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SACERDOZIO
tratto dal n. 12 - 2003

Le poche cose semplici della vita di un prete


Il vescovo di Civitavecchia-Tarquinia ripercorre i suoi cinquant’anni di sacerdozio. Gli incontri che hanno segnato la sua vita cristiana, l’importanza della preghiera, dei sacramenti e dell’ubbidienza


di Girolamo Grillo


Monsignor Girolamo Grillo, vescovo di Civitavecchia-Tarquinia

Monsignor Girolamo Grillo, vescovo di Civitavecchia-Tarquinia

Il 25 aprile del 1953, all’età di appena 22 anni e mezzo, venivo ordinato sacerdote. Debbo dire, anzitutto, che, pur con le connaturali difficoltà di ogni ragazzo e di ogni adolescente, la mia prima risposta alla chiamata di Dio alla consacrazione come suo sacerdote non è stata difficile. In effetti, le vere difficoltà arrivano sempre lungo il cammino successivo e soprattutto quando la prospettiva della vita viene guardata a ritroso. Proprio allora accade (ma credo che qualcosa del genere avvenga per tutti e non soltanto per le anime consacrate) che talvolta, pur restando gioiosi e senza rimpiangere alcunché, gli errori, le stanchezze, le sconfitte, i fallimenti dei non pochi piani umani che, quasi sempre, vengono sconvolti da quelli divini, nonché l’usura del tempo, appesantiscano l’anima di ogni apostolo del Signore.
Cinquant’anni fa, ero, come suol dirsi, partito in picchiata: «Vi farò vedere io come si fa» pensavo. «Loro, i vecchi, non hanno mai capito nulla». Ma un giorno (e oggi, a dire il vero, mi accade ogni giorno), come il profeta Elia, chiudendomi in me stesso e mettendomi davanti al Signore, mi sorpresi a mormorare: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri» (1Re 19,4).
A voler essere sincero, debbo dire che nella mia vita di sacerdote è accaduto e tuttora accade quanto avvenne ad Elia: la mia vera risposta e il mio vero impegno sono giunti soltanto in un secondo tempo. Nulla di strano, però, in tutto questo. Non si tratta, infatti, di una controindicazione; sono invece alla scoperta cocente della mia propria incapacità fondamentale, della mia presunzione di potere agire con le mie sole capacità intellettuali e morali. Non posso nascondere di aver intrapreso il cammino piuttosto a cavallo, ma, dopo un lungo galoppo, ho scoperto che anche il mio incedere brillante sotto molti punti di vista nascondeva una grande fragilità.
Del mio sacerdozio a 22 anni e mezzo (ho avuto bisogno della massima dispensa canonica, perché prima di 24 anni neanche allora era possibile diventare sacerdote) ricordo anche che prima di dire il mio sì, ho avuto una grande paura. E i miei padri spirituali (ne avevo due in quel periodo: uno nel seminario, un gesuita, nipote di Bartolo Longo, e poi il mio carissimo don Francesco Mottola), quando parlavo con loro dicendo: «Ma non ce la farò», mi rispondevano: «Non dubitare, guarda sempre avanti».
Oggi, a distanza di mezzo secolo, devo dire che, tutto considerato, ce l’ho fatta veramente, anche se talvolta con grande fatica, ma ce l’ho fatta. Non soltanto, ma ho sempre mantenuto una grande gioia nel cuore. E se allora io avessi detto di no, a quest’ora certamente avrei avuto un grande rimorso.
Il mio cinquantesimo non vuole rivestire alcuna caratteristica di festeggiamento, ma soltanto un richiamo ai miei doveri mancati, soprattutto per domandare perdono per le innumerevoli omissioni di questi anni, tra le quali quella che di più mi sgomenta è la mancanza del dovuto ricordo nella preghiera di quanti, in questi decenni, mi hanno voluto bene e mi hanno arricchito con il loro esempio: i miei genitori, i miei educatori, i miei compagni, i miei superiori e in particolare i miei direttori spirituali, le tante anime meravigliose che il Signore ha disseminato lungo il mio cammino, i miei sacerdoti, che, con il loro esempio, hanno sempre cercato di attenuare le mie incapacità.
C’è una voce nella mia vita che continuamente mi risuona, con una incessante domanda: «Perché non hai pregato, come avresti dovuto pregare? Tu avresti dovuto pregare per quelli che pregano e per quanti non pregano, e invece non lo hai fatto». Ti chiedo perdono, pertanto, o Signore, perché non sempre la preghiera è stata per me sorgente di luce nel mio apostolato, per la conversione dei peccatori, per le anime più perfette nella via di Dio.
Ti chiedo perdono perché non sono stato una vera guida nella preghiera (ogni sacerdote dovrebbe essere un uomo di preghiera e un uomo che guida nella preghiera), perché non sempre ho aiutato quanti confidavano a me le loro pene a liberarsi dalle illusioni dell’amor proprio.
Ti chiedo perdono, Signore, perché, in questi cinquanta anni non sono stato affatto il sale della terra, la luce del mondo, l’occhio che rischiara il corpo della tua Chiesa e la bocca che pronuncia coraggiosamente la Parola di Dio. Ti chiedo perdono, infine, per tutte le promesse mancate. Non riesco a enumerarle, sono infinite.
Ci sarà ancora tempo per poter riparare alle tante cose non fatte o mal fatte? Non lo so, ma ho tanta speranza nell’aiuto di Maria, che, nel corso di questi anni, non mi ha mai abbandonato. Spesso la invoco come la invoco in questo momento: Mater mea, fiducia mea!
Monsignor Girolamo Grillo con i genitori negli anni Cinquanta

Monsignor Girolamo Grillo con i genitori negli anni Cinquanta


La mia prima educatrice alla fede è stata mamma
Si può dire che, fin dalle ginocchia materne, ho imparato a conoscere il Signore. Ho fatto la prima comunione a cinque anni e mezzo, preparato da mia mamma. Incredibile! Sapevo leggere e scrivere, e un bel giorno, vedendo che la mamma faceva quasi quotidianamente la comunione, avvicinandomi con lei alla balaustra, gridai ad alta voce: «E a me perché no?». Fu così che il mio parroco permise a mamma di farmi mangiare Gesù, come io stesso gli avevo detto.
La mia mamma è stata la prima catechista ed ella stessa mi fece conoscere il mio primo parroco (che morì giovanissimo), quando io avevo appena quattro anni. Si trattava di un sacerdote che, al dire di mamma, aveva le mani bucate, cioè dava tutto ai poveri. Egli amava giocare con i bambini. Con lui – lo ricordo ancora – impastavo il fango per fabbricare le casette. Morì all’improvviso.
Ancora vedo la sua bara. Volle essere portato al cimitero da tutto il popolo in una bara di quattro tavole non levigate, come quelle delle nostre baracche di terremotati. Una bara di legno ruvido, sopra la quale c’era una grande palma. Quel prete mi conquistò; fu un forte modello da imitare. E infatti dissi subito a mamma: «Cosa bisognerebbe fare per diventare come quel prete?». È il dialogo di un bambino con la mamma. Mamma mi rispose: «Una sola cosa c’è da fare». «Quale?» chiesi io. Ed ella: «Pregare. Devi pregare molto, ed io pregherò per te». Mi parlava spessissimo della Madonna, poiché era una grande devota di Maria; fu proprio lei a trasmettermi questo amore per la Madonna. Quindi, per me, non è stato difficile ascoltare la prima chiamata, perché ebbi subito un grande modello da imitare; desideravo poter diventare come quel sacerdote.
Forse la vocazione è nata dal cuore di mia mamma. Penso che lei avrà pregato tanto. Intendiamoci, mi lasciò sempre libero. Una volta sola pianse, quando persi l’occhio sinistro e pensava che io, a motivo di ciò, non sarei stato mai accettato in seminario. Pregò anche allora.
Mamma aveva solo una quarantina di anni quando fui ordinato sacerdote. Tant’è vero che il vescovo che mi impose le mani per ordinarmi sacerdote, quando gli presentarono mamma, insisteva nel dire che fosse mia sorella. Ma in Calabria, dove sono nato, ci si sposava presto allora. Ed io ero il primo di dieci figli, di cui solo cinque divennero adulti. Anche papà, che per molti anni aveva cercato di convincermi a desistere nel mio cammino verso il sacerdozio, quel giorno era contento.
Mio padre per molti anni lavorò in America come emigrante. Era lì anche quando nacqui. Oggi mi commuovo sempre quando vedo tanti extracomunitari che lavano i vetri per le strade, perché anche papà doveva essere un po’ come loro. Quando, molti anni dopo, feci un viaggio in America, mi recai commosso nella fabbrica, ormai chiusa e ridotta a rudere, dove mio padre lavorando tra le colate di ferro aveva contratto la grave malattia che lo avrebbe portato alla morte.
Questo è il ricordo dei miei genitori, per i quali forse non ho pregato e non prego abbastanza. Sono sicuro però che essi pregano per me. Anzi, con essi dialogo spesso, ad essi mi rivolgo di continuo nei momenti difficili, poiché, essendo essi parte di me già nell’Eterno, li sento vicinissimi.
L’atrio della Pontificia Università Gregoriana a Roma, negli anni Cinquanta

L’atrio della Pontificia Università Gregoriana a Roma, negli anni Cinquanta


Gli anni del seminario
Per la prima chiamata del Signore non ho avuto difficoltà; poi, diventato adolescente, ho dovuto affrontare tutti i problemi dell’età. Fortunatamente ho avuto dei bravissimi padri spirituali. Il direttore spirituale ha un’importanza grandissima nella vita di ciascuno di noi. Ero appena liceale ed egli volle mettere alla prova così la mia vocazione: un giorno, parlando con lui, mi disse: «Senti, devi lasciare tutto; da te il Signore vuole una prova». «Quale?», chiesi io. «Tu hai una bellissima collezione di francobolli; hai settemila francobolli, manderemo i soldi della vendita di questa collezione alle missioni». Cominciai a piangere dapprima, poiché ero molto affezionato alla mia collezione, ma poi quasi subito dissi: «Va bene, padre!». Ed egli rispose: «Questa è la prova della tua vocazione; ti sei staccato dalla cosa più bella che hai».
Anche durante i miei anni trascorsi a Roma ho avuto due grandi direttori spirituali. Uno lo conoscono tutti: il padre Felice Cappello. Ho avuto la fortuna, perché frequentavo la Gregoriana in quegli anni, di avvicinarlo direttamente. Era il mio confessore e il mio consigliere spirituale. Padre Cappello mi è rimasto veramente nel cuore. Lui è davvero un santo.
Poi, successivamente, dopo la morte di padre Cappello, ebbi come direttore spirituale il padre gesuita Boyer, un francese, e qualche volta il padre Dezza che poi ebbi modo di incontrare anche in Segreteria di Stato. Dunque, ho avuto dei grandi uomini accanto, per i quali in questi anni non ho pregato come avrei dovuto.
Avendo anche una preparazione nel settore giuridico, a Roma ho lavorato sia al Vicariato sia alla Congregazione per i sacramenti occupandomi specialmente dei casi di “rato e non consumato”. Al Vicariato sono stato anche giudice per molto tempo. Cosa ricordo? Ho acquisito un’esperienza incredibile in campo matrimoniale perché, pur non essendo giudice istruttore, dovevo preparare le sentenze. Quindi dovevo studiare tutto, per la sentenza e per il mio voto. Ecco perché in questo settore ho un po’ di competenza; l’ho acquisita come esperienza diretta per almeno una decina di anni al Tribunale ecclesiastico di Roma.

Devozione alla Madonna
Maria, come Madre di Dio, si è inserita nella mia vita fin da quando ero bambino. Probabilmente sono state le ninnenanne mariane, con le quali la mia mamma cullava i miei sogni tenendomi stretta al suo seno.
Anch’io, negli anni di seminario, da sacerdote e da vescovo ho avuto sempre una forte impronta cristocentrica, ma non ho mai dimenticato il ricorso a colei che, ai piedi della croce, ha avuto in consegna anche me.
L’ho sempre invocata, fin da ragazzo, nei momenti di gioia e di dolore, con il titolo di Madonna di Portosalvo (la protettrice del mio paese: Parghelia, in provincia di Vibo Valentia) e più tardi l’avrei impressa sempre nella mia anima come Madonna di Romania, ai piedi della quale avevo ricevuto il crisma sacerdotale nella cattedrale normanna di Tropea, per le mani di sua eccellenza monsignor Enrico Nicodemo.
Di Maria mi ha sempre affascinato la discrezione e il silenzio, con cui Ella ha voluto eclissarsi di fronte a suo Figlio, come la luna di fronte al sole divino.
Sono stato, invece, più che riluttante di fronte alle posizioni quasi razionalistiche di qualche teologo e di qualche ecclesiastico, nonché dei cosiddetti professoroni che, con il loro atteggiamento altero e talvolta arrogante, hanno finito con il raggelare in molti fedeli ogni autentico sentimento mariano.
Sentimento non è, infatti, sentimentalismo, ma perfetta inquadratura della Vergine Madre, in quanto strumento meraviglioso che ci introduce a Cristo Signore.
Senza Maria, la mia fede certamente sarebbe rimasta arida e intellettualistica, né avrei avuto la forza di rivivere in proprio quelle parole di Gesù, il quale non ebbe paura di affermare: «Ti benedico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così è piaciuto a te» (Lc 10,21).
Per questo ho sempre evitato di essere semplicistico e credulone di fronte a episodi eclatanti, adoperando cautela e saggezza con tutte le mie energie, fino a quando non ne ho avuto la personale evidenza, pur senza indulgere ad affrettate valutazioni.
Con Maria, però, ho scoperto il linguaggio del cuore, la qual cosa non è di poco conto. Non nascondo infine che, talvolta, recitando il rosario, che non ho mai omesso, arrivo ad addormentarmi come spesso mi accadeva nelle braccia di mia madre, quando ella mi cantava l’Ave Maria e la Vergine degli angeli, mentre mi sentivo avvolto in quel mistero rasserenante provocatomi dal cullarsi dell’anima sulle onde della preghiera.

Gli anni da vescovo
Non avrei mai pensato di diventare vescovo. Certo che i miei progetti li avevo, come ogni persona, ma erano piani legati alla mia Calabria, che sempre rimpiango. Ho incontrato, allora, tante difficoltà, incomprensioni, ed è questa la ragione per cui sono stato quasi costretto a lasciare la Calabria. Non l’avrei mai lasciata. Avevo frequentato le università romane proprio per questo: per poter operare meglio nella mia terra. Ma tutto questo andò in fumo, certamente non per colpa mia. Più di tanto non posso dire. Mi venne fatta anche la proposta di poter diventare professore universitario. Ma pure tale ipotesi è andata in fumo per ostacoli diversi. In cinquant’anni di sacerdozio c’è posto per tante cose, anche tante delusioni, fallimenti, piani sconvolti. Ma anche e soprattutto per tante grazie piovutemi dall’alto, e non parlo solo del fatto realmente accaduto nelle mie mani delle lacrime della Madonnina di Civitavecchia. Anzi. Sul pianto della Madonnina, poiché non sono io il protagonista di questa storia, preferisco sempre non parlare. Un giorno parleranno i miei diari, nei quali ho annotato tutto. Quel fatto è stato un grande trauma, uno scombussolamento per me, che, oltretutto, l’anno precedente (1994) avevo espressamente chiesto di poter lasciare Civitavecchia, dopo più di dieci anni di servizio pastorale. In realtà mi era stata fatta la proposta di un’altra Chiesa particolare. Avevo già accettato, ma anche tutto questo è andato in fumo.
L’ordinazione sacerdotale di Girolamo Grillo il 25 aprile 1953

L’ordinazione sacerdotale di Girolamo Grillo il 25 aprile 1953


La preghiera
Non lo so se sia un fatto psicologico che ognuno di noi sperimenta, cioè che per quanto uno possa pregare, non prega mai quanto, ad esempio, pregavano i miei direttori spirituali e tante altre anime da me conosciute.
C’è, però, un altro fatto: che, essendo da venti anni membro della “plenaria” delle Cause dei santi, conosco alquanto la vita di molti uomini di Dio e di tante donne meravigliose. Questo è sconvolgente. Rimango stupefatto, ad esempio, di come essi abbiano saputo accettare le calunnie, di come abbiano saputo sopportare la persecuzione anche da parte della Chiesa, di come abbiano saputo accettare le tante difficoltà; di come abbiano saputo soffrire. È naturale, quindi, che mi venga sempre in mente una domanda: ed io che cosa sono di fronte ad essi?

La confessione

La mia esperienza al confessionale è stata splendida. Negli anni romani (ho fatto venticinque anni di vita romana), ho iniziato dapprima con i bambini (perché questa era la prassi di allora), poi gli uomini, poi “extramoenia” (significa “fuori le mura” della città, quindi nella periferia), infine nella stessa città di Roma. Al confessionale ho potuto incontrare tante anime bellissime, che certamente sono in Paradiso. Al confessionale stavo ore e ore; mi piaceva stare molto ad ascoltare e soffrire con la gente che crede nel perdono di Dio. Il mio direttore spirituale calabrese, don Mottola, mi aveva raccomandato: «Se a Roma ti vuoi salvare, ama il confessionale, dove potrai incontrare tante anime che soffrono più di te; per cui sarai costretto a pregare e a piangere». È vero! Specialmente gli anni Sessanta, sono stati gli anni più burrascosi. I miei ragazzi erano migliaia; oggi sono mamme e papà, ma proprio essi mi telefonano ancora per i problemi dei figli. Vivere il Sessantotto a Roma, come lo ha vissuto il sottoscritto, non è stato facile. Piango ancora quando penso che qualcuno di quei ragazzi è finito addirittura nelle Brigate rosse. Piango! Perché è stata una esperienza drammatica. Poi gli anni Settanta, quando è stato ucciso Aldo Moro; io ero lì. Anche quell’esperienza fu amara per me. Ho lasciato Roma nel ’79, quando sono stato consacrato vescovo da questo Papa, il quale di persona è venuto in camera a dirmi: «Basta! Hai lavorato per tutto il pontificato di Paolo VI e hai avuto un ruolo importantissimo in Segreteria di Stato. Accetta, quindi, di fare il pastore». Allora non mi è rimasto altro che ubbidire, anche se fu tanto difficile farlo. Vorrei chiudere, allora, ricordando una piccola grande santa che è stata sempre nel mio cuore: Teresa di Gesù Bambino. Me ne innamorai a quattro anni, perché anche lei a quell’età sentì il fascino della consacrazione al Signore e poi perché anche lei, come me, durante l’infanzia aveva sentito il dolore della perdita di quattro fratellini. La figura di Teresa mi seguì e mi segue ancora…, la piccola grande Teresa di Lisieux.


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