Quegli incontri al circolo “Dante e Leonardo”
Febbraio 1940: l’Italia fascista si prepara a entrare in guerra, ma a Roma, tra piazza Sant’Agostino e il liceo Visconti, avvengono alcuni incontri tra giovani cattolici antifascisti che in futuro segneranno le dinamiche politiche dell’intero movimento cattolico e del suo rapporto con la Chiesa. Tra questi ragazzi, Franco Rodano, Giulio Andreotti e Adriano Ossicini
di Fabio Silvestri
La chiesa di Sant’Agostino, nell’omonima piazza romana dove negli anni Trenta avevano la propria sede la Fuci e il circolo culturale “Dante e Leonardo”
Ma, in particolare, appare utile ripercorrere quegli eventi perché sono trascorsi esattamente settant’anni da quando avvenne, all’interno di un circolo culturale romano intitolato a Dante e Leonardo (strettamente collegato al Pontificio Istituto Sant’Apollinare e ubicato nello stesso stabile che ospitava i locali della Fuci), il primo incontro tra Ossicini e Rodano, occasionato dal fatto che lo stesso Rodano venne invitato al “Dante e Leonardo” per tenere una conferenza su Carducci: da quell’incontro infatti prese le mosse un dialogo che si rivelerà di notevole importanza non solo per quel che riguarda le vicende interne al movimento della Sinistra cristiana – che da quel momento intraprese un nuovo corso e una testimonianza che si rivelò di grande valore storico e politico –, ma, più largamente, per quel che riguarda nel loro complesso le dinamiche politiche dell’intero movimento cattolico. Sotto questo aspetto, quello tra Adriano Ossicini e Franco Rodano non rappresentò solo il momento di incontro tra due formazioni culturali, politiche e anche religiose differenti, ma, per il modo e per il contesto in cui avvenne, fu anche un fondamentale punto di svolta all’interno dello stesso laicato cattolico, a partire dal quale si può tranquillamente affermare che, di fronte a un mondo cattolico che si trovava in una situazione particolarmente critica soprattutto dopo la decisione mussoliniana di entrare ufficialmente in guerra a fianco della Germania nazista, si vennero a delineare, sostanzialmente, tre grandi esperienze le quali, anche grazie alla singolarità dei personaggi che le rappresentavano, erano destinate a esercitare per tutto il secondo Novecento, sia pure per vie diverse e attraverso percorsi politici e teorici molto differenti, una particolare influenza sul piano religioso, politico e culturale oltre che, naturalmente, su quello storico.
Infatti, si può affermare che all’interno di un mondo cattolico che era ancora, anche grazie alla politica concordataria del regime, saldamente legato al fascismo (e che aveva visto in molti casi anche la Chiesa cattolica non andare oltre a forme di polemica piuttosto generica nei confronti della guerra, ma senza che questo significasse una precisa azione nei confronti del fascismo stesso), l’antifascismo costituisse un fenomeno piuttosto limitato a piccoli e coraggiosi gruppi, perlopiù provenienti dall’esperienza del Partito popolare, collegati, per un verso, ad Alcide De Gasperi e a uomini come Giuseppe Spataro, e per altro verso agli esponenti della cosiddetta “ala sinistra” del popolarismo – i quali si trovavano prevalentemente in esilio fuori dall’Italia – tra cui Guido Miglioli, Giuseppe Donati e Francesco Luigi Ferrari. All’interno di questo quadro, però, si segnalavano in particolare a Roma tre singolari eccezioni, che ebbero già allora, e poi lo mantennero in prospettiva, un particolare valore storico e politico: il già citato circolo studentesco cattolico “Dante e Leonardo”, fondato prima dell’avvento del fascismo da alcuni autorevoli dirigenti del Partito popolare, tra cui Mario Cingolani ed Egilberto Martire; la Fuci (Federazione universitaria cattolici italiani), che, come abbiamo detto, aveva la propria sede in piazza Sant’Agostino, nello stesso edificio che ospitava il “Dante e Leonardo”; e infine la congregazione mariana della “Scaletta”, guidata dai Gesuiti e annessa al liceo ginnasio Visconti.
Franco Rodano
A questo proposito, in una lettera inviata il 10 aprile del 1946 al noto musicologo Fedele D’Amico (con il quale aveva condiviso un lungo e complesso impegno politico che si era protratto per circa otto anni), e commentando il drammatico processo che aveva portato, nel precedente mese di dicembre, allo scioglimento del partito della Sinistra cristiana, lo stesso Ossicini affermava che «non c’erano due anime, come alcuni cominciano ad affannarsi a predicare, nella Sinistra cristiana, l’una laica e l’altra non laica, attribuendole a comodo alternativamente a me e a Rodano, ma c’era anche la convergenza di due filoni culturali»; e poi specificava ulteriormente che «anche il nostro cattolicesimo era… differentemente vissuto. Quello di Rodano e dei suoi amici profondo, radicato e, seppure non integralista, e non illuminista, estremamente preoccupato dell’ortodossia fino ad atteggiamenti antimodernisti, rigidi, mentre io ho sempre creduto al bisogno di correre anche i rischi di un modernismo che voleva la Chiesa aggiornata nella Storia».
Adriano Ossicini, difatti, si era formato in una cultura antifascista che faceva riferimento, in prevalenza, alle esperienze politiche che furono alla base dell’originale proposta sturziana (il padre di Ossicini, Cesare, era stato uno dei fondatori del Partito popolare), e in particolare alle posizioni teoriche di Francesco Luigi Ferrari, e che si richiamavano sul piano teorico all’esperienza di Rosmini, Murri e Buonaiuti. Ed era arrivato al circolo “Dante e Leonardo”, dopo la morte del padre antifascista, soprattutto per la sua appartenenza al Sant’Apollinare. Ma in quel momento, a differenza degli stessi Andreotti e Rodano, Ossicini era l’unico impegnato fin dal dicembre del 1937 (anno in cui venne fondata la Sinistra cristiana) in una concreta e organica azione politica di lotta contro il fascismo, che lo aveva portato, tra le altre cose, a entrare in rapporto con Giulio Andreotti fin dall’aprile del 1938, durante il celebre convegno della Fuci di Orvieto. In quell’occasione Ossicini aveva pronunciato, creando una profonda crisi interna e subendo le ire della polizia, una violenta requisitoria contro il fascismo e il razzismo, al termine della quale, tra lo sgomento e il timore generale, soltanto Andreotti ebbe il coraggio di stringergli la mano.
Adriano Ossicini nel laboratorio di analisi dell’Ospedale Fatebenefratelli di Roma nel1940 [© Anderson, Archivi Alinari, Firenze]
Ossicini, invece, che come abbiamo detto proveniva da una formazione che si rifaceva politicamente alla particolare tradizione della Sinistra popolare, e culturalmente tanto all’influenza di Rosmini quanto a uno stretto rapporto con le posizioni laiche di Guido Calogero, è stato a lungo alleato del Partito comunista (sia nel periodo della Resistenza che in quello successivo della ricostruzione del Paese) sul piano pragmatico della lotta politica; ma coerentemente con una polemica da sempre sostenuta nei confronti del ruolo teorico e politico del comunismo internazionale, ha mantenuto nel tempo una posizione di sostanziale indipendenza che ha trovato un proprio sbocco naturale, sul piano politico e parlamentare, nell’esperienza della Sinistra indipendente, che si propose in qualche modo l’obiettivo di condurre la dialettica politica del nostro Paese verso una condizione di reale alternativa democratica.
Al di là dell’importanza dei personaggi coinvolti, ricordare oggi quel lontano incontro del 1940 riveste un particolare valore politico, perché alla base di quel dialogo vi furono alcuni elementi di fondo che rivelano, all’interno della dialettica politica, un’importanza determinante: il fondamentale ancoraggio etico della politica, unito alla convinzione che anche il bisogno di uscire dai limiti delle ideologie non debba tradursi in una prassi politica che abbandoni quell’ancoraggio; e il ruolo decisivo del “dialogo”. Ripartire anche da quelle lontane esperienze significa, in un’epoca storica di profonda crisi politica e sociale, richiamare la politica alla necessità di una rifondazione che possa tornare a riproporla come un elemento di decisiva importanza nella difficile vicenda della condizione umana.