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LA GLOBALIZZAZIONE IN ATTO
tratto dal n. 09 - 2001

Questioni mondiali emergenti all’inizio del Terzo Millennio


Un saggio del presidente dello Ior fa il punto sui processi di globalizzazione in atto e sulle conseguenze politiche e sociali. Lontano dalla demagogia global-antiglobal


di Angelo Caloia


PREMESSA
Questi anni stanno offrendo ai nostri occhi caratteri e comportamenti non più associabili alle esperienze pregresse.
Le dimensioni temporali del passato e del futuro pare si annullino in un eterno presente omnicomprensivo. Se da un lato riusciamo a riconoscere l’assenza o l’indebolimento degli elementi già sperimentati, dall’altro ci appare difficile definire esattamente i lineamenti dell’epoca futura. Da ciò la grande inquietudine ed il senso di precarietà del proprio status.
La crescente integrazione economica, il volume e la varietà di transazioni di capitali, beni e servizi (globalizzazione reale), favoriti dalla sempre più rapida ed ampia diffusione della tecnologia, stanno accelerando il passaggio da una fase di mercati ancora delimitati da confini nazionali, ma fra loro ben comunicanti, a quella di mercati mondiali che operano senza vincoli di barriere nazionali.
Questo processo sta erodendo la sovranità degli Stati nazionali, mentre gli operatori internazionali globali (imprese, banche, finanziarie, ecc.) e le tecnologie innovative diventano via via i principali attori delle relazioni economiche, con vistose conseguenze politiche. La società mondiale, che in seguito alla globalizzazione si è sviluppata in molte direzioni (non solo quella economica), sfugge e relativizza lo Stato-nazione, perché una pluralità, non legata ad un luogo, di sfere sociali, reti di comunicazione, rapporti di mercato, modi di vita, avviluppa i confini territoriali dello Stato-nazione. Sorpresi ed affascinati dalla globalizzazione, certi politici invocano mercato, mercato e ancora mercato senza accorgersi di diventare in tal modo becchini di se stessi, cioè di preparare “la fine della politica”, quando invece ciò che si può dire è solo che il politico tende sempre più a collocarsi al di fuori del quadro categoriale dello Stato-nazione.
LA DIMENSIONE FINANZIARIA
Allorché l’integrazione commerciale e produttiva si è sviluppata nel dopoguerra in modo progressivo, lo sviluppo della finanza, specie dopo il “big bang” del 1986, ha proceduto in modo anche troppo rapido (le transazioni finanziarie sono oggi di gran lunga superiori a quelle di natura commerciale) ed in non pochi momenti incoerente con quello dell’attività produttiva: al punto che oggi chi esalta l’eticità dell’economia non si limita più ai presupposti del ben operare di stampo calvinista (sobrietà, costumatezza, spirito di sacrificio), ma esterna la fondata preoccupazione che il sistema finanziario, così come s’è strutturato negli ultimi anni, di fronte al crescere degli squilibri (tra Nord e Sud del mondo, tra piccole e grandi imprese), entri in contraddizione con le regole della democrazia e di un autentico sviluppo (si comporta, cioè, da finanza “legibus soluta”). C’è il problema delle operazioni finanziarie che si risolvono in impieghi di danaro solo per farne altro, senza che si dia un contributo all’economia reale. C’è il prevalere del premio ai depositanti (rendita finanziaria) che si ritorce sull’operatore reale più debole (piccole-medie imprese, aree sottosviluppate), privo di fonti finanziarie (mercato azionario, provviste all’estero) alternative al credito. Per non parlare della comunità mondiale, dove la dinamica dei tassi d’interesse (più alti per le situazioni più rischiose) convoglia le risorse in direzioni esattamente opposte a quelle di maggior bisogno (aree deboli, imprese minori, Paesi poveri) ed accentua le problematiche del debito estero. I flussi di capitale, anziché essere mossi da reali motivazioni d’investimento, vanno, più spesso che non, alla ricerca di differenziali monetari di breve, ovunque siano presenti nel mondo.
Questi eccessi di finanziarizzazione hanno sicure conseguenze sulla crescita reale e risvolti etici di tutta evidenza. La globalizzazione finanziaria si rivela cioè un’arma a doppio taglio: offre sì indubbie aperture (investimenti esteri diretti, apporti tecnologici, sviluppi commerciali), ma implica anche forti rischi, specie in assenza di mercati finanziari solidi, trasparenti e ben controllati.
L’economia, del resto, ed i mercati non sono fenomeni della natura, bensì prodotti plasmati da regole, istituzioni e politiche. Discende da ciò che il buon funzionamento dell’economia globale deve essere considerato più importante dell’eccessiva libertà di alcune centinaia di abili operatori (finanziari) internazionali. In attesa di un governo globale della moneta (c’è troppa liquidità in giro per il mondo!), occorre già sin d’ora mettere sotto tutela internazionale (per il tramite del Fmi o di altra istituzione sovranazionale) i mercati finanziari mondiali, garantendo in solido le risorse necessarie per fronteggiare la speculazione.


LE GERARCHIE
DELLA POLITICA ECONOMICA
La convinzione, discutibile sul piano storico specie se riferita alle tesi estreme, dell’irreversibilità del processo di globalizzazione è ciò che spinge a ritenere che l’unica scelta ragionevole sia quella di governarla. Occorre tuttavia liberarsi da soverchie illusioni. La globalizzazione dei mercati è stata – è e rimane – molto più veloce della capacità di governo mondiale dell’economia. Né è facile mettere in cantiere e far applicare una politica economica mondiale coerente e lungimirante.
Il regime internazionale è cambiato, passando dalla stabilità egemonica del primo dopoguerra ad un mondo più multipolare e competitivo, che oggi però rischia di farsi catturare dalla sola dimensione economica e tecnologica. Troppi conflitti d’interesse e troppe pressioni d’ogni sorta spiegano la debolezza dei molti incontri di vertice e/o delle intese internazionali.
Per costruire un ordine mondiale scevro di sfruttamenti neocoloniali e da discriminazioni ideologiche, occorre un sistema di regolamentazione del mercato in cui, in una maniera effettiva sancita da regole, la solidarietà giunga a permeare tutte le relazioni: finanziarie, economiche e commerciali.
Per quanto profondamente errata, si è fatta luce nel più recente passato l’impressione che in un mondo globalizzato l’azione dei pubblici poteri fosse impossibile o inutile, essendo quasi neutralizzata dalle “forze vitali” dei comportamenti privati. Niente di tutto questo è vero. In un mondo globalizzato, la politica economica può rivelarsi di importanza strategica nel piegare le forze ed i meccanismi di mercato verso obiettivi fissati in modo partecipativo dalla società civile.
È tuttavia accertato che la tradizionale azione dei pubblici poteri si trova spuntata di fronte all’estendersi geografico dell’orizzonte in quanto, con le debite eccezioni, è ancora limitata al quadro nazionale, opera con strumenti obsoleti, non sa sfruttare appieno la capacità dei singoli attori e trascura il decisivo apporto delle forze sociali autonomamente organizzate. Aggiungasi poi che la crescente interdipendenza tra Paesi accentua la responsabilità delle nazioni-guida, poiché qualsiasi progetto di politica (economica) è suscettibile di promuovere comportamenti emulativi/imitativi da parte di altri Stati. La concorrenza che, forse per la prima volta nella storia, si instaura fra i diversi Stati, può sì sfociare in esiti positivi, ma anche in quelli profondamente negativi per quanto concerne la crescita complessiva e la solidarietà fra i popoli. Un grande lavoro quindi si impone, in modo da ricostituire obiettivi e strumenti di una politica economica che tenga conto dei nuovi dati di un mondo globalizzato.
Il passaggio ad una politica economica coordinata fra Paesi, l’utilizzazione più convinta delle organizzazioni internazionali, il raggruppamento regionale di Paesi, l’elaborazione di politiche veramente mondiali (in tema di ambiente, migrazioni, sanità, crimine organizzato, movimenti di capitale, ecc.) sono momenti di una gerarchia di interventi che bisogna adeguatamente approfondire.
Accanto alle politiche da organizzare a livello mondiale (e che attengono, come si è detto, ai problemi del crimine, dell’ambiente, della sanità e della finanza), c’è un livello intermedio a cui riferire un altro insieme di interventi. In un mondo multipolare, sono i raggruppamenti fra Stati quelli più in grado di generare fiducia reciproca (quando i giocatori sono pochi ed i giochi sono ripetuti, il barare è più difficile) e di spingere ad una cooperazione regionale che abbracci non solo il lato commerciale, ma anche quello sociale e politico. Promettenti in tal senso sono il Nafta (accordo tra Stati Uniti, Canada e Messico), gli accordi dell’Unione europea (nella loro estensione all’Europa dell’Est e del Mediterraneo), quelli tra Paesi asiatici (Apec, Asean), latinoamericani (Mercosur) e tanti altri in gestazione che vedono, tra l’altro, collaborare per la prima volta Paesi ricchi e Paesi poveri.
Quando lasciate a livello nazionale, le politiche devono contemplare il coordinamento degli obiettivi, anche se non degli strumenti. L’armamentario della politica economica di tipo nuovo può però prevedere il caso (limite) dell’armonizzazione degli strumenti e non solo degli obiettivi (si pensi al tema della fiscalità in Europa), così come può benissimo consentire ambiti di assoluta autonomia di intervento sul piano nazionale (si pensi al problema dell’ambiente urbano o delle dotazioni infrastrutturali). Il problema che sorge è semmai quello di definire il grado di autonomia/decentramento delle decisioni: ed è qui che si rivela vincente (si pensi al caso europeo) il principio della sussidiarietà, così proficuamente richiamato dalla dottrina sociale della Chiesa.
Tutto quanto sopra detto presuppone che si sappia distinguere un’economia completamente globalizzata (dove imprese transnazionali e forze di mercato mondiali renderebbero sterili le politiche nazionali) e certe innegabili tendenze all’internazionalizzazione. Nel caso di un’economia internazionale aperta (con alti e crescenti livelli di scambi ed investimenti), le politiche nazionali conservano la loro importanza nel sostenere la base economica del Paese (i cui livelli di benessere si legano sostanzialmente alla produttività interna) e quindi le imprese che vi operano. La cooperazione internazionale (necessaria per ridurre i costi per la nazione e difendersi dalle pressioni del mercato), basata sul controllo nel Paese d’origine, dimostra che, anche nella finanza, gli Stati-nazione possono rimanere protagonisti. Estrema appare la tesi secondo cui la logica delle imprese non è la stessa di quella delle nazioni. Di fatto le imprese americane, piuttosto che quelle francesi o inglesi, traggono considerevoli benefici dal rimanere distintamente tali, proprio in forza del potere e del ruolo del loro Stato nazionale. Le logiche delle imprese e delle nazioni, più che contrapposte, appaiono complementari. Il criterio della nazionalità continua a rivestire un ruolo significativo nella distribuzione del lavoro nel mondo. L’internazionalizzazione non produce attività condotte con totale indifferenza riguardo al luogo ed allo spazio. Essa ridefinisce piuttosto le forme dell’organizzazione economica locale e regionale.
Internazionalizzazione e regionalizzazione costituiscono, in questo senso, due simultanee tendenze del più generale processo definito di globalizzazione. Tutto questo, però, non contrasta, ma anzi richiama la necessità che cresca la concertazione tra grandi Paesi e che negli organismi internazionali, vecchi (Banca mondiale) e nuovi (Organizzazione mondiale del commercio), siano sempre equamente rappresentati tutti gli interessi della grande famiglia umana: ed, in specie, le esigenze di quei popoli e Paesi che più necessitano di sostegno per il loro sviluppo (con particolare priorità per i Paesi africani). Senza la disponibilità ad una maggiore mobilitazione di risorse per potenziare la capacità tecnologica, le infrastrutture ed il capitale umano dei Paesi in via di sviluppo, è difficile che questi ultimi possano beneficiare dei risultati della liberalizzazione.
Né le economie di mercato nascono attraverso le sole liberalizzazioni. Ciò che occorre sono sane regole (finanziarie e non), politiche a favore della concorrenza e della trasparenza, investimenti pubblici per favorire lo sviluppo delle risorse umane e la trasmissione/adozione di nuove tecnologie.
Nei momenti difficili i governi nazionali – specie dei Paesi progrediti – devono evitare, magari spinti dagli interessi di “élites” politiche e dall’ossessione competitiva, i salvataggi indiscriminati di istituzioni finanziarie insolventi e non devono eccedere in politiche monetarie e fiscali restrittive, capaci solo di accentuare gli effetti recessivi dei fallimenti in atto e di ritorcersi sulle economie più povere del Terzo mondo. L’aiuto finanziario delle istituzioni internazionali non deve essere automatico (tale cioè da favorire la reiterazione di cattivi comportamenti), ma contemplare la suddivisione degli oneri di intervento a carico anche di chi, ricevendo e/o investendo, può trarre beneficio dai flussi di derivazione esterna. In generale, si tratta di aiutare la gente ad aiutarsi, ovvero di fornire ai cittadini le capacità imprenditoriali vincenti.
La crisi di fiducia che ha fatto seguito agli eventi asiatici lascia purtroppo intravedere un certo declino dei flussi di derivazione privata verso i Paesi in via di sviluppo ed in particolare verso quelli più fortemente indebitati. Si spera che sia una semplice pausa e che essa non si aggiunga al declino dei flussi di natura pubblica in atto dai primi anni Novanta.
La ripresa degli investimenti esteri diretti dovrebbe in effetti essere favorita da tassi di crescita, che colà rimangono più che doppi rispetto a quelli delle economie progredite, dal ritmo ancora elevato del commercio mondiale e da regole sempre più favorevoli agli investitori. Le stesse istituzioni mondiali potrebbero aiutare, sostenendo il movimento dei capitali a medio/lungo termine tramite la promozione di strutture di garanzia che riguardino il credito all’esportazione, l’assicurazione degli investimenti ed il project finance. Sfortunatamente, gli ultimi tentativi (in sede Ocse) di accordo sugli investimenti diretti esteri si sono arenati, anche per dissidi interni agli stessi Paesi progrediti. Il fallimento di tali negoziati incide in modo particolarmente negativo sulle attese per una politica di cooperazione internazionale basata sulla partnership imprenditoriale fra economie avanzate e Paesi emergenti.
Il problema si pone soprattutto per quei Paesi più poveri in assoluto, fortemente indebitati e poco attrezzati a rendere veramente efficace l’impiego delle risorse messe a disposizione dalla comunità internazionale. È qui che le istituzioni mondiali possono – e debbono – maggiormente intervenire, attivando strumenti (sull’esempio dell’Heavily Indebted Poor Countries Initiative) capaci di offrire vie d’uscita dal debito diverse dal consueto ed illusorio riscadenzamento e di riaprire le porte a nuova ed efficace finanza a medio-lungo termine. Occorre poi, più in generale, che la comunità internazionale sostenga le riforme strutturali di questi Paesi e che continui il quadro di forte crescita della produzione e del commercio mondiali.
Da ultimo, i governi dei Paesi progrediti debbono non già salvarsi l’anima donando il superfluo (e talvolta meno), ma integrare di più la dimensione internazionale nelle loro politiche ed affari interni, rafforzare le organizzazioni internazionali e con esse il lato umano della globalizzazione economica in atto.
Le politiche pubbliche risultano in effetti ancora eccessivamente segnate dalla distinzione tra interno ed esterno.
I danni, perdendo la loro limitazione spazio/temporale, sono globali e duraturi e possono sempre meno essere attribuiti a responsabilità determinate (risultando quindi di difficile risarcimento). Beni pubblici tradizionalmente ritenuti di interesse nazionale (sanità, gestione delle conoscenze, stabilità finanziaria, equità economica o certezza del diritto) oltrepassano ormai la semplice sovranità nazionale, senza che a livello internazionale ci siano meccanismi di azione paragonabili a quelli dello Stato.
La produzione di beni pubblici rischia perciò di essere insufficiente, tendendo i soggetti privati – e con essi gli Stati nazionali – a sfruttare l’iniziativa altrui (cioè a fare i free-riders).
Il rimedio deve allora consistere in un’efficace azione di incoraggiamento all’intervento (dello Stato, delle imprese, delle organizzazioni della società civile e degli individui in generale), in un sistema di vigilanza credibile (capace di verificare gli impegni presi), ma soprattutto nel fatto che i responsabili politici considerino l’esterno una problematica nazionale e ripensino all’interno come una questione di carattere internazionale.


L’ESPLOSIONE DELLA CRIMINALITÀ
Il rischio di uno sviluppo “selvaggio”, avulso da regole o comunque guidato da una “self-regulation” inevitabilmente attenta alla sola logica economica o dei mercati, genera altre, gravi, preoccupazioni.
Si tratta di minacce che sono globali, cioè investono più Paesi e pongono nuovi problemi di gestione e condivisione del rischio.
Non sono solo gli oltrepassamenti spontanei delle frontiere (inquinamento ambientale, epidemie, rischi connessi alle grandi tecnologie), ma anche le conseguenze che politiche di altri Stati hanno su chi non è stato minimamente coinvolto nelle decisioni (si pensi a: svalutazioni competitive, volatilità intrinseca dei mercati finanziari internazionali, cambiamento climatico planetario, tumulti popolari per l’aumento delle disuguaglianze ed il ritorno della endemica paura della fame).
Occorrono politiche comuni, in materia sia di standard tecnologici che di rispetto per i diritti umani.
Il mercato, congenitamente miope, non è in grado di darsi carico delle ricadute negative (inquinamento, delinquenza urbana) dell’attività economica (quando esso stesso non le agevoli).
Così, la criminalità transnazionale (corruzione, narcotraffico, traffico di esseri umani, terrorismo e così via) beneficia largamente delle nuove tecnologie e strumenti di comunicazione: senza trovare più una sanzione adeguata nelle legislazioni nazionali (né ancora in quelle sovranazionali).
Oggi il crimine è una delle attività più prospere, gestite da un management moderno ed esperto che sfrutta gli squilibri economici e sociali del mondo ed i differenziali di regolazione in atto fra i diversi Paesi. L’esodo dai Paesi in guerra diventa un’occasione ideale per le reti di sfruttamento dell’emigrazione clandestina. La povertà e la disparità sociale alimentano la prostituzione, il traffico di minori, il lavoro nero. Il disadattamento e l’alienazione diventano terreno fertile per le reti ed i mercati della droga.
Le mafie d’oggi si propongono, così, come nuove strutture di intermediazione tra mercato globale e territorio locale. Sono parte di un “capitalismo d’alta quota”, diverso dal libero mercato e legato all’accumulazione per via commerciale. Droga e armi si spostano lungo rotte su cui un tempo transitavano altre spezie ed altri beni di lusso; i viaggi della speranza odierni, gli immigrati clandestini, hanno preso il posto della vecchia tratta degli schiavi.
L’escalation dei poteri mafiosi si lega ai vari teatri di combattimento (Vietnam, Afghanistan, ecc.) che hanno aperto immensi mercati neri ed alla “deregulation” del mercato finanziario internazionale: con i mercati “offshore”, che essendo luoghi di transizione fuori dall’ambito soggetto al controllo delle economie nazionali, favoriscono lo sviluppo di poteri, quelli mafiosi, per definizione invisibili.
Le indagini svelano la stipulazione di veri e propri accordi internazionali per stabilire chi debba organizzare la produzione, chi lo smercio e chi il riciclaggio dei proventi.
Svolte epocali, come il crollo del sistema sovietico, hanno favorito la criminalità organizzata. La “mafia” russa ha gestito il processo di privatizzazione delle proprietà statali e si è avvantaggiata nella smobilitazione degli apparati militari (tramite la vendita di materiale fissile e di componenti nucleari). Il vantaggio loro nei confronti del potere costituito è che possono ignorare i diritti sociali e civili ed esercitare minacce indistinte.
Il contrasto tra le legislazioni nazionali ha alimentato – e tuttora alimenta – questi pericoli: a combattere i quali non bastano le cooperazioni – pur indispensabili – fra autorità di polizia e giudiziarie dei vari Paesi. Ciò che occorre è pervenire ad istituzioni comuni (si pensi alla creazione del pm europeo), oltre che a forme di cooperazione rafforzata, nonché continuare la lotta ai mercati “offshore” ed al segreto bancario. Più che tutto bisogna ricostruire la cultura civica e ricercare regole ed istituzioni comuni. Il problema dell’immigrazione dimostra infatti che è utopistico pensare di poter distinguere i settori della sicurezza interna e di quella esterna.


ALLA RICERCA
DI UN DENOMINATORE COMUNE
Mentre si continuano a sottolineare gli aspetti economici e politici, nessuna indagine ha finora riguardato le connessioni ed i riflessi della globalizzazione sul piano giuridico e specificamente il rapporto con i diritti umani in generale.
Il processo di fluidificazione dei confini, realizzatosi per effetto delle reti di comunicazione a livello mondiale (e quindi spontaneamente), solo adesso comincia a reclamare la fissazione di “paletti”. L’intervento giuridico richiede tuttavia una specifica volontà: vale a dire che il superamento di alcune regole, quelle messe in crisi dalla mondializzazione, può intervenire soltanto attraverso l’imposizione di altre regole (delle quali – peraltro – è urgente la predisposizione).
In un contesto che ha visto infrangersi il tabù del rapporto tra Stato e legge (a favore di un “ordine contrattuale privato”, congeniale al mercato ed alle nuove tecnologie che non conoscono frontiere), diventa essenziale pervenire ad un denominatore comune di giustizia che valga a scongiurare il rischio, davvero delicato, che la globalità (intesa come società mondiale, cioè come orizzonte percepito – caratterizzato dalla molteplicità delle dimensioni – ovvero come interscambio ed osmosi di esperienze) trascenda in globalizzazione (vale a dire in un processo in base al quale gli Stati nazionali e le loro sovranità vengono condizionati e connessi trasversalmente da attori transnazionali, dalle loro chances di potere, dai loro orientamenti, identità e reti): in ciò consolidando la solita vecchia legge per cui il più forte si afferma e vince sul più debole.
La soluzione deve andare oltre la reciprocità nelle relazioni tra singoli Stati; né può risolversi in una sorta di universalizzazione della norma che non sappia tener conto delle dinamiche politiche, sociali, economiche dei vari Stati.
In uno scenario che vede presenti più attori (gli Stati, gli individui, le imprese multinazionali, le organizzazioni non governative, le istituzioni sovranazionali sia regionali che globali), il ventaglio delle risposte compatibili con uno sviluppo sostenibile (e coerente con gli obiettivi di solidarietà e di tutela della persona umana) passa poi attraverso il superamento del monopolarismo e l’avvio di un multipolarismo capace di sfuggire alla contrapposizione sterile tra una sorta di impero mondiale ed il contemporaneo risorgere di molteplici sovranità ed egoismi nazionalistici esasperati.
Multipolarismo deve significare realizzazione e integrazione delle varie istituzioni (Stati nazionali, organismi esponenziali della società civile e della realtà economica, istituzioni regionali e istituzioni globali), sicché i singoli si sentano veramente soggetti, perché pienamente coinvolti nei processi decisionali.
La tutela dei diritti umani fondamentali è premessa per la nascita di regole comuni nel rispetto della pluralità. È solo in nome dell’uomo che si può sperare di superare le particolarità nazionali. La proclamazione dei diritti dell’uomo nel 1948 fu un momento particolarmente significativo anche perché fondato sul consenso universale e non più sulla ricerca di un fondamento filosofico, religioso, mitologico. Ciò ha garantito meglio, anche per la diffusione sempre più marcata della informazione e per la percezione immediata delle situazioni di violazione, l’effettività (tutela) di quei diritti. Il riconoscimento di una responsabilità internazionale degli Stati per la violazione di quei diritti, la nascita del concetto di crimine internazionale (con le conseguenti sanzioni di tipo economico e/o militare), il superamento del principio della non ingerenza ed altro (Corte penale internazionale del 1998), segnano le tappe di un cammino che Realpolitik, ragioni di Stato e volontà di potenza non sono riusciti ad arrestare.


PER UNA GLOBALITÀ VIRTUOSA
Certo, le resistenze continuano. Né basta fissare le regole. Occorrono istituzioni e poteri capaci di elaborarle e di renderle effettive.
Il problema riguarda più che il merito, il metodo, e cioè il modo di procedere in quel cammino. L’interdipendenza fra l’economia, la tecnologia ed i diritti fondamentali della persona richiede un’interpretazione virtuosa che la trasformi in autentica solidarietà. Ciò esige che si impari a coordinare il pluralismo e che si riesca a far progredire la democrazia e la solidarietà su scala mondiale: in tal modo evitando che la “globalizzazione imposta”, quella rispondente alle sole leggi dell’economia, veda l’uomo farsi oggetto e non soggetto.
La globalizzazione, fenomeno composito, non è solo esaltazione dell’interdipendenza economica (infittirsi degli scambi, management internazionale, outsourcing, “mergers and acquisitions”, alleanza tra imprese, multinazionali) e finanziaria (il denaro, a differenza delle merci, non ha attrito), ma è sorretta da imponenti tendenze di fondo. Essa è essenzialmente multidimensionale, cioè riguarda i servizi, la tecnologia, le persone, i beni e coinvolge l’ambiente, la cultura, la sanità, il retto vivere e l’informazione. Sostanziali cambiamenti sono perciò richiesti nelle istituzioni, nei sistemi sociali e nel modo di gestire la politica economica.
Forse mai come oggi la prospettiva nella quale occorre “leggere” gli avvenimenti di ogni giorno è una prospettiva internazionale. Mai come oggi le vicende quotidiane sono dominate da ciò che avviene sul piano globale. La stessa richiesta di por mano a ridefinire l’architettura del sistema finanziario internazionale, la discussione sul ruolo degli organismi (finanziari e non) internazionali, il dibattito sui compiti e sulle responsabilità dell’Onu, del Wto, del Fmi, della Banca mondiale e della Banca centrale europea, confermano che ogni analisi, proposta, iniziativa deve confrontarsi con la constatazione che viviamo in un’epoca dominata dalla globalizzazione dei fenomeni sociali.
Il giudizio sulle conseguenze della globalizzazione non sembra tuttavia essere univoco. Coll’intensificarsi e coll’estendersi del fenomeno appaiono non solo gli evidenti benefici, ma anche gli aspetti dubbi, controversi o negativi, che a volte sembrano prendere il sopravvento sui primi: si tratta degli effetti distributivi a livello dei singoli Paesi o di classi sociali sfavorite, dell’accrescersi della povertà persino nei Paesi più ricchi, dell’accentrarsi delle più importanti decisioni in poche imprese multinazionali, della crescente instabilità e turbolenza sui mercati valutari e finanziari, delle modificazioni ambientali irreversibili, dei movimenti incontrollabili di popolazione, dell’insicurezza alimentare, del dilagare della corruzione.
Le imprese multinazionali, formidabile veicolo di crescita, rischiano di rappresentare un pericolo per la democrazia, dal momento che già stanno indebolendosi importanti aspetti della sovranità statuale. Non a caso, ovunque si sviluppano authorities e organi di controllo, vigilanti affinché permangano le condizioni di concorrenza. In tema di flussi finanziari internazionali, poi, sempre più ampio è il consenso circa la necessità di una giurisdizione a livello mondiale che sappia regolare i movimenti speculativi di breve, eliminare il cosiddetto azzardo morale e ricomporre a livelli più ampi le troppo frammentate vigilanze.
Mentre a livello nazionale (oggi europeo) nessuno mette in dubbio che il controllo della moneta debba avvenire per autorità, nell’economia globale la creazione della moneta e dei suoi sostituti per usi internazionali è lasciata al mercato. Ciò alimenta un’instabilità sistemica che nuoce allo sviluppo ed accentua interrogativi sul significato e sugli indirizzi di quella forza dinamica, fatta di flessibilità ed adattabilità, che è l’economia capitalistica mondiale.
Indubbi sono i vantaggi che derivano da una più ampia libertà di scelta e dalla più vivace competizione economica quando però questa si accompagni ovunque al rispetto delle regole. Il dividendo può sicuramente esserci: la sfida sta nel farlo diventare effettivo e soprattutto nel renderne tutti partecipi, avviando anche i Paesi più poveri sulla strada di una integrazione equa ed efficiente.
Non mancano i problemi. I costi di aggiustamento (le riforme necessarie) non saranno né lievi né di breve momento. La crescita della disoccupazione apparirà tanto più marcata quanto più rigido risulterà l’impiego della manodopera meno qualificata e più alta la produttività del capitale che sta alla base dell’innovazione tecnologica. Sullo sfondo peserà la riallocazione spaziale in atto nelle risorse (delocalizzazione delle fasi produttive ed importazioni da aree a basso costo).
Sul piano finanziario, la mole e la volatilità dei movimenti di capitale ha già innescato crisi di vasta portata (da quella del Messico nel 1994 alle più recenti difficoltà asiatiche, russe e latinoamericane). Si possono ricordare, da ultimo, ma non per importanza, le difficoltà della politica economica e la già accennata erosione della sovranità statuale.
Con tutto ciò, la globalizzazione non appare opzionale rispetto ad altri scenari.
I vincoli sistemici sono frutti del volontarismo politico. Revocare sistemi frutto di decisioni concertate non avrebbe successo e richiamerebbe sanzioni.
Ripiegamenti protezionistici negli scambi potrebbero solo determinare condizioni di ingovernabilità a livello mondiale ed allargare le grandi disparità tuttora esistenti tra i diversi Paesi. Molti degli effetti che consideriamo negativi si sarebbero comunque verificati, come esito delle nuove condizioni tecnologiche, sociali e di aspirazione delle persone.
Di tali effetti si avverte, certo, una accentuazione. Bisogna però dire che, mentre nel secolo scorso essi tendevano a permanere, le forti reazioni dell’oggi spesso obbligano quelli che non hanno regole a darsele. Cultura, religione, esperienze passate, accresciuta consapevolezza, fanno sì che alcuni comportamenti non vengano più accettati, mentre forze psicologiche e sociali portano all’adozione di accordi volontari e di regole più umane e civili. Gli effetti negativi hanno allora maggiori probabilità di comporsi in equilibri più avanzati: specie se i comportamenti individuali e sociali diverranno più coerenti e maturi e se le forti spinte di cittadini portatori di valori indurranno i governi ad attuare politiche più rispondenti alle evidenze dell’oggi.
La globalizzazione può dunque diventare un’opportunità capace di rendere più virtuosa la collaborazione fra uomini e nazioni. Certamente, essa è il metodo più incisivo per combattere i privilegi e le rendite di posizione che si annidano nei diversi Paesi. La globalizzazione non dev’essere però un facile alibi per rinchiudersi dietro le forze impersonali del mercato o, ancora peggio, per trarre indebito vantaggio dall’assenza di regolamentazioni precise. In un mondo sempre più interconnesso dal punto di vista economico, tecnologico, finanziario, si richiede una significativa e convinta modificazione dei comportamenti individuali. Tutti gli attori economici (imprenditori e manager, unità di consumo, sindacati, investitori finanziari, decisori pubblici) devono sentirsi coinvolti nelle loro rispettive sfere di autonomia, individuale o collegiale.
Solo una siffatta ridefinizione dei comportamenti può rendere la globalizzazione più solidale e piegata agli obiettivi di una crescita armonica della comunità mondiale. Ad essi devono accompagnarsi le innovazioni istituzionali.
Di fatto, due grandi dinamiche, l’integrazione e la cooperazione internazionale cercano oggi di mediare libertà nei mercati e regole istituzionali. L’integrazione ha visto nascere zone di libero scambio e unioni doganali (Efta, Nafta), mercati comuni (Cee) e, da ultimo, l’Unione monetaria europea.
La cooperazione ha visto sorgere e crescere il ruolo di enti preposti alla cooperazione commerciale (Gatt, Wto), alla cooperazione monetaria o finanziaria (Fondo monetario internazionale, Banca dei regolamenti internazionali) e alla cooperazione allo sviluppo (Banca mondiale, Bei). Senza dimenticare i G7 che si apprestano a diventare G20: anche questa è una strada che potrebbe portare ad una sempre maggiore compenetrazione e solidarietà internazionale.


IL RUOLO DELLA POLITICA
La pervasività dei processi in atto sta spingendo verso profonde modificazioni dei sistemi economici e politici. Più che tutto, si stanno determinando modificazioni della dimensione territoriale, così ben evidenti con riguardo a tutte le sfere tradizionali del vivere sociale.
È qui, sul terreno scivoloso dei delicati rapporti tra economia e politica, che si registrano i più rilevanti segnali di discontinuità col secolo appena conclusosi : un secolo “smisurato”, racchiuso nella morsa degli eccessi dello statalismo di una politica che ha invaso tutti gli ambiti del vivere sociale. La notte del 9 novembre 1989 con la caduta del muro di Berlino, un ordine che sembrava immutabile di rapporti fra Stati e fra popoli è crollato. Da allora, ci si avvede sempre più che la coppia democrazia e mercato, vincente nella politica mondiale sviluppatasi a partire dal 1945, necessita di nuovi punti d’equilibrio.
Una minaccia forte ed incombente continua infatti ad essere esercitata sul fronte economico e finanziario. Questo perché la “ritirata dello Stato” ha aperto le porte ad una versione ipersemplificata ed altamente idealizzata di neoliberismo economico: sicché la sensazione diffusa è che la politica sempre meno riesca a far da contrappeso allo strapotere dell’economia capitalista.
La sfida da raccogliere, allora, per evitare che finanza ed economia dominino sempre più il nostro futuro e che i mercati diventino, loro, i sovrani, sottraendo al popolo lo scettro, è quella di pensare ad una politica nuova, capace di far sue le modificazioni che la globalizzazione ha apportato anche alla politica.
Oggi possiamo certamente parlare di “internazionalizzazione del processo decisionale politico” non solo in termini sostanziali, ma addirittura formali: istituzioni come il G7 o la Banca mondiale o il Fondo monetario internazionale o il Wto appaiono infatti vincolare le decisioni del governo (anche attraverso le reazioni dei mercati finanziari) assai più di quanto Washington e la Nato avessero mai osato fare, anche negli anni più bui della guerra fredda.
Resta però il problema di come le singole nazioni – e la politica più in generale – possano essere propositivi rispetto alla crescente interdipendenza tra sistemi economici e alla internazionalizzazione della politica. A tale riguardo, cruciale è l’attenzione riservata ai mutamenti che si stanno verificando attorno allo Stato-nazione, sintesi politica che ha caratterizzato la storia del nostro continente in tutta l’età moderna. Da questo punto di vista, il modello dello Stato-nazione ha una possibilità di sopravvivenza solo se il processo della globalizzazione viene assunto come criterio della politica nazionale in ogni ambito. Di conseguenza, i fondamenti dell’attuale convivenza sociale e politica (tolleranza, diritti umani, garanzie sociali) vanno ridiscussi per essere riproposti in coerenza con la nuova realtà mondiale.
La nuova condizione dello Stato-nazione impone di ridefinire il concetto di cittadinanza, almeno per tentare di ridurre quelle contraddizioni tra logica del mercato e logica della democrazia che appaiono crescenti negli odierni scenari di globalizzazione.
Il territorio non è poi più ciò che circoscrivendo delimita: sempre più difficile, infatti, è collocare le risorse economiche entro certi confini. D’altra parte, le istituzioni cominciano a funzionare sempre meno secondo la vecchia logica della politica generale. Quasi paradossalmente, infine, ci si avvede che quanto più le dimensioni economiche si allargano fino ad avvolgere il sistema globale, tanto più diventa rilevante ciò che succede nel nostro territorio. In tal senso, la politica che sembra perdere preminenza a livello di Stati nazionali, riacquista visibilità come strumento di costruzione della città dell’uomo a livelli più decentrati.
Con tutto ciò, lo Stato non dovrà morire: si dovrà invece riqualificare, concentrandosi su alcune funzioni essenziali. Il nuovo regionalismo, che traspare sempre più a livello internazionale, non deve emergere solo come contraccolpo all’indebolirsi del moderno Stato, quanto come segnale della linea lungo cui le cerchie sociali di interessi e di bisogni rivendicano (talvolta contro lo Stato, talaltra chiedendone il sostegno), un’organizzazione ed una gestione diversa del potere, capace di far diventare più congruenti le forme di convivenza economico-sociali con quelle politiche. Nelle nuove e diverse interrelazioni fra realtà locali e dimensione globale, il territorio acquista così un nuovo valore e con esso la ricerca di strumenti diversi e più efficaci per la politica.
CONCLUSIONI
Globalizzazione dell’economia ed internazionalizzazione della politica richiedono più politica nuova e meno politica vecchia. Con ciò non si intende esaltare il novitismo (non tutto è inedito), ma combattere il negazionismo (non è vero che non c’è nulla di nuovo) o anche solo l’atteggiamento fatalista di chi spera che passi la nottata.
Quali allora gli intendimenti? In generale, va perseguita quella “global governance” (cioè una funzione di governo globale e democratico) che si sostanzi di controlli sulla performance delle multinazionali in materia di lavoro, commercio equo e protezione ambientale, di parametri di rischio e di segretezza per banche e finanza, di codici etici di condotta per i diversi attori e che in tal modo consenta la cooperazione tra Stati democratici e tra istituzioni transnazionali e subnazionali e renda possibile e vantaggiosa la gestione cooperativa delle sfide che la globalizzazione comporta.
Occorre, di conseguenza, verificare se esiste la possibilità reale di diritti di cittadinanza globali, programmaticamente “staccati” dal baluardo dello Stato-nazione ed affidati ad una dimensione sempre più universale. In altri termini, ci si deve chiedere se una “cosmopolis” (che rimpiazza o affianca la comunità nazionale) può garantire l’effettività dei contenuti, specie di quelli politici e sociali. Una democrazia transnazionale postula l’esistenza di soggetti politici, di partiti a cui i cittadini globali possano dare la propria adesione. Ciò pone da un lato il problema delle modalità necessarie per partecipare agli affari interni di distinti Paesi e dall’altro quello della presenza qui di Stati forti in grado di far rispettare la normativa transnazionale volta a regolamentare i mercati a livello sia nazionale che internazionale. Ciò nella consapevolezza che se non riusciremo a disciplinare politicamente i mercati che stanno sfuggendo di mano a Stati-nazione ormai indeboliti e carichi di troppi oneri, dovremo fare i conti con l’esaurimento delle risorse non rinnovabili, l’alienazione culturale di massa ed il verificarsi di esplosioni sociali.
Il rapporto tra il sistema politico di un Paese democratico ed il suo sistema economico non democratico ha rappresentato una sfida formidabile per le finalità della democrazia del XX secolo. La sfida continuerà nel XXI. Sta a noi far sì che l’era della globalizzazione non segni la fine dell’era delle libertà.
Nel perseguimento della “governance”, la religione (intesa qui come spiritualità organizzata), è destinata a rivestire un ruolo importante. La sacralizzazione della scienza ha apparentemente eliminato il bisogno di intermediari (religiosi) per avvicinarsi alla verità. Nel XX secolo, però, già si è toccato con mano che la scoperta scientifica e l’innovazione tecnologica non producono solo cambiamenti miracolosi, ma anche inquinamento, distruzione e malattie senza precedenti. La Ragione, detto altrimenti, ci ha portato con successo là dove non vorremmo essere mai arrivati.
Ecco allora sorgere nuovi tipi di scienza (citiamo, per la disciplina economica, la teoria del caos), fondati sull’intuizione almeno quanto sul ragionamento, l’ammissione di scienziati sul fatto che possiamo solo pregare di comprendere tutto ciò che ancora non sappiamo, l’emergere dei limiti di quella burocrazia piramidale e gerarchica che un tempo era sembrata il modo perfetto per organizzare la cooperazione fra gli uomini.
Nasce da qui un atteggiamento di fondo, caratterizzato da una miscela creativa di pensiero razionale e di intuizione, da una tolleranza (quasi celebrazione) delle diversità, dalla sensibilità massima per la tutela dell’ambiente. Un pensiero che predilige le organizzazioni paritarie, orizzontali, ai sistemi di autorità verticali, l’assunzione consensuale delle decisioni e che mostra un’apertura nuova a sollevare negli affari pubblici questioni di senso, di etica, di intuizione e di spiritualità.
Tecnologia informatica, coscienza ecologica, tolleranza etnica, razziale e sessuale, nuovo interesse per la spiritualità, modifica negli schemi di consumo (attinenti dieta, lavoro e mobilità), indicano una nuova visione del mondo e il desiderio di una vita più sostenibile. Questi cambiamenti di valore sono già in atto nei Paesi più evoluti (nordamericani e nordeuropei), dove la gente sta perdendo fiducia nelle istituzioni gerarchiche e tende ad anteporre la sostenibilità ambientale alla crescita economica. A volte, è lo stesso processo di globalizzazione a spingere, direttamente o indirettamente, a tali comportamenti che riguardano non solo gli individui e le famiglie, ma anche le imprese. In una società mondiale, il concetto di prossimità si estende ben al di là dei confini tradizionali. Il “farsi prossimo” significa considerare come nostro qualsiasi evento a noi esterno. Ogni innovazione, conquista e catastrofe riguardano il mondo intero e ci inducono a riorientare e riorganizzare la nostra vita ed il nostro agire lungo l’asse locale-globale.
Ripensare con sforzo innovativo a come interpretare questa e altre sfide ed orientare le necessarie trasformazioni è compito urgente a cui nessuno può sottrarsi. Gli spunti qui offerti sono solo iniziali. Ad altri l’onere di maggiori e migliori declinazioni.



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