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REPORTAGE DALLA TERRA SANTA
tratto dal n. 04/05 - 2001

La Terra Santa come il Libano?


Intervista con Frans Bouwen, missionario dei Padri bianchi: «Mi sembra che Sharon non abbia imparato niente dalla guerra nel Paese dei cedri che lui stesso impose come ministro della Difesa. Fu una catastrofe per tutti. L’intifada di adesso non è più un movimento popolare, come fu la prima. Adesso il ruolo principale lo giocano le forze di polizia e l’esercito»


di Gianni Valente


Le cronache quotidiane aggiornano di continuo il bollettino della guerra “a bassa intensità” che si combatte in Terra Santa. Nello stillicidio di attentati e rappresaglie, si rischia di dimenticare i fattori nuovi e antichi che hanno scatenato questa nuova escalation.
Il belga Frans Bouwen, missionario dei Padri bianchi, vive e lavora da 32 anni a Gerusalemme. Impegnato nel dialogo ecumenico, dal suo ufficio nel convento di Sant’Anna dirige la rivista Proche Orient Chrétien ed è anche responsabile della Commissione di giustizia e pace di Gerusalemme. La sua memoria storica e la sua attitudine analitica sono un buon antidoto per non perdere i contorni reali del tempo di sventura che è tornato ad affliggere i popoli di queste parti.

Lei segue da tempo i rapporti tra le Chiese cristiane in Terra Santa. Quali cambiamenti ha registrato in questo campo negli ultimi anni?
FRANS BOUWEN: Dopo la guerra del Golfo, un passaggio importante c’è stato quando i capi delle 13 Chiese cristiane tradizionali presenti in Terra Santa hanno sottoscritto il documento del novembre ’94 sul significato di Gerusalemme per cristiani, in cui si definivano anche i diritti delle comunità e delle Chiese cristiane. Dopo secoli di conflitti tra cristiani per il controllo dei luoghi santi, quel documento segnò un oggettivo passo avanti. Da quel momento i leader cristiani iniziarono anche delle riunioni periodiche, che si tengono tre o quattro volte all’anno. Parlano dei problemi comuni soprattutto nei rapporti con le autorità civili della regione, e promuovono messaggi comuni riguardo alla situazione di conflitto. Ma non hanno ancora potuto affrontare i problemi che pure esistono nei rapporti tra le Chiese. Il comitato comune per la preparazione del Giubileo ha potuto organizzare la bella inaugurazione solenne dell’Anno Santo a Betlemme, il 4 dicembre 1999. Ma poi, soprattutto la malattia del patriarca greco-ortodosso Diodoros, morto alla fine dell’anno scorso, ha complicato la programmazione di nuove iniziative impegnative.
La visita del Papa, lo scorso anno, ha avuto conseguenze sul piano ecumenico?
BOUWEN: L’ecumenismo era stato il punto focale della visita di Paolo VI, nel ’64. L’immagine che rimane di quella visita è l’abbraccio tra il Papa e il patriarca Atenagora. Mentre nella visita di Giovanni Paolo II, l’immagine che resta è quella del Papa al Muro del pianto. L’accento è stato posto sul rapporto con gli ebrei. Inoltre, a Gerusalemme, la gente non ha potuto avvicinare il Papa. È stata una visita blindata. L’apparato di sicurezza era così soffocante che la gente non poteva neanche uscire per strada. Il Papa, in quei giorni, anche la maggioranza dei cristiani di Gerusalemme lo ha visto solo in televisione.
Rispetto alla situazione politica si registrano posizioni diverse all’interno delle diverse Chiese?
BOUWEN: È facile constatare la differenza tra gli interventi del patriarca latino Michel Sabbah e le dichiarazioni comuni sottoscritte insieme dalle Chiese. Il patriarca e il suo clero, essendo palestinesi, sono molto coinvolti dagli sviluppi del conflitto. Gli altri gerarchi, e soprattutto quelli ortodossi che sono tutti greci, assumono spesso un’attitudine più prudente, da spettatori. Dunque i documenti comuni sono di solito più generici e sfumati.
Come vengono accolti qui gli interventi del Papa sulle vicende mediorientali?
BOUWEN: Qui, negli ambienti cristiani palestinesi, è stato molto apprezzato il discorso papale al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, in cui si è insistito sul rispetto del diritto internazionale. Mentre molte dichiarazioni appaiono così preoccupate di trovare una posizione diplomatica di equilibrio che alla fine non dicono più niente, secondo il sentimento dei cristiani palestinesi.
Secondo lei gli interventi della Santa Sede hanno un profilo più modesto, in confronto a stagioni passate…
BOUWEN: Ultimamente l’impressione è che il Vaticano ha voluto tenersi sulle generali, per lasciare campo aperto alla ripresa dei negoziati senza dare l’impressione di voler intromettersi a tutti i costi.
Anche la posizione tradizionale vaticana sullo statuto internazionale di Gerusalemme sembra un po’ accantonata…
BOUWEN: Gli interventi su questo tema si sono rarefatti. Se ne è accennato in occasione del summit di Camp David. Forse si è preso atto che insistere sulle idee coltivate dalla Santa Sede su questo punto non può conseguire, al momento, alcun risultato concreto, nell’attuale assetto di potere internazionale.
Quando nei negoziati si è toccata la questione di Gerusalemme, il conflitto è riesploso…
BOUWEN: Il fatto che a Camp David l’attenzione si sia concentrata sulla sovranità contesa di Gerusalemme, pensando che la soluzione di questo problema avrebbe risolto anche gli altri, è stato un errore. Il nodo di Gerusalemme è il più spinoso, e proprio per questo affrontarlo quando il processo di pace non si è ancora consolidato significa riportare tutto in alto mare. Non si può partire da lì. Non si può tagliare Gerusalemme a pezzi. E la sovranità di una città può essere condivisa solo se c’è prima un “ombrello” di concordia tra le due parti, che le coinvolge entrambe, in un clima di fiducia. Adesso la fiducia è distrutta. Aver tirato fuori il piani di spartizione della città, preparati da gruppi informali senza mandato ufficiale, è stato un azzardo disastroso.
È stato questo l’unico motivo del fallimento?
BOUWEN: A Camp David, Clinton ha forzato la mano perché voleva ottenere un risultato spettacolare prima della fine del suo mandato. Così facendo, vedendo le cose solo in un’ottica personale, per il desiderio di passare alla storia, ha preteso troppo, ponendo le due parti in una posizione che nessuna delle due poteva accettare. Così, siamo tornati indietro di molti anni. Da tutte e due le parti gli estremisti hanno guadagnato peso. Poi, toccando il nervo di Gerusalemme, il fattore religioso è tornato in primo piano. In questa regione, quando la religione diventa il combustibile dei conflitti, accadono disastri irreparabili. Come dimostrano le gesta dei kamikaze che compiono stragi in nome di Allah.
La Siria è rimasta il convitato di pietra al processo di pace.

BOUWEN: Certamente l’attacco israeliano del 16 aprile su una postazione radar siriana nel Libano non ha aiutato il giovane presidente siriano a assumere un ruolo positivo per la soluzione del conflitto. Lui è nuovo, deve ancora guadagnare autorevolezza e potere sul piano interno, e dopo quell’attacco sarebbe stato in ogni caso impossibile per lui parlare di pace ai suoi apparati. Mi sembra che Sharon non abbia imparato niente dalla guerra del Libano, che lui stesso impose come ministro della Difesa, forzando la mano a Begin. Fu una catastrofe per Israele e per il Libano. Adesso sta facendo esattamente gli stessi errori. Se Arafat decidesse di sottostare ai diktat di Sharon, perderebbe ogni credibilità e la parola in campo palestinese passerebbe totalmente agli estremisti.
Nel circuito mediatico internazionale la responsabilità del conflitto viene addossata agli attacchi dei palestinesi…
BOUWEN: I terribili attentati contro i civili destano la giusta e immediata riprovazione in tutto il mondo. Ma si dimentica la prima violenza, che è l’occupazione militare, e la frustrazione del popolo palestinese, che vede che dopo tanti anni di negoziato non si arriva praticamente a niente. Anzi, la vita quotidiana è molto peggiorata. Se i palestinesi hanno rifiutato l’accordo a Camp David non è soltanto per la questione Gerusalemme, ma anche per le proposte inaccettabili sulla restituzione dei territori occupati. Prevedevano la presenza israeliana sul Giordano e sul Mar Morto, con un corridoio tra Gerusalemme e gli insediamenti israeliani su tali confini. Il territorio palestinese sarebbe rimasto diviso in due parti, con il passaggio da nord a sud interamente sotto controllo israeliano. Insomma, era solo un modo camuffato per continuare l’occupazione. Questo i palestinesi non l’accetteranno mai. E Israele stesso continua ad autodistruggere la sua anima, se rimane forza occupante di un altro popolo.
Come vivono i palestinesi cristiani questa intifada?
BOUWEN: È una faccenda delicata. Non dimentichiamo che questa viene talvolta definita l’intifada di al-Aqsa, perché è cominciata dagli scontri dopo la passeggiata provocatoria di Sharon sulla Spianata delle moschee. Quella è stata la scintilla che ha acceso il fuoco. Fin dall’inizio, tale intifada ha assunto un colore religioso, in senso musulmano. E così i cristiani, pur simpatetici, all’inizio erano rimasti un po’ in disparte. Subendo addirittura gli attacchi dei fondamentalisti per il loro atteggiamento tradizionalmente più mite e non violento. Ci hanno pensato le bombe sui villaggi cristiani di Beit Jala e Beit Sahour a far aumentare il loro coinvolgimento. Ma per la maggioranza del popolo palestinese l’intifada comporta prima di tutto un aumento delle sofferenze e delle miserie quotidiane. L’intifada di adesso non è più un movimento popolare, come fu la prima. Adesso il ruolo principale lo giocano le forze di polizia, le forze armate e, parallelamente, i gruppi organizzati di estremisti. È di fatto una guerra tra forze armate estremamente ineguali.
E gli arabi israeliani? Molti di loro sembrano aver accettato il loro status di cittadini d’Israele.
BOUWEN: Non direi. Certo, pochi di loro lascerebbero Israele, dove sono nati, per andare a vivere in uno Stato palestinese. Ma tra i primi morti palestinesi di questa intifada, in autunno, ci sono stati tredici militanti musulmani di Galilea. C’è una crescente frustrazione della minoranza araba. Si sentono cittadini di serie b. È una crisi d’identità che spesso cerca rifugio nel rafforzamento dell’identità religiosa. Si spiega in parte anche così la crescita dell’estremismo islamico.


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