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NUOVI BEATI
tratto dal n. 10/11 - 2009

DON CARLO GNOCCHI. Il padre dei mutilatini

Giovanni Battista Montini e Carlo Gnocchi: un’amicizia che continua


«Mi par giusto sottolineare il sostegno montiniano agli sfortunati ragazzini assistiti da don Gnocchi, anche per correggere l’opinione che Montini fosse sensibilissimo agli intellettuali e alle tematiche culturali e poco attento al mondo dei bambini»


di Giulio Andreotti


Un’immagine della cerimonia di beatificazione di don Carlo Gnocchi, celebrata in piazza Duomo a Milano, il 25 ottobre 2009 [© Associated Press/LaPresse]

Un’immagine della cerimonia di beatificazione di don Carlo Gnocchi, celebrata in piazza Duomo a Milano, il 25 ottobre 2009 [© Associated Press/LaPresse]

L’incontro domenicale di De Gasperi con monsignor Montini nella riservatissima mensa del direttore delle Ville Pontificie Emilio Bonomelli a Castel Gandolfo non aveva un significato politico, ma sarebbe difficile ritenere che almeno qualche accenno non venisse fatto ai problemi della cosiddetta società civile. E tenuto conto della risaputa preoccupazione montiniana che i sacerdoti non fossero coinvolti in attività amministrative statuali (il Concordato parlava del divieto di iscrizione ai partiti, ma l’interpretazione era più larga) si può esser certi che prima di dare a don Gnocchi l’incarico di sovrintendere al delicatissimo campo dei mutilatini, il presidente ne avesse parlato con il sostituto avendone l’assenso. Del resto era nota l’affettuosa stima di cui don Carlo godeva sia al Viminale che in Vaticano.
Il suo carattere non era facile e il metodo di lavoro che seguiva si conciliava male con la prassi romana vigente presso le due sponde del Tevere, fatta di lente istruttorie, di complicate formulazioni, di aggancio rigoroso ai precedenti (quando mancavano e si doveva mettere la “prima pietra” era un guaio). Prima di accettare, don Gnocchi si assicurò al riguardo, con qualche perplessità dei collaboratori ministeriali, superata senza indugi dal presidente del Consiglio.
La protezione ecclesiastica e politica – nel senso più elevato di questa – risultò essenziale per superare gli ostacoli quotidiani che venivano posti in essere dagli inguaribili cultori delle strutture particolari e della difesa delle proprie competenze. Sul piano dello Stato la rivendicazione fu formalizzata dall’Opera nazionale invalidi di guerra, turbata probabilmente dal successo che don Carlo stava raccogliendo. La sua reazione fu durissima, anche con interventi diretti sui membri del Parlamento. Non so se la spinta sostitutiva fosse il prodotto di un sottile anticlericalismo (come Montini disse a De Gasperi) o piuttosto la gelosa constatazione del successo che stava riportando l’opera dei mutilatini, anche con afflusso di donazioni e di aiuti privati. Nella comparazione, altri enti apparivano più utili agli assistenti che agli assistiti.
Chi poteva alleviare il tormento delle piccole vittime della guerra con le sue tremende code (l’esplosione di mine, ad esempio) doveva essere incoraggiato e ringraziato, senza stucchevoli ricorsi ai combinati disposti di leggi, di regolamenti e di statuti. A questa filosofia si opponevano in tanti, lo enunciassero o meno. E, come accade di regola, si prendeva spunto da ogni incidente di percorso. Quando, ad esempio, don Carlo sponsorizzò il volo in America di Maner Lualdi e Leonardo Bonzi per raccogliere contributi e sollecitare l’attenzione mondiale su questa commovente conseguenza del conflitto bellico, si ebbero bordate di critiche; dal fondato dubbio sul risultato finanziario (le forti spese erano certe e le oblazioni più che incerte) allo status familiare irregolare di uno dei piloti. L’“Angelo dei bimbi” divenne nella stampa quotidiana l’“Angelo dei bigami”, con un forte potere di immagine corrosiva. All’insinuazione su un don Gnocchi divorzista reagì proprio Montini, chiamato di lì a poco a intervenire per un altro assalto polemico. Ci si stracciava le vesti per un forte collegamento operativo della istituzione di don Carlo con un ente svizzero ritenuto a sfondo protestante.
Montini arcivescovo di Milano, durante la cerimonia di traslazione della salma di don Gnocchi nell’aprile del 1960

Montini arcivescovo di Milano, durante la cerimonia di traslazione della salma di don Gnocchi nell’aprile del 1960

Questa cosciente protezione di don Gnocchi non si inseriva in una abitudine di monsignor Montini a interferire sulle “nostre” cose. E quando per l’autorevolezza dei sollecitanti non poteva esimersi dal trasmetterci qualche appunto, siglava con un S.P. che poteva sembrare significasse “Santo Padre” mentre voleva dire semplicemente un “Si passa” (piccola astuzia possibile per l’antica connessione fucina).
Mi par giusto sottolineare il sostegno montiniano agli sfortunati ragazzini assistiti da don Gnocchi, anche per correggere l’opinione che G.B.M. fosse sensibilissimo agli intellettuali e alle tematiche culturali e poco attento al mondo dei bambini. Il dubbio era emerso di fronte a una fotografia della prima udienza pubblica del nuovo Papa. Qualcuno doveva avergli rammentato che Giovanni XXIII dimostrava una predilezione anche visiva verso gli infanti e che era opportuno confermarla. Di qui l’espansività verso un bimbo sollevato tra le anguste braccia; l’espressione del Papa è talmente tesa come se sostenesse il peso di un blocco d’acciaio. Giovanni Paolo II è tornato all’abitudine giovannea attuando quella spontanea diversità tra i papi che all’atto dell’elezione cambiano il nome ma soltanto questo.
Don Giovanni Battista Montini e don Carlo Gnocchi: l’uno e l’altro candidati al riconoscimento canonico della loro santità. È un’amicizia che continua.


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