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RECENSIONE
tratto dal n. 12 - 2009

L’attesa di un sorriso


La raccolta di liriche, fresca di stampa, di Antonio Mario Cappelletti resta sospesa tra la dolorosa coscienza della brevità del tempo concesso alla vita e lo sguardo all’origine e al ritorno atteso della bellezza


di Fabio Pierangeli


Antonio Mario Cappelletti

Antonio Mario Cappelletti

Tra le diverse e intense immagini della raccolta di Antonio Mario Cappelletti, Nova Carmina, una in particolare evoca la dimensione ultima del libro, sospeso tra la dolorosa coscienza della brevità del tempo concesso alla vita (il riecheggiare del più tardi, sempre più tardi montaliano) e lo sguardo posato (a volte riposato) alla origine, alla creaturalità, al ritorno atteso della bellezza: la richiesta del sorriso. Non si tratta di un tratto sentimentale, in una poesia a volte malinconica, ma del presentarsi, sorprendente, nella materialità di un volto (sia il figlio sacerdote o qualcuno della fitta schiera dei nipoti) dell’intensità di una preghiera alfine devota, sull’orizzonte della memoria di una vita intensamente vissuta, di cui si rivivono i frammenti più significativi, specie quelli legati all’esperienza della guerra, chiave interpretativa di molti eventi anche dell’oggi. Si potrebbe parafrasare, per definire sinteticamente questi versi in cerca della pace di un volto sorridente, fanciullo e maturo, in cui abiti la sorgente limpida del tempo-vita, quello che il poeta scrive del presepe: «Esprime il più grande mistero / con la semplicità cristiana».
Così al figlio Lorenzo, don Lorenzo, come nel titolo: «Sorridici. / Va bene anche s’è tardi. / Oh, tardi è parola inesorabile. / Fa tremare. / “Tardi” non si rimedia. / Sorridici».
Il sorriso e la coscienza del tardi. Inesorabile. Il poeta annota sotto ogni lirica il giorno in cui è stata scritta, fermando le parole a un istante per poi di nuovo mischiarle all’attualità proponendole e rileggendole, immagino, con evidente commozione.
Non si ha rimedio. Ed è vero: il tempo scorre, fugge, sfugge. Eppure porta quel sorriso che Cappelletti rintraccia, come nella precedente raccolta, nell’origine della vita, ascoltando i suoi eventi, con disponibilità a cantarla, sommessamente. Nella natura, «la bontà del creato», nei bimbi: «O somma bellezza, / anche per noi uomini / risentirsi bambini, / in braccio a Qualcuno / che il terrore della fine / ci renda più leggero». Quanto deve essere difficile dire una verità così palese, eppure così intima! La poesia si fa occasione per comunicare in dialogo semplice, sussurrato da padre in figlio, ai nipoti, la gioia e l’angoscia, così vera, così umana, così toccante, con una concentrazione di memoria capace di rendersi offerta, gratitudine, dono votivo per chi non è più e viene qui ricordato. I versi si fanno più spesso racconto di situazioni, agenda della memoria, rete da pescatore per trattenere non le esche, bensì la sostanza del mare che urla la sua infinitezza, le storie degli uomini sbattute nelle onde che vanno.
Così può risultare simbolico di una esperienza l’attesa di quel sorriso, di un abbraccio di pace dentro la guerra figurata e storica, magari in Bosnia, dove un altro figlio dei tre è andato in missione umanitaria come medico. «Rare luci erano accese, / ma tanto buio intorno, / sempre più nero / fino alle montagne».
Il senso acuto del freddo, nella Grande Storia e in quella personale, grande iceberg di paura, si vince con la certezza dell’approdo, della semplicità dei gesti, attraversata da una promessa di senso garantita proprio dal perdurare di quei sorrisi. Sarebbe però generica e inconsistente questa conclusione se il poeta non vi immettesse carne e sangue, materia, singolarmente, per dote poetica, intuita nel sogno a occhi aperti o nel rivivere situazioni del passato, prossimo o remoto.
E appunto quei sorrisi: «Codesto tuo splendido sorriso, Mimì, / è proprio parte della bellezza assoluta». Come mantenere questo sorriso augurale, si chiede realisticamente Cappelletti, stigmatizzando l’orda della violenza occulta che lo minaccia. «T’auguro / di riconoscer presto / quest’orda, che c’è / e non si fa vedere. / Sta scritto che soltanto l’amore ne avrà / definitivamente ragione. / L’amore che supera / ogni ostacolo / e non ha / paura di niente».
L’amore che non ha paura di niente, e l’amore assediato: si veda una delle liriche più brevi e intense, Assedio, dove la metafora bellica si pone quasi a firma di tutta una serie di ricordi di guerra, in cui si gusta, riappropriandosene con la memoria, un antico e fiero senso di disciplina, spesa nella giusta causa, per arginare il potente esercito del male.
Un verso limpido, attraversato talvolta da echi rari di Toscana, capace di raccontare la vita senza contorti infingimenti, ma anche di creare metafore che indichino, nelle dispersioni angosciose, il filo resistente di un concreta speranza. Si veda Ritorno a Tavolara, dove Cappelletti, in una atmosfera onirica, riproduce a suo modo un breve e intenso nostos: «come dentro un mistero / siamo, che sembra / non voglia più aprirsi / e fa crescere il gelo».
Realismo struggente e attenzione al particolare, con pennellate di lieve e umile saggezza, anche nel racconto in versi Il guardiano del faro, dove il potente fascio di luce nella nebbia resta abbraccio e porto sicuro, «salda dimora» all’uomo ancorato a quella certezza: «e sa che la furiosa / bufera si spegnerà / per diventare niente, / appena abbandonata / dalla forza del vento». Di fronte alla «feroce tempesta», più urgente si svolge in preghiera la richiesta umanissima di luce. «Signore, già da ora / ricordami le tue parole / e le tue promesse. / E poi aiutami, ti prego, / in quel momento / terribile».


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