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SANTI PIETRO E PAOLO
tratto dal n. 06 - 2001

L’apostolo Pietro tradusse il Libro dei salmi?

La nuova Sion dove confluiscono ebrei e pagani



di Tommaso Federici



Una scoperta su Pietro, che è poco chiamare sensazionale, avvenne alcuni anni or sono. Uno studioso di grande valore, il biblista Antonio Ammassari, ebbe la fortuna di studiare un codice antico, del secolo XII, nel quale individuò un testo ben noto ai critici, ma mai esaminato a fondo. L’imponente, massiccia pubblicazione risultò di 3 volumi, e si intitola: Il Salterio latino di Pietro. I. Introduzione e commento del Salterio latino tradotto dall’ebraico da Pietro, terzo nell’ordine del Salterio quadruplo secondo il Codice latino cassinese 557; II. Archivio di Montecassino – Codice cassinese latino 557 (pp. 173-260), riproduzione fototipica; III. Trascrizione e ricostruzione del testo del Salterio latino terzo nell’ordine del Salterio quadruplo secondo il Codice cassinese latino 557, Roma 1987. Lo scrivente ne dette ampia recensione su L’Osservatore Romano del 15 luglio 1987, con l’augurio che gli studiosi prendessero conoscenza dell’opera, e ne sviluppassero anche le straordinarie implicazioni che essa comporta. Si era creduto che quello studio facesse epoca tra i competenti. In realtà si ebbero solo rare, poco attente e poco concludenti recensioni, e non da parte di specialisti, che nel caso avrebbero dovuto essere storici, paleografi, diplomatici, filologi, biblisti, in particolare competenti del Salterio, teologi. Trattando della festa di Pietro e Paolo si ha l’occasione di riproporre qui qualche nota di un affare di straordinaria importanza.
E anzitutto, da dove risulta che l’apostolo Pietro tradusse il Salterio, ossia il Libro dei salmi? Prima di affermarlo, Antonio Ammassari, che recensisce le numerose citazioni e allusioni al Salterio che Pietro avanza nelle sue due epistole, in realtà esamina prima il testo e i dati che provengono dal suo contesto archeologico, storico e letterario con acribia scientifica e con un’acutezza incredibile, e alla fine presenta l’ipotesi come possibile, e insieme come ben fondata. Qui di seguito si cerca di portarne alcune linee.
La prima questione che si deve porre è la venuta dell’ebreo Pietro a Roma. Eusebio di Cesarea nel suo Chronicon attesta l’antica tradizione secondo cui Pietro avrebbe dimorato a Roma 25 anni, dato ripreso da Girolamo, De viris illustribus 1, e più tardivamente dal Liber Pontificalis 20,2,30,118. Nella sua Storia ecclesiastica 2,15, il medesimo Eusebio attesta che la predicazione di Pietro a Roma, come era da prevedersi, fu ostacolata e combattuta da diverse parti, però essa ebbe anche un largo successo. E non solo per la diffusione dell’Evangelo, ma anche per una produzione letteraria come quella dell’Evangelo di Marco, che, scritto dopo Matteo e Luca e seguendo lo schema di Matteo, riportava il contenuto di quella predicazione. Si sa con maggiore precisione da fonti della fine del II secolo che, braccato dal re Erode (At 12, 1-19) Pietro era passato lungo il litorale fenicio e siro, fondando Chiese. Poi era giunto a Roma verso l’anno 52 o 53, sempre sfuggendo alla polizia romana, vivendo in clandestinità ma con un’incessante predicazione. Finché fu denunciato dai suoi confratelli e testimoniò il suo Signore con la sua vita, secondo la profezia divina (Gvæ21, 18-19). Dell’attività letteraria di Pietro restano le due epistole, che sono da considerare autentiche, nonostante le negazioni dell’ipercriticismo, e concordanti con la teologia paolina nel fondamento e nei temi principali.
A Roma Pietro trovò una comunità cristiana, sorta dalla predicazione di missionari ebrei cristiani inviati senza dubbio dalla prima ora dalla Chiesa giudeo-cristiana di Gerusalemme. E comunità già formata, se Paolo, che nell’inverno dell’anno 57 le indirizza l’epistola più importante, afferma che la loro fede è già divulgata e nota in tutto il mondo (Rm 1, 8). Inoltre, secondo l’elenco dei ministeri di tale comunità, accompagnati da carismi, Paolo annovera anche un presidente della celebrazione comunitaria, i maestri e i diaconi (Rm 12, 7-8). I cristiani di Roma provenivano in parte dall’ebraismo, che all’inizio fu la maggioranza anche spirituale, e i fedeli di questo gruppo, come rilevano diversi studi recenti, già possedevano con ogni probabilità antichissime versioni latine delle Scritture dell’Antico Testamento, integrali o parziali che fossero. I cristiani di Roma poi in parte provenivano dal paganesimo sia greco sia romano. Il che provocava qualche tensione all’interno, e ovviamente una grande tensione con l’ambiente pagano, che già mal tollerava gli ebrei, protetti un tempo dal divino Cesare (ma vedi poi contro di essi l’avversità intellettuale di un Cicerone, o il sarcasmo grossolano di Orazio).
Pietro comprese bene questa situazione. Egli partiva da quanto aveva imparato dal Signore, avendo ascoltato da Lui che era stato inviato solo alle pecore perdute della casa d’Israele (Mt 15, 24), avendolo visto digiunare nella Cena per amore del suo popolo diletto (lo riporta anche un’antichissima tradizione del I secolo), e sapendo con Paolo che si era fatto umile «diacono della circoncisione» (Rm 15, 8). I privilegi divini d’Israele erano intangibili (Rm 9, 1-4), poiché gli Ebrei sono e restano «i diletti di Dio a causa dei padri» (Abramo, Isacco, Giacobbe), in quanto «i doni e la vocazione di Dio sono senza pentimento» (Rm 11, 28-29).
Insieme, Pietro scriveva alle tribù d’Israele disperse, bensì adesso, redente dal sangue di Gesù Cristo e quindi santificate dallo Spirito Santo, dal Padre richiamate all’unità dell’Israele messianico (1 Pt 1, 1-2). A Roma aveva trovato antichi gruppi di ebrei diventati fedeli di Cristo.
Infine, Pietro e i dodici erano stati inviati dal Signore risorto «verso tutte le nazioni» pagane per battezzarle nel nome unico del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, facendole discepole di Cristo (Mt 28, 19), annunciando l’Evangelo all’intera creazione (Mc 16, 15), predicando, rivestiti di Spirito Santo dall’alto, la conversione del cuore e la remissione dei peccati a tutte le nazioni, a cominciare però da Gerusalemme (Lc 24, 47-49), nel dono della pace divina messianica e nell’investitura del soffio onnipotente dello Spirito Santo (Gv 20, 19-23). Pietro a Roma trovò anche i vecchi pagani diventati cristiani. L’Israele restato fedele all’Antico Testamento, l’Israele messianico che aveva aderito a Cristo Signore, i pagani che erano entrati nell’Israele messianico: Pietro ebbe a che fare con queste tre componenti sulle quali era stata effusa la divina redenzione, con due esiti diversi.
Antonio Ammassari, eccezionale conoscitore delle fonti, annota i paralleli della letteratura giudeo-cristiana di originale lingua latina, a cominciare da quella solo di qualche decennio posteriore al Salterio di Pietro, e fino alla metà del secolo III. Vengono così in questione un’antichissima versione della I epistola di Clemente Romano Ai Corinzi (anno 96), il V libro di Esra, il Pastore di Erma, l’anonimo Adversus Iudaeos, il De montibus Sina et Sion, il De centesima, sexagesima trigesima, la Passio sanctae Perpetuae et Felicitae, il poema Carmen de duobus populis di Commodiano, fino al De Trinitate di Novaziano. Risulta l’ambiente storico e culturale latino in cui visse Pietro a Roma. E inoltre Pietro a Roma trovò, come si è accennato, versioni più o meno complete, più o meno letterali dell’Antico Testamento. In tale contesto sorge il Salterio di Pietro.
Qui, annota Antonio Ammassari, si dimostra la calda tenerezza di Pietro, contagiato dalla carità del Signore. Da una parte egli conserva l’assoluto rispetto per l’Israele di Dio, il figlio primogenito, il diletto del Signore (vedi Es 4,22-23). Dall’altra l’Israele messianico radunato intorno al Signore per la grazia dello Spirito del Signore, è assunto nella sua cura appassionata, composto come è di pietre viventi che vivono per lo Spirito Santo, che aderiscono alla Pietra vivente che è Cristo Signore per formare con Lui il Tempio da dove al Padre mediante il Figlio nello Spirito Santo salgono i sacrifici graditi (1 Pt 2, 1-10).
Nel Salterio di Pietro tutto questo risuona con varie note. La misericordia divina per l’Israele radunato, estesa anche alle nazioni; la nuova Sion a cui confluiscono ebrei e pagani; lo stato di persecuzione e di tribolazione dei fedeli poveri e umili e senza nome ma conosciuti dal Signore; l’attesa della pace divina già donata e adesso da conseguire; la speranza messianica che già compare all’orizzonte. E l’ansia dell’autore di annunciare il nome divino alle nazioni della terra, chiamandole alla preghiera, e il perdono degli erranti e dei peccatori chiamati alla speranza, la coscienza che ormai esisteva il «popolo delle nazioni [pagane]» accanto all’antico «pio Israele» di Dio. L’autore del Salterio di Pietro opera sul Salterio ebraico. Abolisce i titoli dei salmi, considerandoli ormai preghiera di Cristo e dei suoi fedeli; traduce alla stretta lettera in latino, conservando molti ebraismi e anche termini ebraici non tradotti ma solo traslitterati; opera insieme in qualche versetto piccoli spostamenti di espressioni, rendendole significanti; di alcuni versetti dà un’interpretazione midrascica (ossia, al modo ebraico, simbolica e edificante); insiste a lungo sulla Pietra divina, come spesso è chiamato il Signore come luogo dell’unico rifugio, non senza alludere a Kepa, la Pietra della fede su cui è fondata la Chiesa. E insieme enuncia l’unicità di Dio nella triplice distinzione delle Persone, diversificandole, ad esempio attribuendo al Padre il titolo latino di gloria, e al Figlio il titolo latino parallelo di claritas, che significa egualmente gloria; chiamando Lux il Padre e analogamente Lumen il Figlio. Prima della crisi ariana dei secoli IV e V, queste forme di espressione sono perfettamente ortodosse, non rivelano il minimo senso di pericoloso subordinazianesimo.
Questo Codice cassinese latino 557 che contiene il Salterio di Pietro non era sconosciuto all’antichità. Girolamo per polemica contro gli ebrei letteralisti si occupò di due traduzioni latine del Salterio, anzitutto del Psalterium Romae, sulla base della versione greca dei Settanta, diventato il Psalterium gallicanum` poi entrato nonostante tutto nella Volgata; poi di una condotta direttamente sull’ebraico, il Liber Psalmorum iuxta hebraicum translatum. Ma usò anche un canovaccio, che non nominò ma che alluse nella sua prefazione al Salterio secondo l’ebraico, inviata all’amico Sofronio, scontento perché quel testo procedeva secondo lo stretto letteralismo, aboliva i titoli dei Salmi, conservava la distinzione ebraica tradizionale in 5 libri. Quel testo era precisamente quello che Antonio Ammassari ha identificato come il Salterio di Pietro.
Il Codice 557 aveva così riunito felicemente, non a caso, un Salterio quadruplo, ossia 4 versioni del medesimo testo, in quest’ordine: due Salteri di Girolamo, ossia quello Iuxta Hebraeos e il Gallicano Iuxta Septuaginta, in terzo luogo il Salterio di Pietro, sempre Iuxta Hebraeos, e infine il Psalterium Romanum.
L’importanza del Salterio di Pietro era stata riconosciuta già dal 1800 da diversi illustri studiosi. Lo stesso Eberhard Nestle, da cui discende il testo critico tra i più usati finora, aveva desiderato che gli studiosi ne tenessero conto nell’apparato critico moderno. Fatto mai avvenuto.
Questo era anche il desiderio di Antonio Ammassari, e non solo di lui. Anche se con i tempi grami per la cultura teologica autentica (non la sempre deviante sistematica moderna), è pressoché inutile lanciare appelli a conquiste ricche di senso.
T.F.


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