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ANTONIO ROSMINI
tratto dal n. 07/08 - 2001

Grande cattolico e grande italiano


La Congregazione per la dottrina della fede è intervenuta recentemente sulle “quaranta proposizioni” del filosofo cristiano che furono condannate nel 1888. Un commento dell’ex presidente della Repubblica


di Francesco Cossiga


Antonio Rosmini è entrato profondamente nella coscienza degli italiani, sia per ragioni di cultura, sia per quasi spontanea simpatia, sentendolo quale genio che realizza in sé lo spirito caratteristico della nostra gente.
Antonio Rosmini. Sullo sfondo, il Centro studi di Stresa (Verbania) in una foto d’epoca. A Stresa Rosmini soggiornò dal 1850 al 1855, anno della sua morte

Antonio Rosmini. Sullo sfondo, il Centro studi di Stresa (Verbania) in una foto d’epoca. A Stresa Rosmini soggiornò dal 1850 al 1855, anno della sua morte

Tutti sanno quanto Rosmini fosse “italiano” nel suo più alto sentire, come dimostra già quella sua fervente giovanile effusione che lo porta – nel 1823 – a chiudere il panegirico in morte di Pio VII, tenuto a Rovereto, con questa preghiera per l’Italia che commuove ancora a tanti anni di distanza: «Onnipotente che prediligi l’Italia, che concedi a lei immortali figliuoli, che dall’eterna Roma per i tuoi vicari governi gli spiriti, deh! dona altresì ad essa, benignissimo, il conoscimento dei suoi alti destini, unica cosa che ignora: maestra di virtù alla terra, specchio di religione, rendila avida di liberi voti e d’amore, di cui sia degna, più che di tributi e di spavento: e fa’ che in se stessa ella trovi felicità e riposo, e in tutto il mondo un nome non feroce, ma mansueto».
Sappiamo che questa sua invocazione per l’Italia gli costò l’essere segnato per sempre sul libro nero della polizia austriaca. Non possiamo non rilevare come il giovane Rosmini fosse convinto degli “alti destini” che la Provvidenza serbava all’Italia; quegli stessi “alti destini” che egli ricorda in un bellissimo passo del suo scritto Degli studi dell’Autore, che voglio citare, perché a distanza di anni conserva ancora l’entusiasmo del cuore da cui provenivano quelle parole.
Nel contesto egli parla della necessità che le menti siano unite nelle idee e nelle opinioni, perché solo da questa unione viene la pace e la forza sociale. Pace e forza sociale che egli augura all’Italia, che però apostrofa con questi altissimi accenti:
«E tu il sai troppo bene, povera Italia, che più lungamente e più atrocemente d’ogni altra regione esperimentasti i funesti effetti della discordia, e ne fosti la vittima! Perocché io mi credo che il genio stesso del male, temendo forse più da te, che da ogni altra nazione, per ogni tuo angolo agitasse più che altrove la face della discordia, e ve l’accendesse, acciocché discorde, tu fossi altresì divisa, e divisa, tu rimanessi debole, e debole, tu divenissi pusillanime ed infingarda, e protesa nella tua infingardaggine, tu non sapessi più né manco conoscere la vera cagione della discordia.
Eccoti questa qual è: il non aver tu un’opinione ben ferma, e l’averne molte deboli e discrepanti. Nella tua mollezza, ne’ tuoi studi superficiali, in recitando, vecchia fanciulla, le lezioni apprese alle scuole altrui, tu non ti potesti formare giammai una filosofia, una dottrina che fosse tua, e però né pure avesti una nazionale opinione: sorgi, tendi all’unità intellettiva, che, se tu vuoi, non ti può esser contesa, e diverrà allora fortissima la tua sciagurata bellezza»; ed egli fu coerente a queste sue idee nelle sue opere, votandosi in una sfortunata, ma appassionata opera di diplomatico, a promuovere la causa nazionale italiana anche cercando di impedire, da inviato del re Carlo Alberto, che si aprisse un baratro tra la Santa Sede e il Risorgimento.
Egli tanto fu apprezzato dallo stesso Pio IX per queste sue doti di politico e di amante insieme della Chiesa e dell’Italia che questi pensò di nominarlo cardinale, ma il suo proposito fu stroncato dalla opposizione di quel cardinale Antonelli, figura ambigua della curia romana, segretario di Stato non sacerdote, austriacante e nemico della causa italiana, che tanto male fece all’Italia, al papato e alla stessa figura del beato Pio IX; e non sembra senza fondamento che oltre alla porpora, e proprio in sostituzione del cardinale Antonelli, Pio IX avesse pensato di nominare Antonio Rosmini suo segretario di Stato in momenti difficilissimi per il papato e per l’Italia.
Una bella testimonianza di come Rosmini sia nella coscienza degli italiani, si è avuta in occasione della ricorrenza del secondo centenario della sua nascita (1797-1997). Non si è trattato soltanto di scritti specifici sulle sue dottrine, ma è apparso come un consenso universale sulla grandezza morale e spirituale della sua figura; consenso che dimostra una costante attenzione per lui e un apprezzamento incondizionato, sia pure implicito, anche per le sue dottrine.
Anche la recentissima Nota della Congregazione per la dottrina della fede ha suscitato lo stesso incondizionato consenso in favore di Rosmini. Da tempo si attendeva ormai una simile dichiarazione; ed ora ci viene appunto solennemente e ufficialmente confermato che non sussistono più i motivi «di preoccupazione e di difficoltà dottrinale e prudenziali che hanno determinato la promulgazione del decreto Post obitum di condanna delle “quaranta proposizioni” tratte dalle opere di Antonio Rosmini».
In tal modo quindi vengono “prosciolte” le dottrine di Rosmini condannate nel 1888. E questa Nota è un passo che viene accolto con vivissima esultanza nel campo della cultura.
A dire il vero, in campo laico, il fatto che le dottrine di Rosmini fossero state condannate, non alienava da lui la simpatia degli uomini di cultura; anzi, gli aggiungeva forse un’“aureola” di cui Rosmini non aveva bisogno, ma che lo spirito laicista amava porgli attorno. Magro compenso di fronte alla gravità della condanna; ma lo spirito umano è fatto anche così.
Ora tutto ritorna nell’equilibrio che è proprio della logica delle cose: quando le “quaranta proposizioni” furono condannate, vi erano “motivi” per la condanna: in realtà estrinseci ed estranei al suo pensiero rosminiano, e gravati da non certo nobili dissensi politici e curiali.
E già Giovanni Paolo II aveva, con significative parole, compreso Antonio Rosmini, nella sua enciclica Fides et ratio, tra i grandi filosofi cristiani.
Che Iddio ci dia presto un nuovo beato: Antonio Rosmini!
Sarà un altro passo sulla strada della piena conciliazione storica, culturale ed ideale, tra la Chiesa cattolica in Italia e la Santa Sede da un lato, e la causa nazionale dall’altro. Ora da parte della Congregazione per la dottrina della fede (ex Sant’Uffizio) si riconosce e si afferma che quei motivi non sussistono più. È un gesto, prima di tutto, di lealtà e di giustizia, di cui la coscienza comune sta prendendo atto con profonda consapevolezza ed esultanza.


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