando ai seminaristi, disse loro che c’era «una parte della Chiesa che si è accomodata, che si è sistemata, fa come quelli che si opponevano a Cristo, i quali erano osservanti... Sono gente che si serve della Chiesa e serve la propria pigrizia, protegge interessi dei quali magari non ha chiara coscienza, ma protegge se stessa, protegge il proprio modo di vedere». E concludeva: «Non gli oppositori, non le ideologie avverse al cristianesimo, non quelli che stanno dall’altra sponda, non sono loro i più grandi nemici. I più ostili sono i cristiani che si sono seduti, che si sono fatti una religione a modo loro: questo è il più grande impedimento alla propagazione del vero messaggio di Cristo». Parole profetiche, soprattutto in quegli anni, quando non era facile riconoscere che se la fede e la Chiesa vengono meno ciò accade “dal di dentro”, e non in primo luogo per colpa dei nemici esterni.
…dai ragazzi, un po’ come veniva sempre rappresentato Giovanni Bosco, che a quei tempi era stato santificato da poco. Allora anch’io ho guardato il mio priore, e mi sono detto: vorrei essere come lui
Lei non ha avuto rapporti personali con Paolo VI e papa Luciani...
PIOVANELLI: No, anche se verso Paolo VI ho sentito profonda ammirazione. Ho sentito fortemente anche il dramma che lui ha vissuto dopo il Concilio.
Quando Benelli muore in maniera inattesa, lei diviene arcivescovo un po’ per caso. Don Silvano Nistri, storico della Chiesa fiorentina, ha scritto: «Se si fosse fatta l’elezione “a clero e a popolo”, probabilmente l’eletto sarebbe stato ugualmente lui, tanto era conosciuto per le sue doti di fedeltà, di umiltà e di mitezza. Non aveva nemici». Con quale spirito lei accolse questa nomina?
PIOVANELLI: Lo dissi ai fedeli, nella messa per l’ingresso ufficiale nella diocesi. Dissi loro: «Non dalle cattedre dell’università, non dalle scuole dove tengono magistero uomini dottissimi, non da prestigiose sedi diplomatiche, ma dal ministero pastorale, umile, oscuro, laborioso, ha tolto Iddio il vostro arcivescovo». E poi avevo ancora nel cuore le parole che Benelli mi aveva detto imponendomi le mani per l’ordinazione a vescovo ausiliare: «Conserva il deposito», mi disse. Le stesse parole che san Paolo aveva detto a Timoteo, il suo discepolo prediletto. Un vescovo non deve fare altro che rimanere fedele, e non pensare che la Chiesa cresca per le sue idee e iniziative.
Lei ha ripetuto che la Chiesa di oggi soffre di ecclesiocentrismo. Cosa intende?
PIOVANELLI: È il pericolo che si realizza quando la Chiesa rimanda solo a se stessa, alle proprie iniziative. Noi parliamo, parliamo, e spesso diciamo solo parole. Non è che la Chiesa non abbia una luce. Ma in lei si verifica quello che i Padri chiamavano il mysterium lunae, il mistero della luna. La luna di suo è un corpo opaco, ma nella notte risplende di una luce stupenda. La luce non è sua, è la luce riflessa del sole. Allo stesso modo, la Chiesa è un corpo opaco che non ha luce propria, ma nelle tenebre in cui camminano gli uomini riflette la luce di Cristo, la luce che è Cristo. La Chiesa risplende solo perché è luminosa di Lui. La costituzione sulla Chiesa promulgata dall’ultimo Concilio ecumenico si intitola Lumen gentium, e uno pensa: si vuole indicare la Chiesa. E invece no. Questa espressione si riferisce a Cristo, e non alla Chiesa: «Essendo Cristo la luce delle genti...», così comincia la Lumen gentium.
Piovanelli con i lavoratori del cantiere per le linee ferroviarie ad alta velocità

Piovanelli con i lavoratori del cantiere per le linee ferroviarie ad alta velocità

Diceva sant’Agostino che i vescovi fanno una professione a rischio. Il loro lavoro li espone a tentazioni e a possibilità di perdizione ben più gravi rispetto ai semplici fedeli. Cosa l’ha guidata e confortata in questi anni alla guida della diocesi fiorentina?
PIOVANELLI: Questo lungo cammino è stato segnato da tre fattori: l’amore di Dio, che conduce per mano e mantiene nel cuore la giovinezza dello stupore; l’inadeguatezza della mia vita, a livello culturale e spirituale, dinanzi al compito che il Signore mi ha posto davanti. E poi il conforto di tante persone che non mi hanno mai fatto mancare la loro comprensione e le loro preghiere. In questo cammino è cresciuta nel tempo la simpatia con l’esperienza di Giovanni Battista, che davanti Gesù esclamava: «Bisogna che lui cresca e io diminuisca». E allo stesso tempo, il riconoscimento che Dio non si è ancora stancato di chiedermi, come faceva con Simon Pietro: «Mi ami tu?».
L’attuale tendenza della Chiesa italiana a fissarsi sulle nuove battaglie (scuola, coppie di fatto, fecondazione artificiale) non finisce per essere limitativa? Si ha l’impressione che la presenza della Chiesa nella società si identifichi con queste “sfide” di principio, che la natura pubblica del cristianesimo stia o cada su questi punti...
PIOVANELLI: Oh, per carità. Sono i giornali che mettono in luce solo quell’aspetto. Insistere sui modelli antropologici senza guardare più a fondo sarebbe come voler costruire la casa dal tetto. Ma non mi sembra che sia questo il criterio della Chiesa italiana. E poi, occorre tener sempre presente l’insegnamento dei Padri: in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas. Proclamare la verità non vuol dire mai condannare gli uomini.
Si avvicina il Giubileo. La Chiesa di Firenze, a partire dalla festa dell’Annunziata, il 25 marzo, ha cominciato un tempo di preparazione speciale. Cosa pensa del modo con cui ci si prepara all’Anno Santo?
PIOVANELLI: Il 25 dicembre il Santo Padre aprirà il Giubileo a Roma. Perché quel giorno si festeggia la nascita di Gesù. Ma ciò significa che Gesù ha cominciato ad essere uomo nove mesi prima, il 25 marzo, giorno dell’Annunciazione. Per questo noi, a Firenze, a partire dall’Annunziata abbiamo iniziato un tempo speciale di preparazione, anche perché qui a Firenze c’è una devozione speciale per l’Annunziata. Se si ripensa alle modalità con cui avvenne quel colloquio tra l’Angelo e Maria: nella penombra di un’umile casa palestinese, nel silenzio di un giorno qualunque. Un fatto reale, storico, che accade nelle condizioni ordinarie, senza avvisi pubblicitari, senza suono di fanfare. Questo dovrebbe suggerire anche dei criteri sui modi più consoni per celebrare il Giubileo. Il Giubileo, di suo, non ci dà nulla di nuovo. Tra il duemila e il duemila e uno che differenza c’è? Noi già siamo nella pienezza dei tempi.
Riguardo alla ricerca di comunione tra cattolici e ortodossi, tra i quali lei ha molti amici, qualche anno fa lei suggerì di riprendere a modello le forme di comunione sinodale in vigore nel primo millennio. Ritiene ancora valido il suggerimento?
PIOVANELLI: Dopo la grande rottura tra Chiesa d’Oriente e d’Occidente, ci fu un momento, all’inizio dell’epoca moderna, in cui si arrivò a un passo dal ristabilire la piena unità. Fu al Concilio di Firenze, nel 1439, a cui parteciparono anche gli ortodossi. In quell’occasione, dopo aver affermato il primato del vescovo di Roma, nel decreto per i greci si aggiunse: «Rinnoviamo l’ordinamento tramandato nei canoni da osservare tra gli altri venerabili patriarchi, per cui il patriarca di Costantinopoli sia secondo dopo il santissimo pontefice romano, il patriarca di Alessandria sia terzo, quello di Antiochia quarto, quello di Gerusalemme quinto». Poi anche quel tentativo fallì. Ma forse si potrebbe tentare di ripartire da lì. Un incontro del vescovo di Roma con i patriarchi delle antiche sedi d’Oriente, e con la partecipazione anche dei primati delle altre Chiese, come, ad esempio, la Chiesa russa, avendo come spunto di dialogo i modelli di comunione sperimentati nel primo millennio. Chissà, potrebbe essere un buon proposito per l’inizio del nuovo millennio.
Piovanelli con Roberto Benigni il 9 marzo 1998, dopo la proiezione per i sacerdoti fiorentini del film La vita è bella

Piovanelli con Roberto Benigni il 9 marzo 1998, dopo la proiezione per i sacerdoti fiorentini del film La vita è bella

Negli ultimi anni, nella sua diocesi ha inaugurato una particolare proposta: la catechesi attraverso l’arte. Lo scorso autunno centinaia di giovani sono convenuti a Firenze da tutto il mondo per partecipare a una settimana di questa inusuale testimonianza cristiana. Di che si tratta?
PIOVANELLI: L’arte, proprio in quanto bellezza, già di per sé ti dice qualcosa di Dio. Non per nulla Dante diceva: «La vostr’arte a Dio quasi è nepote». Se la natura è figlia, l’arte è “nepote”. Se poi l’arte è arte cristiana, in quel caso essa è un frutto gratuito della fede che si comunica nelle forme della bellezza. E questo tipo di comunicazione mi sembra più connaturale, più in sintonia con la fattispecie del cristianesimo. Perché l’inizio, in ogni avventura cristiana, è un fatto estetico, una promessa di felicità intravista in una realtà bella da vedersi. Per questo abbiamo tentato di approfittare del grande patrimonio d’arte della nostra città per proporlo, senza pretese, come spunto d’incontro con la fede cristiana.
Sempre in linea con questa sensibilità al linguaggio dell’arte, lei lo scorso anno ha organizzato per i preti di Firenze una visione del film di Roberto Benigni La vita è bella, anticipando quel sorprendente entusiasmo per l’opera che ha trionfato a Hollywood nella notte degli Oscar. Quell’incontro di un anno fa proposto al clero fiorentino fu un ritiro spirituale sui generis. Cosa poteva suggerire il film di Benigni ai preti fiorentini?
PIOVANELLI: L’esperienza della gratuità, dell’imprevisto, dell’improvviso che non ti aspetti e che ti riempie il cuore, è il grande tesoro che viene comunicato nel film di Benigni. Tutto parte dall’innamoramento del protagonista per la sua donna. È questo innamoramento che darà anche la forza al protagonista di inventarsi tutte le burle per proteggere il bambino dall’orrore, nella speranza che la sua vita non venga distrutta. Un miracolo possibile anche in questo nostro mondo senza speranza, che a volte può assomigliare tutto intero a un immenso campo di concentramento. Dovunque, se accade un innamoramento così, tu puoi riuscire a salvarti, a scardinare le cose. E poi colpiscono, nel film, le incredibili trovate con cui il protagonista cerca di proteggere il bambino nel campo di concentramento. È un’esperienza in cui, credo, ogni genitore può veder rispecchiato quel senso di dedizione incondizionata per i propri figli, fino al sacrificio, che costituisce la più potente analogia creaturale con l’amore di Dio per gli uomini.
Lei ha raggiunto da poco la soglia “istituzionale” dei settantacinque anni e, a norma del diritto canonico, ha presentato al Papa le sue dimissioni. Lei è l’unico cardinale italiano che ha guidato la diocesi in cui era nato e aveva svolto il suo ministero di sacerdote. Gradirebbe che fosse conservata questa tradizione, e che a succederle venisse chiamato un altro fiorentino?
PIOVANELLI: Ah, ma questo non lo decido io.
Alcuni sacerdoti fiorentini, interpellati, hanno detto che comunque li lascerebbe sconcertati una sua sostituzione in tempi troppo rapidi. Non ne vedrebbero la ragione. Si aspettano che lei rimanga ancora a lungo al timone della diocesi, prima che le sue dimissioni vengano accolte.
PIOVANELLI: Grazie a Dio anche questo non dipende da me. Mi sento molto attaccato alla mia città, ma allo stesso tempo libero.
Lei non ha mai richiesto la nomina di un vescovo ausiliare. Perché?
PIOVANELLI: A parer mio, se il vescovo è un po’ il parroco della diocesi, o il padre della famiglia, deve essercene uno solo! Il vescovo è a suo modo sacramento di Cristo, successore degli apostoli. Dal punto di vista pastorale ci sono tanti modi per condividere in maniera collegiale le responsabilità. Ma ritengo che è meglio che di vescovo ce ne sia uno solo.
Per finire, vorrei che dicesse qualche parola in ricordo di Fioretta Mazzei, recentemente scomparsa.
PIOVANELLI: Io penso che Fioretta fosse colei che rifletteva in modo più chiaro la personalità del suo maestro che era Giorgio La Pira. Intanto per il suo sorriso, il suo modo di porsi, quasi, direi, il suo gesticolare. Lo rifletteva anche per l’immediatezza e la semplicità della fede. La fede nella risurrezione di Gesù, nel fatto che Lui c’è, che non ci abbandona, e quindi “avanti sempre!”, nonostante tutte le difficoltà. E anche la dedizione ai poveri: questo Fioretta lo ha vissuto sempre, fino all’ultimo momento della sua vita. Sempre è rimasta in mezzo alla gente di San Frediano. Erano le caratteristiche di La Pira. Questo l’ha costretta a rimanere fino all’ultimo nell’impegno politico. Non per attaccamento alla poltrona, o per mettersi in rilievo in città. E questo era l’insegnamento di La Pira, che con Paolo VI ripeteva sempre che la più alta forma di carità è la politica. Ma congiungendo sempre le due cose, l’impegno politico e la preghiera, l’appoggiarsi a coloro che pregano, per esempio, a chi vive nei monasteri. Questo Fioretta l’aveva conservato. Ho incontrato recentemente alcune sue amiche. Sono stato a celebrare messa nella chiesa del Morrocco, dove ci sono alcune suore australiane, monache carmelitane, e ho trovato lì molte persone di Firenze. Mi hanno detto: «Siamo le amiche di Fioretta. Siamo venute qui perché lei è conosciuta in questo monastero, e veniamo qui a pregare tutte insieme».


Una donna disse:«Ma guardalo sembra don Bosco!»

Dall’album dei ricordi del cardinale Piovanelli, che in questa intervista racconta così la sua vocazione: «Quella donna si riferiva al mio parroco, vestito con la tonaca, con in testa il nicchio, circondato dai ragazzi, un po’ come veniva sempre rappresentato Giovanni Bosco, che a quei tempi era stato santificato da poco. Allora anch’io ho guardato il mio priore, e mi sono detto: vorrei essere come lui».
Piovanelli giovane seminarista

Piovanelli giovane seminarista


La classe di teologia in cui studiavano 
Piovanelli (il quarto  in piedi da sinistra) e don Lorenzo Milani (il primo seduto da destra)

La classe di teologia in cui studiavano Piovanelli (il quarto in piedi da sinistra) e don Lorenzo Milani (il primo seduto da destra)


Piovanelli con un gruppo di giovani a Castiglione (Fi), nel 1951, durante i primi anni di esperienza parrocchiale

Piovanelli con un gruppo di giovani a Castiglione (Fi), nel 1951, durante i primi anni di esperienza parrocchiale


Piovanelli parroco a Castelfiorentino

Piovanelli parroco a Castelfiorentino


Giorgio La Pira con due dei suoi studenti dell’Università di Firenze

Giorgio La Pira con due dei suoi studenti dell’Università di Firenze


Don Giulio Facibeni con Giorgio La Pira, sindaco di Firenze

Don Giulio Facibeni con Giorgio La Pira, sindaco di Firenze


Don Enrico Bartoletti prende la parola durante la cerimonia in cui don Facibeni diventa cittadino benemerito di Firenze nel 1951

Don Enrico Bartoletti prende la parola durante la cerimonia in cui don Facibeni diventa cittadino benemerito di Firenze nel 1951




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