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STORIE DI SEMPLICI PRETI
tratto dal n. 08/09 - 2010

Intervista con il cardinale Silvano Piovanelli

Abbandonato alla Sua Provvidenza



Intervista con il cardinale Silvano Piovanelli di Paolo Mattei


Se dal quartiere di Rifredi si prosegue verso nord, è possibile imboccare una stradina tutta curve che, salendo, si perde in fretta tra le colline e gli alberi che le avvolgono. Basta qualche minuto di viaggio perché la città svanisca in un lontano ricordo. Su quella stradina sta Cercina, frazione di Sesto Fiorentino, in provincia di Firenze. E a Cercina c’è la bellissima pieve romanica di Sant’Andrea. Là vive il cardinale Silvano Piovanelli, arcivescovo emerito della diocesi fiorentina.
Piovanelli conobbe bene don Facibeni. Il suo primo incarico pastorale, affidatogli dal cardinale Elia Dalla Costa, fu infatti quello di vicario cooperatore del fondatore dell’opera della Divina Provvidenza “Madonnina del Grappa”.
Lo abbiamo incontrato.

Il cardinale Silvano Piovanelli

Il cardinale Silvano Piovanelli

Come e quando conobbe don Giulio Facibeni?
SILVANO PIOVANELLI: Don Giulio era un sacerdote molto conosciuto a Firenze e fuori, e godeva di grande stima soprattutto fra noi giovani seminaristi. Ai tempi in cui studiavamo teologia, tra il ’43 e il ‘46, guardavamo a lui come a una specie di ideale. Nella Chiesa di Firenze era il segno più bello della carità evangelica, che abbracciava tutti, che andava al di là delle differenze, che sapeva inchinarsi a ogni bisogno. Aveva dato a Santo Stefano in Pane l’aspetto caratteristico di una parrocchia che vive nell’amore. Io e i miei amici del seminario, tra i quali don Milani, che diventammo sacerdoti il 13 luglio del 1947, volemmo che fosse lui a prepararci all’ordinazione. Tenne con noi due meditazioni al giorno, per una settimana, nonostante la sua salute fosse già precaria.
Che cosa la colpì più immediatamente di lui?
Gli occhi vivissimi, che brillavano di una luce particolare. Occhi che ti “bucavano”. Quando parlava non teneva una lezione accademica, ma raccontava ciò che viveva nel partecipare alle gioie e ai dolori della sua gente. Il mio sacerdozio e quello dei miei amici sono stati impregnati della sua testimonianza.
Lei trascorse un anno nella parrocchia di Rifredi. Qual è il suo ricordo di quel periodo?
Fu una cosa molto bella e molto semplice. A Santo Stefano in Pane, nel 1947, fui suo collaboratore con altri due sacerdoti. Vivevamo insieme. Lui non si occupava in modo diretto di tutte le questioni parrocchiali, però dava la sua impronta a tutto, creava il clima, l’atmosfera, lo “stile”. Là ho imparato che il prete deve vivere con la gente, guardare gli uomini in faccia, non fare discriminazioni, per nessun motivo. Neppure di fede, perché ogni uomo è amato da Cristo. Anzi, l’amore dovrebbe essere tanto più penetrante quanto più la persona è “lontana”. Poi Santo Stefano in Pane era un bellissimo esempio di Chiesa non “burocratica”.
In effetti forse questa mancanza di “burocrazia” creò qualche difficoltà a don Giulio, cui fu rimproverato di non riuscire a tenere ben distinte la parrocchia e l’Opera…
Io sono ancora convinto che la ragione fosse dalla sua parte. Del resto, sono molto contento di avere vissuto lì quel mio primo anno di sacerdozio, durante il quale non registrai disagi derivanti dalla convivenza tra Opera e parrocchia.
Don Facibeni visse, come tanti altri sacerdoti, anche momenti difficili, di incomprensione da parte di molte persone, fuori e dentro la Chiesa…
Anche oggi è così. Ma se teniamo presente che il lievito e la luce del mondo è Cristo, morto e risorto per tutti gli uomini, non c’è paura. Possono esserci momenti in cui sembra che le cose siano brutte e vadano male. Ma Dio si serve di tutto. Basti pensare alle persecuzioni dei primi secoli. La fioritura del Medioevo è nata dal sangue versato dai martiri più che dalla libertà concessa da Costantino. Succede così pure oggi. Io mi domando se anche questa vergogna della pedofilia non sia un mezzo nelle mani di Dio che vuole farci più umili di fronte a Lui… Bisogna guardare Cristo. Giovanni Battista diceva: «Non sono io Cristo. È Cristo che vi salva».
A proposito, secondo lei come sta affrontando questi drammatici avvenimenti Benedetto XVI?
Sono molto confortato dal Papa. Dobbiamo ringraziare Dio del fatto che papa Benedetto, con proprietà teologica ma soprattutto con semplicità evangelica, stia vivendo serenamente tutto questo.
Don Facibeni scrisse un diario che intitolò Libro della Provvidenza, in cui annotò fatti di grazia che accompagnavano la sua vita. Lei ne ricorda qualcuno?
Ho in mente tanti episodi. Un giorno, preoccupato per alcune scadenze in banca che andavano saldate entro quel pomeriggio, s’era chiuso in stanza a pregare. Alle 11 arrivò con la posta un assegno con la cifra esattamente corrispondente a quanto occorreva… Ecco, la storia di don Giulio rende evidente come il Signore desideri l’abbandono totale dei Suoi figli nelle Sue braccia. Per certi aspetti assomiglia alla storia di Giobbe: «L’unica tua speranza sono io», gli dice Dio. Questa cosa don Facibeni la viveva quotidianamente e la sua vita è stata la gioia di una continua risposta del Signore.
Proprio nel rapporto con i soldi la vicenda di don Giulio può rappresentare un buon esempio da guardare.
Direi di sì. Quello del rapporto con il denaro penso sia uno dei problemi più grandi nella Chiesa dei nostri giorni. Innanzitutto è sempre necessario tenere presente che non si possono servire due padroni, e che la tentazione di scegliere quello sbagliato è continuamente in agguato. I soldi, se ci sono, vanno spesi, e non devono rappresentare l’assicurazione per il futuro. Le parrocchie e le diocesi devono avere fiducia nello spendere i soldi per la carità, per i bisogni della comunità, senza nessun attaccamento al denaro. Don Facibeni testimoniava pienamente questo: i soldi venivano tutti adoperati. E se mancavano, la Provvidenza aiutava.
Un abbandono che il sacerdote sperimenterà in tutta la vicenda dell’Opera… Una storia, era solito dire, piena di inattesi “cambiamenti di carte in tavola” da parte di Dio…
Don Giulio sapeva che il Signore gli chiedeva di abbandonarsi totalmente alla Sua provvidenza. Una volta portò l’esempio della vita di san Filippo Neri per far capire che cosa significhi abbandonarsi fiduciosamente a Lui. E infatti, come Pippo buono, don Giulio non concepì mai progetti precisi e definiti. «Nella breve storia dell’Opera», scriveva già nel ’26, «come appare chiaro che il Signore vuole fare Lui…».
È difficile non fare progetti…
Nelle nostre parrocchie e nelle nostre diocesi siamo ormai abituati a pianificare tutto, si fanno programmi pastorali precisi con le loro scadenze, i loro appuntamenti, i loro sussidi. Va tutto bene se prima c’è il rapporto con Gesù Cristo: Lui è il presente, Lui guida la Sua Chiesa. La tentazione che una volta veniva chiamata “eresia dell’azione” c’è sempre nella Chiesa, ed è quella che ci conduce ad appoggiarci ai nostri programmi e alle nostre capacità.
Tutta la vita di don Facibeni è segnata dall’evidenza della propria inadeguatezza…
Sì. Gli è chiaro che c’è uno scarto infinito tra la grandezza dell’amore di Dio e la risposta positiva, l’atteggiamento di apertura dell’uomo. È quanto ha vissuto Francesco quando piangeva i propri peccati nella Porziuncola. Uno potrebbe domandarsi come sia possibile che un santo così grande dica di sé: «Io sono il peggior peccatore del mondo». Francesco considerava l’incommensurabile distanza tra l’amore infinito di Dio e la nostra debolezza, il nostro limite. Dalla grazia di questo abbandono nasce la letizia. Del resto nel Vangelo di Giovanni c’è scritto: «Affinché la mia gioia sia in voi».


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