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REPORTAGE DALLA TUNISIA
tratto dal n. 09 - 2009

Incontro con il vescovo Maroun Lahham

Un palestinese a Tunisi



Intervista con Maroun Lahham di Stefania Falasca


Maroun Lahham è il secondo vescovo arabo che viene a guidare la Chiesa in Tunisia provenendo dalla terra di Gesù. Se il suo predecessore Fouad Twal, attuale patriarca latino di Gerusalemme, ricorda sempre i suoi ascendenti beduini, Maroun non dimentica certo mai di essere palestinese di Giordania. Non dimentica i lunghi anni trascorsi a Beit Jala, tra Betlemme e Beit Sahour, come rettore del seminario patriarcale latino. E non ha dimenticato neanche le pietanze arabe che la mamma gli insegnava a cucinare, «perché quando sarai prete non avrai moglie, e dovrai sbrigartela da solo».

Monsignor Maroun Lahham [© Osservatore Romano]

Monsignor Maroun Lahham [© Osservatore Romano]

La sua Cattedrale porta i nomi di san Vincenzo de’ Paoli e di sant’Oliva, una santa cara ai siciliani. Veder confluire storie e realtà di origine diversa, sembra scritto nel destino della Chiesa in Tunisia…
MAROUN LAHHAM: Allora i francesi comandavano, ma gli italiani erano tanti, il popolo dei fedeli erano loro… Adesso, nelle dieci parrocchie della Tunisia, i preti sono 42, di tante nazionalità, e tra loro uno solo è arabo, della Giordania. Prima dell’indipendenza le chiese erano cento. Con il modus vivendi del 1964, l’accordo sottoscritto con lo Stato indipendente, la Chiesa ha tenuto quello che serviva per il popolo cattolico che era rimasto, dopo che la gran parte era andata via. Il resto lo cedette allo Stato: 96 chiese su 100, che vennero tutte sconsacrate. Ora ne abbiamo ripresa qualcuna.
Dove?
LAHHAM: A Djierba la chiesa è stata da poco riconsacrata. Lì negli ultimi anni c’è stato un afflusso turistico enorme. E siccome lì c’è anche una sinagoga, il governo ci teneva a farne una vetrina della Tunisia tollerante, con la chiesa, la moschea e la sinagoga. E per i turisti andava bene.
Certo, non è più il tempo della Tunisie catholique
LAHHAM: Il cardinale Lavigerie voleva rifare la gloria di Cartagine, in concomitanza con la presenza coloniale francese. Si era fatto nominare primate di tutta l’Africa, con tanto di bolla in latino. Dopo l’indipendenza la Chiesa era ridotta al minimo. Ma quelli rimasti, compresi vescovi e preti, avevano fatto la scelta di aiutare questo popolo a costruire il proprio Stato. Quasi con un senso di riparazione: adesso questo Paese nasce, e noi che eravamo i colonialisti dobbiamo essere qui per aiutarlo. Tanti preti hanno lavorato nei ministeri, nelle scuole, negli ospedali, perché la Tunisia non aveva personale necessario.
Comunque, anche alcune istituzioni sociali cattoliche non sono mai venute meno.
LAHHAM: La clinica Saint Augustin, ad esempio, è attiva dal 1933. Allora era la prima clinica in Tunisia, e l’unica clinica cattolica di tutto il Maghreb.
E poi ci sono le scuole.
LAHHAM: Ne abbiamo dieci, con 5mila studenti musulmani e con personale musulmano. Così manteniamo un contatto con migliaia di famiglie, e loro vedono una Chiesa che serve la popolazione. Nella speranza che questo aiuti a far crescere una generazione aperta verso gli altri.
Il vostro gregge si raccoglie di tempo in tempo in un modo, per così dire, un po’ casuale.
LAHHAM: Certo è una Chiesa sui generis, con gente che arriva da ogni parte, seguendo il grande rimescolamento dei nostri tempi. Sono arrivate da qualche anno centinaia di famiglie di lavoratori della Banca africana, che ha trasferito qui la sua sede, perché la Tunisia è un posto tranquillo. Adesso si parla di un grande progetto francese dell’Airbus, che dovrebbe portare qui altri lavoratori stranieri. Ma ci sono già più di tremila ditte che lavorano sotto dogana, dando lavoro a più di 300mila tunisini. Non ci sono le comunità cristiane autoctone come nei Paesi del Medio Oriente. I rari cristiani del luogo sono casi singoli che provengono da famiglie islamiche.
Si può fare?
LAHHAM: Il proselitismo è vietato. Ma è vietato per tutti, anche per gli islamici. Se qualcuno, per un suo cammino individuale, cambia religione, anche se da musulmano diventa cristiano, non perde i diritti civili. Certo, è una scelta difficile per la pressione sociale e l’ostilità che provoca all’interno della famiglia, ma non ci sono ostacoli di ordine legale e istituzionale.
La Basilica primaziale di San Luigi, a Cartagine

La Basilica primaziale di San Luigi, a Cartagine

Comunque la Tunisia è la terra di Tertulliano e Cipriano. Dei martiri scillitani, di Perpetua e Felicita. Nella dinamica pastorale concreta che effetto ha la memoria di questi nomi?
LAHHAM: Abbiamo fatto convegni su Agostino, Tertulliano e fra un anno lo faremo su Cipriano, in collaborazione con la Cattedra Ben Ali per il dialogo interreligioso. Ma nella dinamica pastorale ordinaria, il richiamo a questo grande passato non ha avuto finora un grande effetto. Ce l’ha soprattutto nel rapporto col mondo arabo musulmano della Tunisia. Loro si riconoscono in quel passato cristiano, sentono che fa parte della loro storia, anzi ne sono orgogliosi. Questo contribuisce allo spirito di moderazione caratteristico della Tunisia. Sanno che qui il cristianesimo non era solo un derivato della colonizzazione moderna francese.
Ci hanno detto che, nel sentire comune, anche ai tempi della colonizzazione le suore erano sempre considerate come la parte buona della Chiesa. Quelle che aiutavano la gente e i poveri.
LAHHAM: Adesso in Tunisia ci sono 120 suore, di una quindicina di congregazioni. Fanno un lavoro prezioso, anche con le opere di sostegno agli handicappati e quelle di sostegno scolare. Il pomeriggio, tante case di suore che hanno una biblioteca aprono la loro casa ai ragazzi del quartiere che non possono pagare ripetizioni e lezioni private. Sono centinaia, ogni giorno.
Lei ha partecipato al Sinodo dei vescovi sull’Africa. Qual è stato il suo contributo?
LAHHAM: Al Sinodo ho parlato del rapporto con l’islam che viviamo nei Paesi del Maghreb. Quando si parla di islam in Africa, si pensa solo a quello che succede nell’Africa nera, e si dimentica che su 350 milioni di arabi musulmani più di 200 milioni stanno in Africa del nord. Noi viviamo una condizione diversa da quella che c’è nel resto dell’Africa, dove magari in alcune situazioni si trovano cristiani e musulmani nella stessa famiglia, e sono r">


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