Home > Archivio > 04/05 - 2001 > Se tutte le strade portano a Roma
LA SANITÀ A ROMA E NEL LAZIO
tratto dal n. 04/05 - 2001

Se tutte le strade portano a Roma


Un’analisi dettagliata del Sistema sanitario della capitale.Lo studio, realizzato da uno dei membri del consiglio di amministrazione dell’Agenzia sanità pubblica della Regione Lazio, prende in esame soprattutto il grado di efficienza dell’assistenza ospedaliera. Come evitare il congestionamento delle strutture sanitarie? E come riprogrammarle?


di Franco Placidi


Per inquadrare il problema è necessario fare due premesse. La prima è che oggi si tende a costruire un Sistema sanitario costituito da un insieme d’aziende ed istituti, attrezzati opportunamente e con qualificato personale, nei quali i cittadini entrino per reali bisogni sanitari e dai quali escano migliorati nelle loro condizioni di salute. I servizi sanitari diventano esclusivamente strumenti per produrre salute, per questo il cosiddetto “ricavo” delle aziende e degli istituti consiste nella maggior produzione possibile di salute attraverso una gestione di servizi condotta con appropriatezza, efficienza, efficacia e senso di responsabilità.
Il “costo” di produzione, in tal caso, non è relazionabile al numero delle domande di salute esaudite, ma al rendimento delle risorse possedute. Anzi, nell’ipotesi di massimo rendimento delle risorse disponibili in ciascun servizio, è anche possibile determinare il limite massimo della spesa aziendale perché relazionata alla massima capacità produttiva dei servizi stessi.
Perché tale sistema funzioni sono, però, necessari alcuni presupposti, purtroppo non ancora avveratisi:
a) i servizi sanitari devono essere adeguati ai reali bisogni del momento e l’accessibilità ai medesimi deve essere favorita a tutti i cittadini;
b) l’accesso a detti servizi deve essere guidato da persone in grado di percepire l’esistenza del vero bisogno e in grado di indirizzare il cittadino nel luogo più appropriato;
c) i soggetti erogatori dei servizi devono sapere selezionare le prestazioni più appropriate ed efficaci;
d) l’organizzazione dei servizi deve essere adeguata ai bisogni e fabbisogni e anche nella diffusione della corretta informazione ai cittadini sull’offerta che ciascun servizio è capace di fornire.
La seconda premessa è che l’esame della situazione dell’assistenza sanitaria a Roma non può prescindere dall’esame della situazione dell’assistenza sanitaria anche nelle province dell’intera regione, i cui abitanti sono spesso costretti ad emigrare, possedendo solamente Roma una quantità ragguardevole di strutture e servizi sanitari meglio attrezzati, concentrata in zone abbastanza ristrette: gli ospedali universitari, le aziende ospedaliere, gli Irccs (Istituti di ricerca e cura a carattere scientifico), gli ospedali classificati religiosi, la quasi totalità delle strutture private accreditate e no, la rete di postazioni 118 d’emergenza e i quasi due terzi dei servizi ambulatoriali dell’intera regione. Tutto questo patrimonio, soprattutto perché organizzato in modo improprio e indifferenziato, si presta, specialmente per l’attività ospedaliera, a essere utilizzato secondo la domanda e, per i ricoveri, anche per forme d’assistenza extraospedaliera. Di qui la perdita di qualità e l’impossibilità di realizzare rendimenti elevati di servizio.
Nell’anno 2001 ci troviamo ancora a sperimentare un modello di Sistema sanitario di tipo aziendale, avendo voluto prescindere dall’attuazione dei fondamentali presupposti e dalla riqualificazione delle strutture a ogni livello regionale. Si ritengono indispensabili, almeno come primi atti da compiere, il riesame del sistema infruttuoso della medicina di base, la riorganizzazione territoriale dei servizi, la rimodulazione del sistema ospedaliero, la diversa ripartizione del fondo sanitario (ancora effettuata sul “pro capite” pesato in funzione dell’età, criterio adottato prima dell’introduzione delle Asl e oggi contraddittorio), l’attuazione di concreti programmi di prevenzione, di cui è di primaria importanza la corretta informazione ai cittadini. Tutto questo sotto il profilo programmatorio per la migliore utilizzazione delle risorse regionali di cui si dispone, mentre a livello nazionale si dovrebbe, tra l’altro, provvedere una buona volta a rimodernare il piano di studi universitari della medicina e a fornire più sostanziosi fondi in conto capitale a quelle regioni che hanno necessità di riconvertire o di attrezzare adeguatamente le proprie strutture in funzione degli attuali bisogni di salute.
I cittadini romani soffrono dell’attuale servizio d’assistenza sanitaria. Nonostante abbiano sul proprio territorio numerosi servizi sanitari pubblici e accreditati, lamentano lunghi tempi d’attesa per ottenere le necessarie prestazioni e, frequentemente, nell’urgenza di ottenerle, sono costretti, con sacrificio economico, a rivolgersi alle strutture private-private (cioè, per così dire, “non convenzionate” col Servizio sanitario nazionale), che, pur in numero insignificante, riescono a soddisfare e bene la domanda. Grave appare, invece, il fenomeno che sta dilagando nel Servizio sanitario pubblico con l’introduzione dell’intramoenia, cioè dell’attività che il medico può esercitare come professionista privato all’interno della struttura pubblica al termine del proprio orario di lavoro. Accade che il cittadino, che non può attendere mesi per una Tac o per ottenere una prestazione qualunque, risolve nell’arco di qualche giorno, ma a pagamento, il proprio problema nell’intramoenia. Un dubbio lecito è che le liste d’attesa si formino anche per determinare queste situazioni.
Di certo la situazione sanitaria a Roma richiede di essere posta sotto osservazione, ad iniziare dalla situazione ospedaliera. Si vuole prioritariamente esaminare la situazione dell’assistenza ospedaliera, perché, oltre ad assorbire la percentuale più elevata del fondo, è più documentabile rispetto agli altri livelli assistenziali.
Sono stati assunti i dati Istat sulla popolazione e i dati del Sistema informativo ospedaliero (Sio) relativi al 1999, (perché, mentre scrivevamo, i dati dell’anno 2000 erano ancora in fase d’elaborazione) per estrarre interessanti considerazioni sulla situazione dell’assistenza ospedaliera in Roma e nell’intera regione.
Per attualizzare l’analisi, è stato, invece, adottato il riparto del fondo alle Asl relativo al 2001, inferiore a quello del 1999 e quindi più significativo in ordine ad una previsione di sviluppo dell’assistenza in condizioni economiche più severe. Insignificanti possono ritenersi alcune variazioni della consistenza della popolazione e dell’eventuale riconversione di alcuni posti-letto ospedalieri.
Per il 2001 il fondo sanitario spettante alla regione Lazio è dell’ordine di 11.279 miliardi di lire, ripartito tra le Asl sui tre livelli assistenziali, vale a dire il 5% per la prevenzione, il 46% per l’assistenza distrettuale, il 49% per l’assistenza ospedaliera. Dei 5.527 miliardi di lire finanziati per l’assistenza ospedaliera, 3.977 miliardi sono destinati alla remunerazione delle prestazioni ospedaliere per acuti dei cittadini residenti nel Lazio, 650 miliardi al finanziamento delle prestazioni di riabilitazione, 900 miliardi da assegnare sulla base di specifici provvedimenti regionali e come fondo di compensazione (ad esempio prestazioni fatte all’estero) e di riequilibrio (ad esempio giustificato supero del fondo messo a disposizione).
Dall’esame risulta che i dati del 1999 sull’assistenza ospedaliera nel Lazio non riflettono sostanziali novità rispetto a quelli di consuntivo degli anni dell’ultimo triennio.
Non appare visibile alcun segno sensibile di risposta alla strategia indicata dal P.s.n. (Piano sanitario nazionale) 1988-2000, promossa per il cambiamento del sistema d’assistenza ospedaliera, perché fosse:
essenziale, vale a dire adeguato a rispondere prontamente ai bisogni fondamentali di promozione, di mantenimento e di recupero della salute ed improntato all’efficienza;
appropriato, vale a dire mirato all’offerta specifica secondo la reale esigenza della popolazione, pronto nella risposta e nella qualità per modi d’erogazione e improntato all’efficacia;
garantito, vale a dire rispettoso del diritto d’ogni cittadino all’accesso sul proprio territorio e quindi organizzato per rispondere all’effettiva domanda in funzione della densità della popolazione e ai rischi alla salute propri del luogo di vita.
La spesa sanitaria dell’assistenza ospedaliera del Lazio continua, purtroppo, ad essere caratterizzata da elevati costi per unità di prodotto:
– perché è ancora al di sopra dei limiti il numero dei posti-letto per ogni mille abitanti;
– perché la loro occupazione continua ad essere inferiore al 75%;
– perché il tasso d’ospedalizzazione, soprattutto nelle aree dei grandi centri urbani, è in moltissimi casi ancora inferiore al 160 per mille;
– perché sussiste un alto tasso di ricovero per interventi ospedalieri richiedenti trattamenti di natura non essenziale e, quindi, impropria;
– perché contribuisce, altresì, al meccanismo della riconversione dei posti-letto esuberanti in day hospital, il cui pagamento a prestazione comporta remunerazioni maggiori.
Accade, poi, che per contenere la spesa sanitaria ospedaliera si abbia la necessità di dovere contenere, come indica alle regioni il P.s.n., la domanda di ricovero in regime di ricovero ospedaliero, anche se di necessità, con interventi di natura alternativa.
Con queste premesse generali è possibile quantificare la situazione dell’assistenza ospedaliera a Roma e nel Lazio.
La popolazione della regione Lazio conta 5.255.029 soggetti (1999), di cui il 18,31% (962.162) ultrasessantacinquenni e tra questi il 3,41% (179.139) ultraottantenni. La maggiore natalità è nella provincia di Latina, seguita dalla provincia di Roma. Il più alto tasso d’ultrasessantacinquenni e ultraottantenni è registrato rispettivamente nelle province di Rieti e di Viterbo.
Complessivamente i posti-letto ospedalieri pubblici e privati, accreditati e no per acuti, per riabilitazione, per lungodegenti in regime di ricovero e di day hospital, sono 33.261, pari a 6,33 letti per ogni mille abitanti. Nella città di Roma la media dei posti-letto per acuti del Servizio sanitario nazionale ogni mille abitanti è abbastanza elevata e pari a 6,46. Se si esamina, però, la media a livello delle cinque Asl, si notano grandi disparità: nella Roma A il numero di posti-letto per ogni mille abitanti è pari a 12,21, nella Roma B a 2,04, nella Roma C a 3,28, nella Roma D a 5,3, nella Roma E a 11,27.
In particolare nella Roma A insistono l’azienda ospedaliera di San Giovanni Calibita e Addolorata (con 1.124 posti-letto per acuti ordinari e in day hospital), l’ospedale universitario Umberto I (posti-letto 2.000), gli Irccs Regina Elena (posti-letto 289), il Santa Maria-San Gallicano (posti-letto 66) e il Bambino Gesù classificato pediatrico (posti-letto 786). Escludendo i posti-letto dell’ospedale universitario e degli Irccs, sarebbero disponibili per la Roma A 4,96 posti-letto per mille residenti. Se alla Roma B sottraessimo i 449 posti-letto dell’Università di Tor Vergata, i residenti avrebbero a disposizione 1,25 posti-letto per mille abitanti. In tale situazione sono comprensibili l’insoddisfazione e il disagio dei residenti, costretti a migrare in altre Asl, senza sottovalutare i danni che sono prodotti in termini burocratici ed economici sia ai cittadini sia ai gestori del servizio.
La Roma C fruisce di 114 posti-letto dall’accreditato Campus biomedico universitario; la Roma D dall’azienda ospedaliera San Camillo (posti-letto 1741) e dall’Irccs Spallanzani (posti-letto142); la Roma E dall’azienda ospedaliera San Filippo Neri (posti-letto 1.019), dall’accreditato ospedale universitario Agostino Gemelli (posti-letto 2.064), dall’accreditato Irccs dermopatico Immacolata (posti-letto 355) e dall’Irccs per anziani Inrca (posti-letto 94).
La tabella che pubblichiamo in queste pagine evidenzia alcune delle disparità dei posti ospedalieri esistenti tra le Asl romane, in funzione dell’estensione del territorio di competenza e della densità degli abitanti.
Anche per la riabilitazione e la lungodegenza esistono situazioni di gravi disparità. Ad esempio la provincia di Frosinone, che ha, sul totale della sua popolazione, una percentuale d’anziani ultrasessantacinquenni pari al 21,68%, possiede 152 posti-letto di lungodegenza, mentre la provincia di Rieti, che ha una percentuale di ultrasessantacinquenni pari al 26,22%, non possiede alcun posto di lungodegenza.
Anche sulle dimissioni ospedaliere registrate nel 1999 molte cose sono da chiarire.
Nel 1999 le dimissioni dai posti-letto per acuti, in regime di ricovero e in day hospital (con esclusione dei soggetti provenienti da altre regioni e dall’estero), sono state 1.032.160. La qual cosa equivarrebbe ad affermare (considerando in prima approssimazione l’assenza di ricoveri ripetuti) che circa un quinto della popolazione (il 19,64%) è ricorso almeno una volta al ricovero ospedaliero. Se così non fosse, si potrebbe affermare che innumerevoli sono stati i ricorsi al ricovero ripetuto e, in ogni caso, che le aziende non hanno avuto capacità di produrre salute.
Considerando, poi, l’occupazione di tutti i posti-letto per acuti e comprendendo anche i ricoveri per parto (neonati), la degenza media per acuti in regime di ricovero ordinario calcolata con l’uso dei dati disponibili è di 11,37 giorni.
Nella realtà, però, non tutti i letti, nel corso dell’anno, possono essere ritenuti occupati e la degenza media, pertanto, deve essere calcolata come rapporto tra le effettive giornate di degenza e il numero dei dimessi nel corso dello stesso anno. L’Agenzia di sanità pubblica (Asp) della regione Lazio dichiara la degenza media (dm) per il 1999 eguale a 7,6 giorni. Ciò significa che nel corso dell’anno almeno il 33% dei letti non è stato, per motivi vari (ristrutturazioni, strutture non frequentate ecc.², pienamente utilizzato. Nell’ordinamento aziendale il fatto deve essere ritenuto gravissimo, perché ogni letto che non produce salute produce inevitabilmente danno economico.
Analogamente per la riabilitazione in regime di ricovero (posti-letto 2.893 e numero di dimissioni pari a 23.464) la degenza media è di 45 giorni. Assegnando l’Asp una degenza media di 34,1 giorni, il calcolo porta a concludere che c’è stata un’occupazione dei posti-letto pari al 76%.
Infine, per la lungodegenza (179 posti-letto e 5.844 dimissioni), la degenza media è di 11,14 giorni, valore che è improbabile e irragionevole. Ciò potrebbe solo significare che molti letti per ricovero ordinario per acuti sono utilizzati per ricoveri di lungodegenza.
Appare evidente che molte cose sono da rivedere per far funzionare bene un sistema sanitario aziendale introdotto da pochi anni e non ancora a regime, ma alcune considerazioni conclusive possono essere fatte.
Ritengo che i limiti del numero dei posti-letto, dei tassi d’occupazione e d’ospedalizzazione, fissati a livello nazionale, devono essere intesi come valori da non superare per evitare eccessi d’offerta rispetto alla possibile reale domanda e non come limiti in ogni caso da raggiungere per un presunto corretto svolgimento dell’attività ospedaliera. A Roma e nel Lazio alcuni limiti sono superati altri no: è necessario l’impegno a ricercare, sulla base dei reali bisogni di salute anche differenziati sul territorio, un riequilibrio dei valori, perché non vi siano eccedenze o carenze di risorse e, quindi, siano il più possibile elevati i loro rendimenti.
Di fronte a un’offerta esuberante rispetto alla reale domanda, è naturale che avvengano utilizzazioni improprie e quindi costi superiori. Gli oltre 33mila posti-letto presenti nella regione Lazio sono certamente eccessivi, eppure quelli di grandi centri urbani, in genere meglio attrezzati, spesso sono insufficienti a soddisfare la domanda (affollamento, lunghe attese), perché male distribuiti sul territorio, utilizzati in modo rigido in relazione alle specialità e senza programmazione.
L’ospedalità da garantire al cittadino capillarmente su tutto il territorio regionale, con facilità d’accesso, tempestività, intervento mirato, dovrebbe prevalentemente riguardare anche piccole strutture per la diagnostica di routine e per le «situazioni d’emergenza e di primo intervento» (compreso, ad esempio, il parto) e di ricovero ordinario per acuti di non gravi patologie. Il ricovero ordinario territoriale così inteso, sicuramente più conveniente per il Servizio sanitario nazionale dal punto di vista dei costi, potrebbe stimolare il privato a partecipare alla risoluzione della disomogeneità nella distribuzione dei posti-letto. Il privato è meno rigido a trovare formule d’adattamento alle nuove esigenze sanitarie e più elastico ad assumere impegni in funzione delle necessità territoriali.
Nei casi più complessi e per alte specialità dovrebbero essere utilizzati ospedali più attrezzati di livello provinciale o regionale. Non dovrebbe, d’altronde, comportare alcun disagio a chi, bisognoso di un intervento di rilievo, dopo essere stato soccorso e stabilizzato nella struttura territoriale, debba essere trasferito, per decisione e sotto il controllo della struttura di provenienza, presso strutture dislocate più lontano o in altre città.
In particolare il ricovero ordinario per acuti nelle alte specialità potrebbe essere previsto presso strutture a livello regionale. Ad esempio, una parte consistente del patrimonio ospedaliero romano, ridondante per i residenti, vale a dire quello proprio delle aziende ospedaliere, dei policlinici universitari e degli Irccs, potrebbe essere destinato e organizzato per l’effettuazione d’interventi d’alta specialità ad alta tecnologia, per la sperimentazione e per la ricerca in settori specifici, mentre gli ospedali a particolare specializzazione (oftalmico, odontoiatrico, oncologico, dermatologico ecc.) potrebbero ulteriormente specializzarsi, eliminando le branche che sono comuni a ogni ospedale. I posti-letto di piccole strutture, come altri eventualmente da ridurre negli ospedali più grandi, siano essi pubblici o accreditati, potrebbero essere riconvertiti in servizi di cui c’è insufficienza e necessità: servizi per gli anziani, per i malati mentali, per la riabilitazione, per la lungodegenza, per le cure palliative a malati in fase terminale, in centri e laboratori di sperimentazione, di formazione e altro. Un ritorno allo strumento della programmazione dinamica del Servizio sanitario è veramente auspicabile.


Español English Français Deutsch Português