Home > Archivio > 04/05 - 2001 > «Anche gli assassini chiedono perdono»
AFRICA
tratto dal n. 04/05 - 2001

SIERRA LEONE. Testimonianze dal continente in guerra

«Anche gli assassini chiedono perdono»


Due missionari sono stati per tre mesi nelle mani dei “ribelli” rivoluzionari della Sierra Leone, celebri per le loro atrocità. Per la prima volta raccontano di quei giorni, e di quando…


di Giovanni Cubeddu


Quando sono stati rapiti facevano missione a Pamelap, nella Guinea meridionale al confine con la Sierra Leone, e prima che la situazione diventasse nuovamente pericolosa erano soliti portare i sacramenti alle comunità di cristiani nel nord della Sierra Leone attraversando i territori in mano ai “ribelli”. Poi, con il riaccendersi improvviso della guerra, gli stessi “ribelli” che prima consentivano loro libertà di movimento, li hanno sequestrati, per tre lunghi mesi, dal 5 settembre al 4 dicembre del 2000. Si sono salvati dal rischio di una esecuzione sommaria fuggendo, senza sfidare la crudeltà dei sequestratori né cercando il martirio. Non hanno mai voluto raccontare i mesi di prigionia ed è questa la prima volta in cui, con grande pudore e prudenza, ne parlano pubblicamente.
I protagonisti loro malgrado di questa avventura si chiamano Franco Manganello e Vittorio Mosele, e sono due missionari saveriani di 62 e 65 anni di età. In due totalizzano 57 anni di missione in questo piccolo Paese dell’Africa occidentale chiamato Sierra Leone. Grande un terzo dell’Italia, ma con risorse minerarie e naturali ingentissime, la Sierra Leone avrebbe potuto essere un anticipo di paradiso, perché la popolazione è gioviale e attiva, vi sono due tribù principali (i Temne e i Mende) che non si sono mai affrontate in conflitti etnici, e la convivenza tra la stragrande maggioranza musulmana (60 per cento), le credenze tradizionali africane (30 per cento) e i cristiani (10 per cento) non è stata mai incrinata da guerre di religione. Ma è proprio di questo staterello che le cronache di fine millennio hanno descritto le scene di violenza più abbietta e registrato con paura quanto può essere profonda la crudeltà di un cuore tenebroso. Così è stato quando i cosiddetti “ribelli” del Revolutionary united front (Ruf), che dal 1991 si oppongono militarmente al governo centrale, hanno iniziato sistematicamente ad usare il machete sulla popolazione inerme pur di spargere il terrore, o ebbri di droghe e alcool si sono lanciati nei saccheggi inventando sempre nuove torture su quei poveri concittadini che spogliavano del necessario e della vita. Oltre duecentomila morti dal 1991 a oggi, diecimila mutilati, due terzi della popolazione costretta a fuggire da casa. Per non dire dei diecimila bambini soldati reclutati dai ribelli dopo averli strappati con violenza alle famiglie.
Tutto per avere il potere. Che lì coincide con il controllo delle zone settentrionali, dove i diamanti si trovano con stupefacente facilità, davvero a mani nude. Zone che i ribelli hanno ovviamente occupato da anni.
Occorrerebbe del tempo per raccontare del triste gioco delle parti di tutti verso tutti, di un governo che non è certo esente dalle colpe di inefficienza e corruzione che i ribelli gli rinfacciano; degli interessi geopolitici della Nigeria che in fondo sembra non aver mai smesso di avere rapporti con i “ribelli” pur armando l’Ecomog (una specie di Nato dell’Africa occidentale) che li doveva cacciare dal Paese; dell’assenza di un intervento deciso dell’Onu che pure ha formalmente inviato oltre diecimila uomini in una finora imbelle funzione di peacekeeping; dell’ipocrisia delle multinazionali (sudafricane) dei diamanti che continuano ad acquistare illecitamente dai “ribelli” quelle gemme color sangue necessarie per acquistare armi, che, si dice, all’inizio fornì Gheddafi. Infine del distacco col quale Stati Uniti e Gran Bretagna (di cui la Sierra Leone è per giunta un ex protettorato) hanno inseguito le loro strategie posponendo la salvezza fisica e morale di un popolo. E più di qualcuno ricorda quando, a ridosso dell’ennesimo accordo di pace fallito (quello di Lomé del luglio ’99), l’inviato personale di Clinton Jesse Jackson promuoveva l’immagine del capo dei “ribelli” Foday Sankoh come statista e ingiungeva ai sierraleonesi «è lui il vostro Mandela».
Padre Manganello e padre Mosele queste cose le sanno bene, ma non le diranno, per premura di complicare con una parola male interpretata la già precaria situazione politica generale. E per evitare nuovi dolori alla Chiesa locale, che ha nel vescovo di Makeni Giorgio Biguzzi il personaggio più noto che dal 1950 è lì presente anche con i volti e le braccia dei missionari saveriani. Perciò sono loro stessi a portare il discorso su ciò che in fondo più interessa di quei giorni di prigionia, vissuti come un’occasione nuova di missione, che, si vede, li ha toccati. Dice padre Mosele: «Anche nella condizione di sequestrati potevamo dare testimonianza. Ad un certo punto siamo dovuti fuggire, e non è stato per fare gli eroi, ma perché il rischio della vita era ormai altissimo. Davvero, avremmo potuto restare là non tre mesi ma tre anni, senza essere eroi neanche in questo: semplicemente la missione non ci veniva impedita, eravamo fra la gente, liberi di portare anche i sacramenti e potevamo predicare. Quella gente nel fondo del cuore aveva bisogno di noi.
I bombardamenti governativi contro i ribelli e le loro atrocità in ritorsione erano ormai all’ordine del giorno. Noi eravamo rispettati dai ribelli perché non ci consideravano parte in causa, ma sapevamo bene che continuando gli attacchi aerei dalla Guinea e divenendo le circostanze caotiche e pericolose per loro, la situazione diventava molto insicura anche per noi. È già successo, quando presero dei missionari nel gennaio 1999: li portarono via con la forza e non solo non li rispettarono, ma costretti alla fuga dalle forze nigeriane, videro nei religiosi un ostacolo, e allora alcuni li hanno uccisi, altri li hanno lasciati solo perché creduti morti dalle botte. All’arcivescovo di Freetown monsignor Ganda, in altra occasione capitò di essere torturato. Ma è colpa della guerra, perché contro la Chiesa qui non c’è mai stata persecuzione».
Continua padre Manganello: «Quei ribelli, che erano cristiani, venivano a messa, nonostante noi, per la verità, non fossimo mai stati con la bocca chiusa: “Gesù sulla croce non ha un coltellaccio o un mitra” dicevamo. Loro stavano con la testa bassa. Ma qualcuno dopo la messa veniva a fare la sua rimostranza: “Hai ragione, padre, è vero; però non dirlo solo a noi, dillo anche a quelli dell’altra parte del cosiddetto governo. Se dobbiamo mettere giù le armi le mettano giù anche loro!”. Comunque, al di là delle nostre prediche belle o brutte, venivano alla preghiera comune; ho celebrato dei funerali per loro, ho battezzato dei loro bambini. E al mattino, anche i ribelli pregavano. Credo che più di uno tra loro vorrebbe il dialogo col governo.
Siamo stati trattati bene. Più di una volta ci hanno detto: “Voi padri siete liberi di andare e di venire, perché noi vi vediamo come mediatori”. A volte i ribelli ci davano dei messaggi perché capissimo meglio le loro richieste, e li passassimo al governo in modo da avere una risposta. C’era una ricerca di dialogo, allentatasi lo scorso maggio quando il Ruf si permise di sequestrare 500 caschi blu, gesto che ha significato il via a tutta l’ultima fase di guerra, fino ad oggi. Tra loro stessi c’era chi dissentiva e diceva che il rapimento era stato un passo sbagliato che gli avrebbe alienato definitivamente la fiducia della gente. Difatti alcune volte ci lasciavano uscire dalla prigionia perché noi potessimo essere un ponte di dialogo con l’esterno. Era quello che sempre chiedevamo durante i tre mesi in loro compagnia: “Lasciateci liberi non di andare via, ma di andare e tornare, perché vogliamo lavorare per la pace”. Così, quando siamo dovuti fuggire, abbiamo lasciato lì degli scritti in cui dicevamo che noi, una volta lontani da loro, non avremmo intralciato neanche il più piccolo sforzo per la pace. Anzi, se in questa prospettiva potevamo favorirli con qualsiasi gesto, l’avremmo fatto. Abbiamo lasciato delle lettere in chiesa, e sappiamo che dopo loro le hanno prese e lette.
Le lettere le scrivevo io spiegando che noi mai avevamo lottato contro di loro, che li portavamo nel cuore come uomini. “Noi non abbiamo altro interesse che favorire la pace, pensando che anche voi la vogliate” scrivevo».
I ribelli. Non sembra quasi che i due padri parlino delle stesse persone che tutto il mondo ha visto uccidere col machete, mutilare bambini, riempire fosse comuni. Neanche in questo caso eclatante si può dunque generalizzare, estendere ad una generazione perduta una colpa? O c’è qualcosa che ancora non sappiamo di questa gente pazzoide e crudele? Padre Manganello ci tiene a spiegare: «Tempo addietro io e padre Vittorio interrogammo un padre africano nostro amico, padre Sheku Kaneh. “Chi è un ribelle?”. Lui ci guardò un attimo, e rispose che da tempo molta gente gli faceva la stessa domanda. Rispose così: “Bisogna vedere colui che ha il nome di ribelle quando è senza droga, sapere quando ha incominciato a drogarsi, vederlo quando l’ha smaltita e non ce l’ha più, bisogna vederlo se si è assuefatto alla droga. Ecco chi è il ribelle”. Era sempre lo stesso uomo alle prese col suo male, un uomo che tiene dentro tutto. E finì il discorso così. Ma capimmo che padre Sheku sottintendeva la possibilità del perdono».
«È vero, tra loro c’era chi rifiutava i sacramenti e chi confessatosi chiedeva l’eucarestia», dice ancora padre Mosele. «Bisogna tenere presente che i ribelli quando parlavano a noi o erano di fronte a noi si comportavano in una maniera che quasi direi dolce; quando noi non c’eravamo si comportavano in un’altra. Ma è il timore e al tempo stesso il desiderio della nostra presenza che mi parve sorprendente. Parlando con noi usavano tanta gentilezza, tanta ragionevolezza. Ma ci è capitato anche a noi di assistere alla loro cattiveria, come quando padre Franco ha salvato uno a cui stavano cavando un occhio: un poveretto che aveva preso già un coltellata in testa, tutto grondante sangue. Lo picchiavano e gli davano calci in nostra presenza. Siamo stati capaci di persuaderli e li abbiamo fermati… almeno quella volta. È tanto il male nel cuore di chi ha perso padre, madre, fratelli, sorelle, uccisi in guerra, è segnato per tutta la vita. I ribelli sono un problema molto complesso e arduo da capire, e se utilizziamo le categorie della politica e della guerra, difficilissimo da risolvere.
Noi non li abbiamo mica persuasi a cambiare vita. Ma attraverso di noi essi hanno sospettato che anche gli assassini potessero invocare Dio e chiedere l’estremo giudizio della sua misericordia».
Padre Franco e padre Vittorio attendono ora di ritornare nella loro missione, come quando iniziarono trent’anni fa.
A maggio i ribelli hanno firmato l’ennesimo accordo col governo (con il patrocinio dell’Onu), in cui promettono il disarmo a fronte del loro riconoscimento come forza politica e della reintegrazione dei loro miliziani nella vita del Paese. Per gli scettici questo è solo l’ennesimo bluff, mentre coloro che hanno a cuore le sorti del popolo sierraleonese valorizzano prudentemente anche questo spiraglio. E si capisce, padre Vittorio e padre Franco sono con questi ultimi...
Agli amici che assistevano alla partenza dei giovani saveriani per la missione, il beato fondatore Guido Maria Conforti disse un giorno di gennaio del 1907: «E voi, qui accorsi per far onorata corona a questi generosi giovani che tutto sacrificarono per la più santa delle cause, pregate il Signore che su di essi si compiano i disegni di Dio e i disegni della Chiesa; pregate per la conversione di tanti poveri infedeli; pregate per ottenere a questi cari giovani la perseveranza… Il Signore vi rimeriti ad usura di quanto avete fatto per essi, ed anche in questa vita vi conceda quel largo guiderdone che io non posso che augurarvi di cuore».


Español English Français Deutsch Português