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IL VIAGGIO DEL PAPA IN...
tratto dal n. 03 - 2001

Le visite in Ucraina e Grecia

Tutte le spine ortodosse


I fattori vecchi e nuovi che alimentano il nervosismo delle Chiese sorelle nei confronti dell’intraprendenza romana. La comprensione di questi fattori potrebbe favorire un esito positivo delle visite papali, che altrimenti rischiano di congelare i rapporti tra Roma e buona parte dell’Ortodossia


di Gianni Valente


Tra maggio e giugno, salvo sorprese, Giovanni Paolo II cancellerà anche Grecia e Ucraina dalla lista sempre più corta dei suoi "viaggi impossibili". Dopo aver atteso per anni che il muro dell’ostilità ortodossa crollasse, così come era accaduto ai muri comunisti, il Papa ha deciso di tagliar corto. Misticamente sostenuto dal sogno slavo di varcare le porte di Mosca, la Terza Roma, in pochi mesi ha stravolto e ridisegnato a sua misura anche la prassi tradizionalmente cauta del dialogo con le Chiese sorelle d’Oriente. Una premura che si era espressa, ad esempio, nel documento della Commissione vaticana Pro-Russia (1� giugno 1992), che richiamava i vescovi cattolici nei Paesi dell’Est a maggioranza ortodossa a comunicare e possibilmente a concordare con i locali vescovi ortodossi le proprie iniziative pastorali più impegnative. Cortesie che non sono bastate a superare il gelo ecumenico degli anni del postcomunismo.
La visita papale in Ucraina, volta soprattutto a onorare le comunità cattoliche di rito greco e di rito latino martirizzate sotto il regime sovietico, si svolgerà (salvo sorprese, sempre possibili, dell’ultima ora) contro il volere della Chiesa locale maggioritaria: la Chiesa autonoma ortodossa ucraina, che gode di uno statuto di autonomia all’interno del Patriarcato di Mosca. Un’eventualità che non si era mai presentata nella lunga serie di trasferte papali fuori dal Vaticano.
È divenuta di pubblico dominio la lettera che il metropolita olodimir, primate della Chiesa autonoma ortodossa ucraina, ha scritto al Papa a fine gennaio su incarico del sinodo per chiedere il rinvio della visita papale e protestare perché questa era stata programmata senza avvisare ufficialmente la Chiesa ortodossa e senza attendere un invito da parte sua. Ma è meno noto che anche Christodoulos, arcivescovo di Atene, aveva fatto giungere all’appartamento pontificio una lettera riservata che con toni più pacati avvertiva il Papa dei problemi che il viaggio papale avrebbe finito per sollevare all’interno della sua Chiesa. E fonti bene informate assicurano che anche membri della gerarchia cattolica greca avevano fatto pervenire ai Sacri Palazzi il proprio consiglio di rinviare la visita a un momento più opportuno.
Resta la parte più difficile: Giovanni Paolo II dovrà vincere sul campo le obiezioni e l’ostilità che aleggiano intorno alle sue prossime trasferte in campo ortodosso. Lo stesso Christodoulos, all’inizio di marzo, è riuscito a far votare dal sinodo ortoàosso greco una sofferta dichiarazione di "non rifiuto" nei confronti del viaggio papale, piena di distinguo. Già tra le parrocchie greche si avverte il passaparola di chi prepara il boicottaggio della visita papale, mentre Eustachio Kolas_ presidente dell’associazione che raccoglie quasi novemila parroci greci rivolge al Papa epiteti inqualificabili ("grottesco mostro a due teste di Roma, lupo vestito da agnello") e anche in Ucraina l’Unione delle fraternità ortodosse organizza manifestazioni anticattoliche davanti al Parlamento.
In questo clima rovente, non è inutile tener conto dei fattori vecchi e nuovi che alimentano il nervosismo ortodosso nei confronti dell’intraprendenza romana. La comprensione di questi fattori potrebbe favorire un esito positivo delle visite papali, che altrimenti rischiano di congelare vieppiù i rapporti tra Roma e buona parte dell’Ortodossia.

ll ruolo dei governi
Anche per Grecia e Ucraina si è ripetuto lo schema collaudato della strategia wojtyliana per aggirare le obiezioni ai viaggi papali nei Paesi di tradizione ortodossa: accogliere gli inviti ufficiali dei governi e dei leader nazionali, che considerano le visite papali un passaggio propiziatorio per potenziare i rapporti strutturali coi circoli politico-economici d’Occidente; e attendere che gli stessi governi ammorbidiscano, con argomenti convincenti, l’eventuale ostruzionismo delle gerarchie e delle comunità ortodosse locali. Per la Grecia, l’ultimo invito ufficiale lo ha rivolto a Giovanni Paolo II il presidente Costis Stefanopoulos durante la sua visita in Vaticano lo scorso 24 gennaio. Mentre per l’Ucraina, il presidente Leonid Kuchma aveva inoltrato il suo invito tramite una delegazione governativa inviata in Vaticano già nel 1998, quando era ancora lontana la crisi che sta travolgendo il suo governo, con un’opposizione rumorosa e accanita nel denunciare gli scandali e le magagne del gruppo di potere presidenziale, compreso il presunto omicidio di un giornalista non allineato.
Il gioco di sponda con i governi ha già funzionato in Georgia, visitata dal Papa nel novembre 1999, e soprattutto in Romania, dove gli ambienti governativi caldeggiavano una visita papale già nel ’96 ("abbiamo bisogno della Nato e del Papa", sussurravano allora i consiglieri del presidente Emil Costantinescu). Auspicio realizzatosi nel maggio ’99, dopo che nel giro di pochi mesi la gerarchia ortodossa di Romania era passata da allarmate dichiarazioni sulla non opportunità della visita del Pontefice romano a fraterni segnali di calda accoglienza rivolti a Giovanni Paolo II. Finì con un indiscusso successo: con il popolo in piazza a Bucarest che gridava "nitate! Unitate!" alla fine dell’ultima messa celebrata dal Papa alla presenza del patriarca Teoctist. Adesso, la medesima procedura sta per essere tentata anche in Bulgaria. Come registra il bollettino informativo Abagar del 29 gennaio, "sotto la spinta delle forze politiche di tutti i settori la Chiesa ortodossa bulgara sta cambiando il proprio atteggiamento di rifiuto di una visita di Giovanni Paolo II". Per affrettare la visita papale si è anche costituito un gruppo d’iniziativa di intellettuali e politici, molti dei quali, sottolinea Abagar, sono "esponenti del Club Atlantico, già ricevuti in udienza dal Santo Padre il 14 novembre 1997".
Ma proprio questo modus operandi da parte vaticana, che fa affidamento sulla tradizionale sudditanza delle Chiese ortodosse ai rispettivi poteri civili, viene mal digerito in campo ortodosso. Anche perché, nell’attuale fase, in molte situazioni si registrano conflitti e ricatti reciproci tra le gerarchie ortodosse e i governi.
In Bulgaria il governo ha più volte mostrato il suo appoggio alla fazione clericale dissidente che contestava la legittimità canonica della gerarchia accusandola di connivenza col passato regime comunista. Uno scisma di fatto ha diviso per anni la Chiesalortodossa bulgara. Nell’ottobre 1998 una riunione di tutti i primati della comunione ortodossa svoltasi al Fanar, la sede del Patriarcato ecumenico, ha confermato che l’unica Chiesa canonicamente riconosciuta è quella che fa capo al contestato patriarca Maxim. Il quale, ancora nel marzo ’99, denunciava le pressioni ricevute dal vice primo ministro Vesselin Metodiev per farlo dimettere.
In Grecia si sono intensificate negli ultimi anni le prove di forza tra la Chiesa e il governo a guida socialista. Nel maggio ’98 buona parte dell’élite intellettuale del Paese era tornata a chiedere la separazione tra la Chiesa e lo Stato e la soppressione di norme in campo giuridico e sociale (la menzione obbligatoria della religione sulla carta d’identità, l’insegnamento obbligatorio del catechismo nelle scuole pubbliche e private, l’ostracismo nei confronti degli insegnanti non ortodossi) giudicate discriminanti. Un programma che il governo ha cominciato ad attuare: la menzione della religione sulla carta d’identità (misura che era stata introdotta in Grecia sotto l’occupazione nazista) è stata abolita dal governo nel maggio scorso. Ed è allo studio un progetto di riforma scolastica che prevede la soppressione dell’esame di catechismo tra le prove obbligatorie per il diploma di scuola secondaria. La gerarchia greca ha reagito con durezza a queste misure. L’arcivescovo Christodoulos, criticato anche all’interno della Chiesa per il suo eccessivo presenzialismo, ha guidato durante lo scorso anno manifestazioni di piazza con migliaia di persone, chiamando i fedeli alla "resistenza" contro il processo di laicizzazione in atto in Grecia, guidato "da centri stranieri che vogliono imporci questi cambiamenti". Ma lo strumento di pressione più persuasivo dello Stato nei confronti della Chiesa rimane quello economico. La Costituzione greca riconosce quella ortodossa come la "Chiesa dominante" del Paese. Tutte le istituzioni ecclesiastiche e tutto il clero sono stipendiati direttamente dallo Stato. E anche il patrimonio fondiario e immobiliare di proprietà ecclesiastica è immenso tanto da renderne impossibile il censimento. Negli ultimi anni, la giustizia civile ha aperto indagini sulla gestione allegra delle sovvenzioni accordate alla Chiesa sui fondi concessi dall’Europa per il restauro di monasteri e luoghi di culto. Allo stesso tempo, alternando bastone a carota, il governo socialista, nel dicembre 1999, è stato il primo a concedere ai membri del clero un sensibile aumento di stipendio, già goduto dagli altri dipendenti statali, come reclamava da anni l’Associazione dei preti ortodossi.
In Ucraina, invece, il governo giustifica le sue pesanti ingerenze nelle questioni canoniche con la necessità di arginare il conflitto tutti-contro-tutti che oppone le diverse entità ecclesiali del Paese. Nel corso degli anni Novanta, con la poderosa rinascita della Chiesa greco-cattolica ucraina, dopo i decenni in cui era stata formalmente soppressa dal regime, la lotta tra ortodossi e greco-cattolici per il controllo delle proprietà e degli edifici di culto aveva assunto il carattere di catastrofe naz_onale. Con migliaia di parrocchie in perenne conflitto tra loro, con scontri fisici, assedi di chiese e di villaggi, abitazioni di sacerdoti devastate, soprattutto nei territori dell’Ucraina occidentale, dove sono concentrati i greco-cattolici. Adesso, questo scontro si va stemperando… Anche se le gerarchie ortodosse ripetono per riflesso condizionato gli slogan della polemica antiuniate, la situazione più esplosiva riguarda il fronte interortodosso. Con il conflitto che contrappone le tre entità in cui si è divisa l’Ortodossia ucraina in epoca postsovietica: la Chiesa ortodossa ucraina, guidata dal metropolita Volodimir di Kiev, che gode di uno statuto di autonomia all’interno del Patriarcato di Mosca; l’entità che fa capo a Filaret, già metropolita della Chiesa russa a Kiev, che nel 1995 si è autoproclamato Patriarca di Kiev dopo essere stato scomunicato e ridotto allo stato laicale dalla Chiesa madre; e la cosiddetta Chiesa ortodossa ucraina autocefala, che si ispira a quella Ortodossia catacombale che non aveva mai riconosciuto il regime sovietico, e aveva mantenuto nei decenni del comunismo i suoi centri direttivi all’interno della diaspora ucraina in Nord America.
Davanti a un quadro così confuso il presidente Kuchma da anni attua un pesante forcingÌper spingere le varie entità ortodosse ad unificarsi in una Chiesa ucraina indipendente, totalmente emancipata dalla giurisdizione moscovita. Lo scorso anno il presidente del Comitato religioso statale, Viktor Bondarenko, è addirittura sceso a Costantinopoli per ottenere dal patriarca ecumenico Bartolomeo una benedizione a tale disegno autarchico. La Chiesa ortodossa legata a Mosca reagisce a queste manovre denunciando la "persecuzione" subita da parte del governo, in combutta con l’entità scismatica di Filaret. E intimando al Patriarca di Costantinopoli di non farsi coinvolgere nel groviglio ucraino. Anche all’inizio di febbraio i responsabili delle fraternità ortodosse della Chiesa che fa capo a Mosca hanno scritto a Bartolomeo chiedendogli di rinviare una sua visita in Ucraina che era prevista per la prossima primavera su invito esclusivo del governo. "Gli ortodossi d’Ucraina" si legge nella missiva "saranno ben lieti di vedervi a Kiev e di ricevere la vostra benedizione, ma ciò sarà impossibile se la vostra visita avrà luogo senza la concertazione con la Chiesa ortodossa canonica in Ucraina, ma unicamente con le autorità politiche che sostengono dei gruppi scismatici". La lettera parla anche di "forze oscure, che tentano di coinvolgere il Patriarcato ecumenico in una ignobile trappola, tesa a distruggere l’Ortodossia in Ucraina e a provocare uno scisma nell’Ortodossia mondiale, che avrebbe conseguenze tragiche come quello del 1054". Si lamenta inoltre che a causa di "manovre politiche sul fondo di tensioni religiose e nazionaliste" ancora non sia stato permesso agli ortodossi d’Ucraina di invitare il Patriarca di Mosca dopo nove anni dalla sua elezione, "mentre le autorità civili, con l’appoggio degli scismatici, hanno invitato il Papa di Roma a venire in Ucraina il prossimo giugno".
Bartolomeo, davanti a tale reazione, ha smentito ogni intenzione di recarsi in Ucraina.

L’internazionale scismatica
Vista da Mosca, in una prospettiva storica, la redistribuzione delle zone d’influenza religiosa avvenuta nello scacchiere ucraino durante l’ultimo decennio assume i contorni di una catastrofe anche finanziaria. Se ancora nel ’91 erano 15mila"le parrocchie ucraine sotto il Patriarcato di Mosca (mentre in tutta la Russia ne erano rimaste solo seimila) adesso più della metà di esse sono uscite dall’orbita moscovita. Oltre alle tremila, concentrate nell’Ucraina occidentale, che hanno scelto di tornare pubblicamente alla Chiesa greco-cattolica, sono circa duemila le parrocchie che hanno seguito nel suo scisma Filaret, mentre circa mille fanno capo alla cosiddetta Chiesa ortodossa ucraina autocefala.
Ma la posta in gioco nel groviglio ucraino va ben oltre il controllo delle parrocchie e dei territori canonici. La frammentazione ucraina, con cui dovrà fare i conti la visita pontificia, lascia intravedere scenari di autodissoluzione che inquietano tutta la comunione ortodossa.
L’allarme l’ha lanciato fin dal febbraio del 1999 padre George Tsetsis, rappresentante del Patriarcato ecumenico presso il Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec), a Ginevra. In un intervento rilasciato alla stampa e pubblicato sull’agenzia Service orthodoxe de presse_ descriveva il progetto messo in atto "dallo pseudo-patriarca di Kiev, alias ex metropolita Filaret Denissenko, che, come è noto, è stato deposto dall’assemblea dell’episcopato ucraino nel 1992, poi ridotto allo stato laicale, e infine scomunicato nel 1997". Un disegno che mirerebbe "alla creazione di giurisdizioni ecclesiastiche parallele, su tutto il territorio delle Chiese canoniche ortodosse", e che Filaret persegue radunando intorno a sé "preti spretati da diverse Chiese: vecchi calendaristi greci (uno scisma consumato in Grecia nel 1924), scismatici della Macedonia, preti auto-ordinati in Europa occidentale e in Nord America, ai quali lui attribuisce dei titoli altisonanti". Insomma secondo la ricostruzione di Tsetsis si starebbe coordinando una sorta di "internazionale scismatica nello spazio ortodosso" avente come centri "Kiev e New York". Rientrerebbe in questa strategia anche l’appoggio dato da Filaret a tutti i gruppi che nei diversi Paesi contestano e cercano di mettere in crisi le gerarchie canonicamente legittime, come è avvenuto in Bulgaria e in Georgia. O, ancora, la propensione ad accogliere sotto la propria obbedienza diverse fazioni scismatiche della diaspora, "guidate da "gerarchi" di provenienza indeterminata, che assumono dei titoli episcopali stravaganti. Filaret e i suoi attivisti" continua Tsetsis "non nascondono la propria ambizione di stabilire prossimamente dei "metropoliti" e dei "vescovi" autonomi in Austria, Svizzera e nella penisola iberica. Delle "diocesi" di questo tipo sono già state create in Francia e in Italia, come sottintende la lettera circolare di un certo Michel, "arcivescovo di Lione e di tutte le Gallie", che si dichiara collegato alla giurisdizione di un certo Antonio "metropolita di Ravenna e di tutta l’Italia"". Lo stesso Michel Laroche, definendosi "metropolita di Parigi, di Lione e di tutte le Gallie" aveva annunciato al quotidiano la Croix nel dicembre 1998 che il suo arcivescovado "è riconosciuto presso il Patriarcato di Kiev come l’arcivescovado locale della Francia".
Lo stesso Tsetsis, nel suo intervento, avvertiva che l’azione di gruppi dissidenti contro la gerarchia delle Chiese ortodosse locali poteva al momento apparire "folklorica e poco degna di attenzione". Ma se la confusione sulla legittimità canonica delle gerarchie ortodosse aumenta, "essa potrebbe rivelarsi nefasta nei Paesi tradizionalmente ortodossi". Fino a minare la validità e la continuità della successione apostolica delle Chiese ortodosse. Il dato che, insieme all’unità dei dogmi di fede dichiarati nel primo millennio e alla validità dei sacramenti, costituisce un punto di sostanziale comunione tra cattolici e ortodossi.
Il viaggio papale, animato da indiscutibili intenzioni ecumeniche, rischia di interferire in questa partita così delicata. Dove un’endemica pulsione allo scisma e alla separazione rischia di assimilare molte Chiese ortodosse, soprattutto nell’Est europeo postcomunista, alle sette protestanti. Non a caso, la lettera inviata nel gennaio scorso dal sinodo della Chiesa ucraina di obbedienza moscovita al Papa con la richiesta di rinviare il suo viaggio avvertiva: "Se nel corso della vostra visita avverrà l’incontro di Vostra Santità con uno qualunque dei leader scismatici, e in particolare con lo pseudo-patriarca Filaret (Michail Denissenko, il capo del cosiddetto "Patriarcato di Kiev"), anatemizzato dalla nostra Chiesa, ciò vorrà dire che la Chiesa romano-cattolica ignora i principi delle relazioni canoniche tra le Chiese e si ingerisce pesantemente nei nostri affari interni, sostenendo gli scismatici con la propria autorità. […] Ciò significherà praticamente la cessazione di tutti i rapporti tra le nostre Chiese, e in questo modo la conclusione dell’epoca del Concilio Vaticano II nelle relazioni cattolico-ortodosse. Noi preghiamo il Signore affinché ciò non avvenga". Di contro, proprio Filaret, nell’imminenza del viaggio papale, tenta di occupare la scena presentandosi come un ospitale padrone di casa (Aprirò l’Ucraina al Papa è il titolo di una sua lunga intervista pubblicata su la Repubblica‚del 15 marzo scorso, in cui celebra la visita del Papa come "un’occasione storica, senz’altro paragonabile all’incontro tra papa Paolo VI e il patriarca di Costantinopoli, Atenagora"). Il rompicapo che impegna in questi giorni la diplomazia vaticana è proprio questo: limitare per quanto possibile i contatti con Filaret e i suoi, che possano essere strumentalizzati come taciti riconoscimenti di un’entità che fino ad oggi non è riconosciuta da nessuna delle Chiese della comunione ortodossa. Non sono previsti, al momento, incontri bilaterali tra il Pontefice e gli alti gerarchi della Chiesa di Filaret. Sembra comunque difficile evitare che il Papa e Filaret si incontrino, almeno nel ricevimento presidenziale dove Kuchma inviterà i leader di tutte le comunità religiose ufficialmente registrate. Da molto tempo, del resto, gli ortodossi di obbedienza moscovita raccontano di un’affinità elettiva che, nell’ottica del nazionalismo ucraino, legherebbe la Chiesa greco-cattolica al Patriarcato di Filaret, che pure, quando era ancora un metropolita del Patriarcato di Mosca, aveva fama di ostinato antagonista dei greco-cattolici costretti alla clandestinità. In effetti, già il 2 giugno del 1996, Filaret occupava il posto d’onore alla cerimonia di intronizzazione di monsignor Lubomyr Husar come esarca di Kiev per i cattolici di rito bizantino. Il 25 gennaio di quest’anno monsignor Husar è stato nominato dal sinodo della Chiesa greco-cattolica ucraina arcivescovo maggiore di Lviv. Il Papa lo ha creato cardinale nel concistoro dello scorso 21 febbraio.

Baci e bacilli
Il nuovo corso dell’ecumenismo cattolico, in cui tutta la scena appare conquistata dal Papa e dalla pedagogia spettacolare dei suoi viaggi, prende il largo in una fase di forte depressione nei rapporti con le Chiese ortodosse e dei loro tradizionali canali di comunicazione.
L’ottava sessione plenaria della Commissione mista per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, tenuta nei pressi di Baltimora lo scorso luglio dopo un ristagno di ben sette anni, è stata un fiasco anche a detta di commentatori solitamente ottimisti. Proprio lì le obiezioni ortodosse sull’esistenza delle Chiese cattoliche di rito orientale hanno superato la contesa materiale sulle proprietà e i luoghi di culto seguita al riaffiorare delle comunità greco-cattoliche nei territori canonici ortodossi dopo la fine del comunismo, per rivelare il loro profilo teologico. Con i rappresentanti ortodossi che insistevano per definire come "anormale" lo statuto ecclesiale delle comunità che dal XVI secolo hanno abbandonato l’Ortodossia e sono tornate alla comunione con Roma, conservando riti e tradizioni orientali. Mentre, per i cattolici, proprio la comunione con la Sede di Roma costituiwce la garanzia della piena "normalità ecclesiologica" delle Chiese cattoliche di rito orientale. Come ha scritto sull’Osservatore Romano monsignor Eleuterio Fortino, storico sottosegretario al Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, "la questione della nascita delle Chiese orientali cattoliche è quindi connessa con la questione del primato e della necessità della piena comunione. In definitiva quella questi_ne troverà la soluzione nell’accordo da cercare con gli ortodossi sul ruolo del vescovo di Roma nella Chiesa di Cristo". Una prospettiva che fa dipendere ogni progresso con gli ortodossi dalla soluzione della questione capitale. Che, a viste umane, non sembra certo imminente.
Resta da vedere se la nuova strategia ecumenica, tutta determinata dalle performance papali, riuscirà a far breccia nelle obiezioni dei fratelli d’Oriente. O se, al contrario, proprio il profilo esorbitante del superpontificato wojtyliano finirà per esacerbare ancor di più le pulsioni antiecumeniche che percorrono tutto il campo ortodosso.
Nel giugno del ’98, nel vertice di Tessalonica, i primati delle Chiese ortodosse hanno stabilito il principio di non partecipare a preghiere comuni e a cerimonie religiose in occasione di incontri ecumenici. A questa indicazione, messa in atto per la prima volta nell’assemblea generale del Consiglio ecumenico delle Chiese ad Harare (1998), si sono attenuti anche gli ortodossi che hanno incontrato il Papa nelle sue visite in Georgia e sul Monte Sinai. Mentre crescono dovunque (Russia, Grecia, Georgia, Bulgaria) correnti e movimenti integralisti, forti soprattutto presso il clero più giovane, che ricattano le gerarchie formatesi in epoca sovietica per l’eccessiva condiscendenza mostrata verso "l’eresia ecumenica". Il simbolo di questa recrudescenza rimane il famoso autodafé di Ekaterinburg, il rogo ordinato dal vescovo Nikon nel maggio ’98 in cui furono bruciati in piazza i libri scritti da teologi come i padri Alexander Men’ e lexander Schmemann, accusati di modernismo e di eccessivo ecumenismo.
Con tutte le critiche all’ecumenismo possono però essere liquidate come espressione di integralismo fanatico. Esiste anche un’insofferenza alla retorica del dialogo e all’ecumenismo-spettacolo non priva di argomenti plausibili. Quella che, per esempio, è stata espressa in una recente intervista concessa alla rivista Vjesti dal diacono Andrej Kurajev, professore di Teologia presso l’Università del Patriarcato di Mosca. Il quale, dopo aver pagato il suo tributo al tradizionale pregiudizio antipolacco ("Giovanni Paolo è anzitutto un polacco che fa il papa. […] La Polonia è il mediatore meno adatto nel dialogo tra il mondo occidentale e la Russia"), suggerisce una moratoria dei contatti ecumenici usando argomenti non privi di un certo realismo: "È difficile pensare alla Chiesa cattolica come a un organismo spiritualmente sano. Anche la nostra realtà ortodossa non è che goda di grande salute. Ora immaginatevi che due malati inizino un dialogo, e si scambino il bacio di pace. La cosa più probabile è che si infettino a vicenda, non che si aiutino a guarire. [...] Per non sembrare un chiacchierone, cerchiamo di ricordare che cosa piace più di tutto al russo contemporaneo che entra in contatto con il cattolicesimo: il fatto che in chiesa ci siano le panche e ci si possa sedere. E che cosa piace agli occidentali dell’Ortodossia? Che da noi ci si possa sposare una seconda volta [...]. Il fatto è che il cattolicesimo, come appare sempre più evidente con lo scadere di ogni decennio, è sempre più soggetto all’influsso di una secolarizzazione crescente, alla quale è soggetta anche la Chiesa ortodossa, ma in misura decisamente minore. Per questo mi pare che sia meglio, a conti fatti, restarcene a distanza l’uno dall’altro. È chiaro che mantenere le distanze non vuol dire farsi la guerra".


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