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LIBRI
tratto dal n. 07/08 - 2001

La “romanità” e l’Europa


Nel suo nuovo libro, Padoa-Schioppa spiega che «l’Italia ha un vantaggio rispetto alle nazioni divenute Stati in Europa sul finire del Medioevo. La sua vocazione europea è del tutto coerente con la sua identità culturale: con l’universalismo classico romano, con l’universalismo religioso cattolico». Un confronto con Europe, la voie romaine, di Rémi Brague, in cui il filosofo afferma che «è romana l’esperienza del cominciare come (ri)cominciare»


di Massimo Borghesi


Tommaso Padoa-Schioppa, <I>Europa, 
forza gentile</I>, Il Mulino, Bologna 2001

Tommaso Padoa-Schioppa, Europa, forza gentile, Il Mulino, Bologna 2001

I­ ridimensionamento del ruolo degli Stati nazionali è il problema che sta oggi al centro del dibattito sull’integrazione europea. Lo richiama Tommaso Padoa-Schioppa nel suo Europa, forza gentile (Il Mulino, Bologna 2001), in cui il costante richiamo all’ideale europeo si accompagna a una critica costante ai nazionalismi esasperati che hanno accompagnato il sorgere degli Stati nel corso degli ultimi secoli.
Per Padoa-Schioppa lo Stato moderno, uniforme e centralizzato, non può costituire il modello per l’Unione europea. Né questa può fondarsi sull’appartenenza a una comune nazione. Solo una federazione di Stati nazionali può rendere conto della pluralità politico-istituzionale e storico-culturale del continente operando con forza “gentile”. In tal modo «l’Unione europea continuerebbe a essere un’unione di molte nazioni, lingue e tradizioni storiche, più simile all’Impero romano che a uno Stato nazionale»1. Certo, come osserva l’autore, «la scelta di un modello federale non eliminerebbe, di per sé, il rischio di un’eccessiva centralizzazione»2. È quanto accade negli Stati Uniti d’America. La soluzione si è trovata nel principio di sussidiarietà che, recepito nell’articolo 5 del Trattato di Maastricht, prevede che la Comunità intervenga soltanto là dove gli obiettivi prefissati, per dimensioni o per altro motivo, non possano essere realizzati dagli Stati membri. La preoccupazione dell’autore, com’è evidente, è di rimuovere obiezioni e critiche, segnatamente da parte inglese, al disegno di integrazione visto, con sospetto, come edificazione di una sorta di super Stato. Il progetto europeo nasce, in realtà, dalla convergenza tra ideali ed interessi ed è logico pensare che possa proseguire solo nel connubio tra questi due fattori. Esso presuppone il superamento dello storico dissidio tra Francia e Germania, dissidio che tra il 1870 e il 1945 ha prodotto tre sanguinosi conflitti. Presupponeva, fino al 1989, la difesa dell’Occidente democratico dalla minaccia del totalitarismo comunista. Ha fatto leva, infine, con il trattato sull’unione monetaria, sul desiderio francese di porre fine al dominio monetario tedesco. Ideali ed interessi si intrecciano in modo apparentemente indissolubile. La stessa Italia ha beneficiato in più modi, in termini economici, del processo europeo. Cionondimeno essa, come mostra Padoa-Schioppa, più di altri Paesi si è rivelata in prima linea nella difesa, non puramente mercantile, dell’Unione. Non solo illustri teorici come Einaudi, Spinelli, Albertini, ma anche statisti come De Gasperi, Andreotti, Craxi, Ciampi sono stati decisi fautori dell’integrazione europea. Questa mancanza di pregiudiziali verso l’Europa, il sentirsi naturalmente “europei” da parte degli italiani, ha motivazioni profonde. Come scrive l’autore: «L’Italia ha un vantaggio rispetto alle nazioni divenute Stati in Europa sul finire del Medioevo. La sua vocazione europea è del tutto coerente con la sua identità culturale: con l’universalismo classico romano, con l’universalismo religioso cattolico»3. Questa «cultura romano-cristiana», che «ha mitigato la naturale litigiosità dei popoli e ha favorito l’assimilazione e l’integrazione», ha rappresentato, con il suo universalismo, «un ostacolo all’emergere di un moderno Stato unitario»4. Ciò, a partire da Machiavelli, è stato imputato alla Chiesa come colpa, quasi essa fosse la responsabile del mancato processo di unità nazionale. In realtà la responsabilità va ripartita tra tutti gli Stati regionali e città-Stato, tra cui Venezia in primis, fieramente avversi ad ogni possibile unità. Questa diffidenza riguarda, tuttavia, la forma dell’unità politica, non la coscienza di una comune appartenenza. «In Italia statualità e identità nazionale per molti secoli non hanno coinciso. Mancanza di uno Stato italiano non significava mancanza di una nazione, intesa come consapevolezza di un popolo di possedere un’identità culturale, di lingua, di usi e tradizioni»5. Il Paese di Dante non attende il 1870 per acquisire coscienza di essere “Italia”. Al contrario la nascita dello Stato unitario segna l’emergere di un particolarismo nazionalistico che distacca l’Italia dagli altri popoli portandola al colonialismo prima e alle guerre mondiali poi. Sotto questo profilo il rilievo critico, presente in un filone del pensiero politico italiano, per cui all’Italia sarebbe mancata la Riforma protestante, una riforma capace di forgiare una Chiesa “nazionale”, va decisamente rivisitato. Il cristianesimo romano – e in ciò sta il suo pregio – non ha carattere nazionale. Roma non è Wittenberg. «Il carattere nazionale del cristianesimo tedesco contrasta con quello universale del cattolicesimo italiano. La specificità dell’etnia è stata a lungo considerata come la base della nazione tedesca, mentre non ha mai avuto un ruolo significativo in Italia»6. Per Padoa-Schioppa «non si può parlare di un legame particolare tra la Chiesa e l’Italia in quanto tale; non c’è stata una “Chiesa d’Italia” così come c’è stata una Chiesa di Francia o una Chiesa di Spagna. Il fatto che per molti secoli i papi siano stati italiani, forse fu anche l’effetto della scarsa rilevanza politica di tale provenienza, e del carattere distintamente “cattolico” (cioè universale) della tradizione culturale italiana»7. È per questo che la funzione dell’Italia, nel concerto dei Paesi europei, appare oggi preziosa così come, parimenti, l’universalismo “romano”, criticato dallo Stato nazionale, risulta essere una risorsa ineludibile nel processo di unificazione europea.
Rémi Brague, <I>Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa</I>, Rusconi, 
Milano 1998

Rémi Brague, Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa, Rusconi, Milano 1998


Europa, la via romana
Padoa-Schioppa non cita nel suo studio la riflessione di Remi Brague, Europe, la voie romaine (Criterion, Paris 1992), tradotta in italiano con il titolo, non felice, Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa (Rusconi, Milano 1998), testo intelligente e fine in cui avrebbe potuto trovare più di una conferma al suo lavoro. Per Brague, professore di Filosofia araba all’Università di Parigi, «l’Europa non è soltanto greca, né solo ebraica. Essa è altrettanto decisamente romana. “Atene e Gerusalemme”, certo, ma anche Roma»8. Questo «anche» non indica un’aggiunta, il terzo collocato tra Atene e Gerusalemme. Brague sostiene, in modo più radicale, che «noi siamo e possiamo essere “greci” ed “ebrei” soltanto perché siamo innanzitutto “romani”»9. Si tratta di un’affermazione che va consapevolmente contro il «complesso antiromano»10 che segna l’Europa degli ultimi secoli, dalla Riforma al Neoclassicismo sino a Martin Heidegger. Da esso proviene il giudizio sulla “romanità” come corruzione, corruzione di ciò che è cristiano (Riforma) e di ciò che è greco (Neoclassicismo). La romanità come grande decadenza, come vuoto culturale contrassegnato dal mero esercizio del potere il cui unico merito è di aver trasmesso la cultura greca. Questo “unico” merito costituisce in realtà, per Brague, il suo grande merito. «Tutto cambia se si rinuncia a vedere il contenuto dell’esperienza romana in altro che non sia questa trasmissione. Questa poca cosa che si accorda in proprio a Roma è forse tutta Roma. La struttura di trasmissione di un contenuto che non è il suo proprio, ecco il vero e proprio contenuto. I Romani non hanno fatto che trasmettere, ma questo non è poco. Non hanno apportato niente di nuovo rispetto ai due popoli creatori, il greco e l’ebraico. Ma questa novità, l’hanno portata. Hanno portato la novità stessa. Hanno portato come nuovo ciò che per loro era antico. Hanno accettato di porsi dopo i Greci, e dopo gli Ebrei»11.
Questa accettazione coincide con la scelta della secondarietà. Roma viene dopo Troia, nasce dalla progenie dell’esule Enea che, al pari di Abramo, lascia la sua terra per ricominciare. «È romana l’esperienza del cominciare come (ri)cominciare»12.
Questa struttura presenta, secondo Brague, più di un’analogia con la posizione cristiana. «I nostri Greci, sono gli Ebrei. […] La Chiesa è “romana” perché ripete rispetto a Israele l’operazione condotta dai Romani sull’ellenismo»13. La “novità” cristiana non abolisce la Legge antica, il Nuovo Testamento non dissolve l’Antico. Il cristianesimo, al pari di Roma, è “secondo”. Non presume, come l’islam, di fare tabula rasa di ciò che è prima; rifiuta la tentazione di Marcione di contrapporre i due Testamenti. Con un’intuizione singolare Brague scrive che «il rifiuto del marcionismo è, forse, l’evento fondatore della storia dell’Europa come civiltà, in quanto fornisce la mýtrice del rapporto europeo con il passato, e lo àncora a un livello più elevato. È così possibile che sant’Ireneo, attraverso la sua polemica contro il marcionismo e la sua affermazione dell’identità del Dio dell’Antico Testamento con quello del Nuovo, sia non soltanto uno dei Padri della Chiesa, ma anche uno dei Padri dell’Europa»14. Affermazione questa tutt’altro che fuori luogo solo se si misuri il peso che l’eresia marcionita ha avuto nell’elaborazione ideologica dell’antisemitismo moderno in Europa15.
Il cristianesimo viene dopo, dopo Israele ma anche dopo il paganesimo. Anche in questo secondo caso esso, diversamente dall’islam, non ha rifiutato il confronto. La cultura greca è passata attraverso Roma e attraverso il cristianesimo e questo non solo nel suo aspetto filosofico-scientifico ma anche in quello letterario. Al contrario «ciò che la letteratura antica aveva di propriamente “letterario”, cioè la poesia epica, tragica e lirica, non è giunto al mondo arabo […]. Ora, è proprio questa letteratura che veicolava una sorta di concezione antica dell’uomo, con i modælli della sua possibile eccellenza nell’affermazione rispetto agli dèi, alla natura, allo Stato, ecc. Il mondo arabo non ha dunque dovuto affrontare in pieno la concorrenza di una concezione globale dell’uomo anteriore all’islam»16.
Il cristianesimo si è confrontato con il paganesimo – fin nel suo aspetto più dirompente: la tragedia greca –, l’islam no. L’islam non ha un dietro di sé, la nozione di storia della salvezza vi gioca un ruolo secondario. I profeti dei popoli predicano un solo messaggio che trova la sua purezza in Maometto. Religione del Libro, il Corano, essa ammette una sola lingua, l’arabo. Al contrario nel cristianesimo la pluralità delle lingue non è ostacolo all’unità. «Storicamente parlando, la nascita dell’Europa è direttamente connessa a questa possibilità: quando, dopo le grandi invasioni, i popoli da poco arrivati chiesero il battesimo, non si è domandato loro di adottare una nuova lingua, salvo per la liturgia. […] Le lingue dei “barbari” sono state rispettate e giudicate degne di accogliere il Vangelo»17. La “secondarietà” cristiana, “romana”, accoglie ciò che sta prima. Accoglie, purifica, trasmette. Offre la possibilità ad ogni generazione di ri-cominciare, di incontrare la tradizione come un fatto nuovo, vivente. È il terreno su cui germinano le “rinascenze” che contrassegnano la storia europea. In questo senso la “romanità”, la cui forma ecumenica è esaltata nel cristianesimo, diviene l’identità “eccentrica” che qualifica, tra molti tradimenti, l’Europa. È «proprio la presenza della secondarietà a questo livello fondamentale che rende unica l’Europa»18.
L’incontro che la qualifica, tra due universalismi, Roma e il cristianesimo “cattolico”, i quali accolgono in sé la Grecia ed Israele, è un fatto unico nella storia del mondo. Da quest’incontro sorge l’Europa come dimensione ideale e figura peculiare. «L’Europa si distingue dagli altri mondi culturali per la modalità particolare del suo rapporto con ciò che le è estraneo: l’appropriarsi di ciò che è percepito come estraneo»19. Questa appropriazione è tanto più feconda quanto più è disinteressata. Gli europei «non hanno studiato i classici greci e latini perché erano le fonti dell’Europa», li hanno studiati «perché li trovavano veri, belli, interessanti»20. Allo stesso modo, scrive Brague con un’annotazione che ricorda Péguy, «nell’ambito religioso, la fede non produce effetti che là dove essa resta fede, e non calcolo. La civiltà dell’Europa cristiana è stata costruita da gente il cui scopo non era affatto quello di costruire una “civiltà cristiana”, ma di spingere al massimo le conseguenze della loro fede in Cristo. La dobbiamo a persone che credevano in Cristo, non a persone che credevano nel cristianesimo. Queste persone erano dei cristiani, e non, come potremmo definirli, dei “cristianisti”. Un bell’esempio di ciò è fornito da papa Gregorio Magno. La sua riforma ha gettato le basi del Medioevo europeo. Ora, egli credeva che la fine del mondo fosse prossima. E questa, a suo avviso, doveva comunque pýivare ogni “civiltà cristiana” dello spazio in cui dispiegarsi. Ciò di cui ha gettato le fondamenta, e che doveva durare tutto un millennio, non era a suo avviso che un ordine di marcia provvisorio, un modo per sistemare una casa che si sta per lasciare»21.

NOTE

1 T. Padoa-Schioppa, Europa, forza gentile, Bologna 2001, p. 68.
2 Op. cit., p. 69.
3 Op. cit., p. 42.
4 Op. cit., p. 89.
5 Op. cit., p. 91.
6 Op. cit., p. 95.
7 Op. cit., p. 90.
8 R. Brague, Europe, la voie romaine, Paris 1992, tr. it., Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa, Milano 1998, p. 36.
9 Ivi.
10 Cfr. H. U. von Balthasar, Die antirömische Affekt, Freiburg i. B. 1974, tr. it., Il complesso antiromano, Brescia 1974.
11 R. Brague, Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa, cit., p. 41.
12 Op. cit., p. 43.
13 Op. cit., p. 63.
14 Op. cit., p. 119.
15 Cfr. M. Borghesi, Lutero, Agostino, gli ebrei, in 30Giorni, n. 2, febbraio 2001, pp. 56-61.
16 R. Brague, Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa, cit., pp. 125-126.
17 Op. cit., p. 173.
18 Op. cit., p. 118.
19 Op. cit., p. 101.
20 Op. cit., p. 148.
21 Op. cit., pp. 148-149.


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