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CINEMA
tratto dal n. 07/08 - 2001

Cronache di un “aspirante cristiano”


Così si definisce il regista Ermanno Olmi in questa intervista. E spiega perché la quotidianità non ha nulla di banale: «Le cose importanti nella vita si trasmettono da persona a persona. La nostra società produce tante occasioni d’incontro, ma a patto che quegli incontri non avvengano mai»


di Stefano Maria paci


Ermanno Olmi

Ermanno Olmi

Ha appena compiuto 70 anni, questo poetico maestro del cinema italiano. Ma anche se il 24 luglio non ha festeggiato il suo compleanno stringendo il Leone d’oro di Cannes, non sembra dispiaciuto. «Bello il film di Nanni Moretti» dice pacato. «Un film raro, che parla di cose importanti». L’unico rimpianto, forse, per quel Leone mancato, è dovuto al fatto che, così, meno persone hanno visto la sua più recente fatica, Il mestiere delle armi, che racconta gli ultimi giorni di vita di Giovanni dalle Bande Nere. «Ho fatto questo film perché mi incuriosiva capire come si avvicinava alla morte un giovane di cinquecento anni fa che aveva tutto: successo, gloria, l’amore delle donne. Oggi tantissimi giovani, quelli che rischiano le stragi del sabato sera e praticano gli sport estremi, che guidano contromano e giocano con la droga, quei giovani che hanno eletto Senna e Schumacher a loro eroi, spesso muoiono con un atteggiamento di disprezzo per la vita talmente forte da sfiorare la sfrontatezza, come se la vita non avesse più ragioni valide per essere apprezzata». Ermanno Olmi non porta l’orologio, e nella vita, come nei suoi film, sembra prendersi tutto il tempo che serve per raccontare le cose. Parla con voce tranquilla, inframmezzando le frasi con lunghe pause di riflessione, come se per lui, in una civiltà invasa dalle chiacchiere, le parole avessero ancora un peso individuabile. «Come è nato questo film? I miei film sono come alberi: piccoli misteri, tenaci curiosità che mi crescono dentro fino al punto di volerli condividere con gli altri. Io non ho mai considerato il cinema più importante della mia vita: per me è solo un’eccellente opportunità per stare assieme agli altri. È come quando si invita qualcuno a pranzo: se ci si tiene, si fa il possibile per cucinare buoni piatti. Così io cerco di cucinare buoni film».

Olmi, lei nel 1978 ha vinto la Palma d’oro a Cannes con L’albero degli zoccoli. Nel 1987 il Leone d’oro a Venezia con La leggenda del santo bevitore. Lei viene spesso indicato come esempio di regista cattolico. Eppure Liliana Cavani ha recentemente detto che non esiste un regista cattolico, che quella definizione è sbagliata. Lei cosa ne pensa?
ERMANNO OLMI: Ha perfettamente ragione la Cavani. Il cattolicesimo non è un’etichetta da apporre sui propri abiti. Non può esserci un regista “cattolico”, come non può esserci un regista “politico”. Sarebbe come avere soluzioni preconfezionate da proporre agli altri. La via dell’autore di cinema è invece la via della poesia, una strada in qualche modo religiosa che conduce verso un risultato finale “da paradiso”.
Una scena de Il mestiere delle armi, il film di Olmi presentato all’ultimo Festival di Cannes

Una scena de Il mestiere delle armi, il film di Olmi presentato all’ultimo Festival di Cannes

Spesso i suoi film hanno affrontato temi dichiaratamente religiosi. Non ha mai avuto la tentazione di fare un film su Gesù? Molti suoi colleghi lo hanno fatto.
OLMI: Sì, la tentazione l’ho avuta. A trattenermi non è stata la mancanza di coraggio, ma un forte senso di inadeguatezza.
Dia un voto o un giudizio a due film incentrati sulla vita di Cristo: Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini e il Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli.
OLMI: Pasolini e Zeffirelli hanno percorso strade completamente diverse, anche se entrambi avevano un autentico sentimento cristiano, nel senso che si sono posti al fianco di Cristo nel fare il loro lavoro. Se penso al Gesù di Zeffirelli mi viene in mente una di quelle sfere di cristallo nelle quali si vede il Calvario con la neve; se penso alla figura di Cristo raccontata da Pasolini vedo una croce di legno rimediata con grande povertà. Ma non si può giudicare la verità di una via dal punto di vista formale, se il sentimento con cui si percorre questa via è un sentimento sincero.
Anni fa lei ha realizzato un film su Giovanni XXIII dal titolo E venne un uomo. Durante il Giubileo del 2000 ha firmato la regia delle cerimonie di apertura e chiusura dell’Anno Santo. Quali sono, a suo parere, le somiglianze e le differenze tra Roncalli e Wojtyla?
OLMI: È bello che ricorra il nome di Giovanni anche nell’attuale Papa. Direi che Giovanni XXIII, come un umile prete di campagna, ha messo in moto il cambiamento del pianeta, che la mia generazione aveva graniticamente consolidato in due blocchi opposti. Ha smosso i grandi capi di Stato, ma soprattutto ha smosso l’umore del mondo. Giovanni Paolo II sta portando avanti questo cammino in un contesto diverso da quello di allora, con situazioni così nuove e difficili da sembrare quasi insormontabili. Mentre papa Giovanni aveva di fronte un orizzonte disposto alla pace, il nostro orizzonte sembra carico di nubi, di violenze, di rancori, di rivalità anche in quel profondo quotidiano in cui affondano le radici le forme di violenza più vasta.
Olmi, lei in pratica ha aperto e chiuso la porta del Giubileo insieme a Giovanni Paolo II. Insolito, per un regista, rubare il mestiere a un Papa...
OLMI: Diciamo che io gli ho fatto da chierichetto. Papa Wojtyla è un tale protagonista che nessun regista potrebbe in qualche modo governarlo per indirizzarlo a un proprio progetto. Chi, come me, si accosta come mediatore a questi grandi eventi non fa altro che riferire ciò che gli capita sotto lo sguardo facendosi plagiare dalla realtà più che plagiare la realtà. Proprio il contrario di quello che fa normalmente un regista. In questo caso, io sono stato un testimone, che ha cercato di riferire fedelmente quello che vedeva e provava.
Cosa vuol dire per lei essere cristiano?
OLMI: Ho timore e tremore a definirmi così. Essere cristiano, prendere sul serio quello in cui si crede, è difficile e impegnativo. Preferisco definirmi un “aspirante cristiano”.
Siamo entrati nel terzo millennio cristiano. Quali pensa siano oggi i veri pericoli che corre il cattolicesimo nel mondo contemporaneo?
OLMI: Quello di essere contento e appagato dall’influsso che crede di avere nel mondo. Di diventare una specie di forza politica. Rischia di diventare un grosso limite, questo, per la Chiesa.
E quali sono le maggiori speranze per il cattolicesimo? Dove le vede?
OLMI: In quel profondo quotidiano dove la speranza ha percorsi non facili da scorgere. Le società avanzate producono molte occasioni d’incontro, a patto che quegli incontri non avvengano mai. La superficialità del nostro sguardo a volte non coglie che accanto a noi, magari nel nostro condominio, c’è qualcuno che crede in Dio e che può consolidare la nostra fede. E aiutarci nella nostra vita di tutti i giorni. Le cose importanti, nella vita, si trasmettono da persona a persona. La quotidianità non ha nulla di banale, se si ha un senso per viverla.


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