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CICERONE
tratto dal n. 04/05 - 2001

Amici e Palazzo


L’introduzione al De amicitia di Cicerone, scritta dal nostro direttore per la rivista Il Bibliofilo: in quest’opera l’oratore più famoso di Roma sgrana un rosario di conversazioni e di massime sia sulle cause di una vera solidarietà, sia sulle ragioni che la rendono impossibile. L’amicizia, scrive l’Arpinate, è il dono più bello che gli dèi hanno fatto ai mortali. Ma è pessimista sulla possibilità che esista in politica


di Giulio Andreotti


La mia “amicizia” con Cicerone ha un’origine elettorale. Dalla Assemblea costituente al 1991 io ho rappresentato a Montecitorio Roma e la sua regione, vivendone con tutta la profondità possibile problemi, storia, aspirazioni. In questo quadro si collocano anche i miei rapporti con la città di Arpino, nella cui piazza centrale campeggiava il monumento a Caio Mario. Fui presto investito da una raccomandazione sui generis. Dovevo aiutarli a colmare una lacuna, dovuta – dicevano – all’antipatia di Mussolini verso l’altro loro grande concittadino: Marco Tullio Cicerone. Mi fu facile accertare che Mussolini non c’entrava affatto. La statua di Mario era dovuta ad un gentile omaggio del ministro dell’Educazione nazionale Pietro Fedele che aveva commissionato per questa destinazione una copia di quella che figura nella ex via dell’Impero.
Formammo un comitato per il secondo monumento che raccolse i fondi e affidò l’opera allo scultore Attilio Selva. L’inaugurazione avvenne nel 1957 ricorrendo il bimillenario della morte dell’Arpinate, ospite d’onore il presidente del Consiglio senatore Adone Zoli. Fu questi che ci invitò a non scioglierci, ma a dar vita ad un Centro studi ciceroniani che organizzasse seminari di studi specifici e pubblicasse l’opera omnia, sia nell’edizione critica sia con il testo a fronte della traduzione. Arnoldo Mondadori si assunse generosamente l’impresa, giunta ora a buon punto; mentre i Colloquia, a scadenza triennale, hanno avuto anche edizioni di grande notorietà come quella di Varsavia e quella presso la Columbia University di New York, con una stupenda prolusione del celebre Ettore Paratore, morto nei mesi scorsi.
Visto da vicino Cicerone è meno noioso dell’impressione che mi ero portato dietro dal liceo. Forse perché quel che è obbligatorio studiare non avvince. Nella mole piramidale delle opere si abbinano sempre due dei saggi: il De amicitia e il De senectute, anche se l’autore ammonisce a fondare la prima su consensi fondamentali e non sulla familiarità che può instaurarsi tra giovani compagni nel giuoco della palla o nella caccia.
Del resto molti affetti infantili si dissolvono quando si indossa la toga praetexta (maggiore età) e, se il vincolo amicale resta, non mancheranno le occasioni per infrangerlo; ad esempio l’innamoramento per la stessa ragazza, una aspirazione non realizzabile che da uno soltanto, la sete di danaro, la concorrenza per acquisire una carica pubblica.
Con tutto il rispetto per queste tesi devo invece dire che personalmente ho sperimentato che le amicizie degli anni di scuola si sono dimostrate le più inossidabili. Mentre di alcune, nate successivamente, ho dovuto poi via via verificare se il rapporto fosse puro e semplice con me ovvero con il deputato, con il ministro o con il presidente del Consiglio. Non pochi di questi riservatissimi o addirittura subcoscienti esami hanno confermato il vincolo.
Con uno stile direi da resoconto stenografico il De amicitia sgrana un rosario di conversazioni e di massime sia sulle cause di una vera solidarietà sia sulle ragioni che la rendono impossibile, falsa o comunque provvisoria.
Il tutto ruota attorno al convitato di pietra Scipione l’Africano, che era da poco defunto e da Cicerone mai abbastanza commemorato e rimpianto. Un personaggio – dice – che aveva ottenuto dalla vita tutto ciò che si può legittimamente augurarsi: «Non pose mai la sua candidatura al consolato e lo fecero console due volte; assicurò la pace anche per il futuro; risplendette nell’amore per sua madre, nella generosità verso i fratelli, nella bontà verso le sue sorelle, nella giustizia verso tutti».
In contrasto con il panegirico dell’Africano, Cicerone con un pessimismo profondo guarda con severità al mondo politico, pur facendone parte e forse proprio per questo, intuendo come per liti sarebbe andata a finire. Morì infatti ammazzato in quel di Formia, altro centro del mio collegio elettorale.
Sulla morte però, in qualunque modo arrivi, Cicerone aveva idee chiare. Fedele all’insegnamento antico del culto dei trapassati, censurava quanti sostenevano che l’anima muore con il corpo e che tutto finisce quando si spengono gli occhi. A sostegno del suo biasimo si rifà al pensiero di Socrate secondo cui l’anima dell’uomo è di natura divina e quando essa esce dal corpo le si schiude la via del ritorno in cielo; via tanto più spedita quanto migliore e quanto più giusta fu l’anima durante la vita terrena. Così sia.
Secondo lo schema del dialogo di Lelio con Scevola e Fannio l’amicizia è ipotizzabile solo tra buoni ed ha come cemento la concordanza sui princìpi e valori positivi, escludendo ogni finalità di interesse unilaterale e di obiettivi non cristallini. Comunque mai può aversi una comunione di intenti per andare contro la Repubblica; in questo caso l’amicizia va rescissa senza indugi, rammaricandosi il giusto per avere posto male nel passato la sua predilezione.
In via più generale si indicano alcune possibilità di verifica sulla solidità del vincolo, come la norma secondo cui «l’amico certo si scopre quando tutto è incerto». Comunque il Nostro è convinto che «molto difficilmente si trovano vere amicizie tra coloro che si trovano in mezzo alla politica [honoribus requepublica versantur]. Come può concepirsi infatti che qualcuno possa sacrificare la sua carriera a favore di un amico?».
Molti secoli dopo l’onorevole Benito Mussolini – morto anche lui non di vecchiaia – avrebbe detto: «Tristi sono quelli che seguono il carro quando si trionfa e si squagliano non appena il vento cambi direzione». Lo ha ricordato Antonio Spinosa nel suo recente saggio Alla corte del Duce.
Torniamo a Cicerone. Profondo è il suo scetticismo verso le espressioni popolari dirette, mentre al sommo dei valori egli considera il Senato. L’Assemblea (Concio) era a suo avviso composta di gente ignorante – imperitissimi – ma capace tuttavia di giudicare la differenza tra un «popolare» cioè «tra un cittadino compiacente e leggero» ed uno «coerente», «austero e dignitoso». Qui si inserisce un quesito linguistico. Il traduttore ufficiale, professor Guerino Pacitti, traduce popularis con democratico. Non credo, essendo l’edizione del 1965, che si tratti di un timore di urtare suscettibilità politiche di partiti contemporanei. È peraltro delicato adottare una definizione così cruda per i democratici sic et simpliciter.
Lelio si autoesalta per una delle sue orazioni senatoriali con la quale parlando come questore aveva fatto respingere il deferimento al popolo della cooptazione dei sacerdoti. Con dubbia modestia aggiunge che più che alla bontà dell’oratore la vittoria era da ascriversi alla bontà della causa. Altro freno all’esproprio di poteri senatoriali era stato con successo frapposto dallo stesso Lelio, ma più che altro da Scipione, contro una proposta di cambiamento del modo di elezioni dei tribuni della plebe fatta, per accattivarsi il favore delle masse, da Gaio Papirio.
Diffidando di gran parte dei politici Cicerone ci fa conoscere con maggiore profondità il suo concetto dell’amicizia.
Coloro che vorrebbero rimuoverla dalla vita hanno tutta l’aria di «togliere il sole dal mondo. L’amicizia è il più gran dono, il più bello che gli dei abbiano fatto ai mortali». Sbaglia chi antepone ad essa il compiacimento per i successi politici, per la gloria, per i palazzi, per il vestiario e il culto del corpo.
Se si ritiene che l’amico sia in errore occorre dirglielo, rischiando un raffreddamento di rapporti, o ci si deve passare sopra? Al riguardo nel trialogo – si fa per dire perché di fatto è un monologo – non si esprimono dubbi in proposito: la verità non può essere mai condizionata, anche se talvolta genera odio. Molti, invece di pentirsi e ringraziare l’amico che li ha corretti, si adontano e reagiscono nel senso sbagliato.
Un rilievo curioso su questo testo ciceroniano. È interessante notare i frequenti riferimenti alla botanica e alla zoologia, talvolta con una punta di disillusione verso il genere umano, nonostante la canonizzazione di Scipione. Troppi, ad avviso di Cicerone, riducono tutto al piacere (omnia referunt ad voluptatem) come è proprio degli animali. Troppi, come usa per i cavalli, preferiscono i nuovi ai vecchi; e troppi dimenticano il sapore dei vini invecchiati.
È anche vero che si può sperare un buon frutto da un grano ancora verde. E che si può apprezzare i nuovi acquisti di scuderia continuando a montare con piacere in sella al vecchio cavallo al quale si è abituati.
La forza dell’abitudine è anche rilevante, sia verso gli animali (nella specie i cavalli) che verso le cose inanimate: come quando ci si affeziona a certi paesaggi di monti e di boschi per averli ammirati a lungo.
È però rilevante che anche le cose più belle del mondo e tutto il firmamento sarebbero in ombra se, saliti al cielo, si fosse lì da soli ad ammirare, senza poter condividere con un amico queste gradevolissime sensazioni. In questo caso basterebbe anche un semplice conoscente, laddove per ritenersi amici occorre avere un completo accordo delle volontà, dei gusti e delle opinioni. Più tardi Sallustio avrebbe più o meno imitato Cicerone chiedendo per poter parlare di amicizia che vi siano gli stessi desideri e le stesse avversioni.



Questa citazione di Sallustio l’ho trovata a margine di una vecchia edizione del testo ciceroniano trascritta da un quasi anonimo sacerdote che insegnava latino in un piccolo seminario del Lazio. Stava tracciando, quando la morte ne troncò prematuramente l’esistenza, un virtuoso schema di enciclopedia sull’amicizia. Non so se pensasse davvero di cimentarvisi e se avesse avuto qualche contatto editoriale.
Trascrivo, in ordine cronologico, qualcuna delle citazioni.
– Ludovico Ariosto, Orlando furioso, XIX: «Alcun non può saper da chi sia amato, Quando felice in su la ruota siede; / Però c’ha in veri e finti amici a lato, Che mostran tutti una medesma fede. / Se poi si cangia in tristo il lieto stato, Volta la turba adulatrice il piede; / E quel che di cor ama riman forte, Et ama il suo signor dopo la morte».
– William Shakespeare, Giulio Cesare, IV atto: «Quando l’amicizia comincia ad affievolirsi e a declinare si fa ricorso ad un raddoppio di carinerie criminose». Mentre nel Troilo e Cressida atto II si dice: «L’amicizia che non è annodata dalla saggezza è facilmente disgregata dalla follia».
– Montesquieu, Lettere: «Sono innamorato dell’amicizia».
– Thomas Jefferson, Discorso del 4 marzo 1801: «...La pace, i commerci, una onorevole amicizia con tutte le nazioni, ma con nessuna una stretta alleanza».
– Friedrich Nietzsche, Aforismi: «Le donne possono legarsi ad un uomo con una forte amicizia, ma per mantenerla occorre che vi sia stata agli inizi una sia pur piccola antipatia fisica».
– Graham Greene, Il potere e la gloria: «L’amicizia è una emanazione dell’anima. È qualcosa che si sente. Non si può darla in cambio di un dono diverso».
Vedendo la data di morte di questo professorino – mi riferisco all’ambito del suo insegnamento e non al valore intrinseco che non conosco – desumo che non possa avere avuto contezza dell’esistenza dei computer, che consentono di fare in pochi attimi ricerche tematiche, ridicolizzando gli esercizi dei topi di biblioteca (in questo caso la minuscola biblioteca del seminario).
Ho voluto però raccogliere il suo messaggio.



Una espressione oggi corrente per certi matrimoni che vanno in crisi è questa: “Hanno divorziato ma sono rimasti amici”. Tutte le definizioni ciceroniane escluderebbero questa ipotesi, ma dobbiamo forse adattarci ad una società notevolmente cambiata.
Peraltro l’ordinamento giuridico è così invadente che spetta ai magistrati lo stabilire non solo gli aspetti patrimoniali delle divisioni, ma anche l’affidamento dei figli e i turni di contatto di questi con l’uno e con l’altro genitore. D’altra parte, coerenti con il diritto alla vita e con la condanna morale degli aborti si è cancellata la deminutio dei figli nati fuori del matrimonio. Il matrimonio stesso è, non di rado, di fatto, con convivenze tra compagni (ogni riferimento politico è da escludersi). Nel corso del lungo dibattito sul divorzio alla Camera dei deputati vi furono petulanti interventi circa gli effetti civili dei matrimoni annullati dalla Chiesa per il rarissimo cosiddetto rato e non consumato. Io tagliai corto e dissi che mi preoccupavo di più dei matrimoni consumati e non rati (cioè non celebrati) che sono tanti.
ýn altro uso abbastanza anomalo si ha nella dizione “amico di partito”. In teoria dovrebbe essere effettivamente dato un forte rilievo alla appartenenza allo stesso consorzio politico. Ma qui lo scetticismo ciceroniano ci sovviene, con una minore drasticità. La coabitazione politica non comporta che si sia amici, ma nemmeno lo esclude del tutto. Personalmente ho qualche esempio concreto in questo senso.
Scrivere sull’amicizia attraverso la consultazione di testi, antichi e moderni, non è difficile. Più complesso è il guardare indietro nella propria vita per far riemergere, sul tema, esperienze e momenti particolari. Ho già fatto cenno al felice ed ininterrotto protrarsi di qualche amicizia studentesca; quando si poteva in seguito dileguare per il nostro metter su famiglia, vi è stata, al contrario, una estensione tra le nostre mogli.
In quanto alla politica, ferme restando tutte le riserve e le incompatibilità già descritte, posso però dire che con alcune popolazioni il rapporto che si instaura attraverso il mandato elettivo più volte rinnovato è veramente di mutua compenetrazione di stima e di autentici affetti. Chi guarda alla vita pubblica come il regno del diavolo dove l’homo homini lupus dominerebbe sovrano non può capire questo. E abbiamo visto teorizzare, come una fatalità, il cosiddetto voto di scambio. Il dibattito relativo ha trovato ricetto anche nelle aule penali, dove in genere della politica sembrava aversi una ben fosca immagine. Dico sembrava perché mi auguro che i magistrati – sono più di trenta – che fanno parte del Parlamento, vedendo la politica da vicino, abbiano una visione più obiettiva e sappiano trasmetterla ai loro colleghi.


In uno dei nostri Colloquia, un professore lituano si domandò se fosse più accessibile il Cicerone del De amicitia o quello del De senectute, concludendo che comunque la seconda riguardava tutti, mentre l’altra è merce rarissima. Ma venendo da un Paese che il regime aveva ridotto allo stremo citò quel passo così patetico secondo cui la vecchiaia è «più tollerabile» se si ha una discreta posizione e mezzi sufficienti per vivere. L’amicizia almeno, pur rara, non ha bisogno di particolari rendite. Ma qui andrei oltre il tema che mi è stato posto per questo 2001.


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