Home > Archivio > 03 - 2002 > Don Orione incontra l’Italia
DOCUMENTO
tratto dal n. 03 - 2002

Don Orione incontra l’Italia


La relazione del cardinale Giovanni Canestri al convegno “Don Orione e il Novecento”, tenuto presso la Pontificia Università Lateranense a Roma nel marzo 2002


del Cardinale Giovanni Canestri


Don Orione

Don Orione

L’Italia, incontro alla quale va don Orione, non era quella immaginata da un innamorato esigentissimo come Dante (Ahi serva Italia, di dolore ostello), né quella del romantico Goethe (Conosci tu il paese dove fioriscono i cedri, fiammeggiano nel cupo fogliame le arance d’oro?), né quella del roboante classico Carducci (Italia, Italia, egli gridava ai desueti orecchi) e neppure quella dell’enfatica autarchia. Era – per scelta preferenziale – l’Italia dei poveri, dei diseredati, degli handicappati fisici e mentali, dei nobili decaduti, dei terremotati, degli emigranti, delle mondine, dei governi anticlericali... Ma il titolo [della mia relazione] Don Orione incontra l’Italia pretende un richiamo a lui, al ragazzino di Pontecurone, il paese dei gozzi, alessandrino e piemontese; e seminarista e prete della diocesi di Tortona, vasta, bella e storicamente prestigiosa.
Per quattro anni dal 1971, per volontà del santo padre Paolo VI, sono stato vescovo di Tortona. Quale grazia! Quanti ricordi... Vinco la tentazione di... tornare indietro con richiami sempre vivi nel mio cuore. E anche tanti ricordi di don Orione italiano, piemontese, alessandrino, tortonese e santo.

Italiano. Convinto. Prete
Ma chi era e come era don Orione che incontra l’Italia? È italiano. Convinto. Prete. «A destra della croce di Cristo la bandiera d’Italia», è uno dei suoi razzi fulgidi e folgoranti.
Il suo fisico? Il cardinale Montini, arcivescovo di Milano: «Sembra una persona semplice, don Orione, sembra un umile prete di pochi talenti e di poca fortuna; sembra, con quel suo capo grosso, rotondo, direi paesano... un po’ curvo sulle spalle quasi che indicasse una sua timidità... Ma provate ad esplorarlo!». Ci ha provato don Giuseppe De Luca da ammiratore, da prete, da artista e – per dirla nel gergo sportivo – da tifoso: «I suoi occhi facevano luce e le sue parole medicavano; tutta la sua persona vivissima e irrequietissima era nella pace e a baciargli la mano ci si tratteneva come a dissetarsi di questa pace...». E ancora: «Mai mi accade di avvicinare don Orione senza che io provi qualcosa che assomiglia, non so come dire, ai moti d’amore: una meraviglia, un incantamento...».
Don Sparpaglione: «I suoi occhi erano capaci di tutte le espressioni: della bontà, dell’intelligenza, della compassione, dello sdegno, dell’ira... Lui ne conosceva la potenza e la sfruttava in bene: occhi neri, grandi, luminosi, sorridevano, scrutavano, ammaliavano; uniti alla voce sdegnosa e tonante, fulminavano...».
Eppure don Orione non era ancora tutto lì... C’era un segreto. Il papa Pio XI, da giovane sacerdote – come ospite per qualche giorno – aveva da vicino osservato con curiosità intelligente e con senso pratico ambrosiano le giornate di don Bosco: preghiera e lavoro, lavoro, lavoro e preghiera... ma aveva fatto una scoperta: in qualunque momento della sua giornata don Bosco era sempre “altrove”. Don Orione dal suo grande amico e maestro all’oratorio aveva imparato bene la lezione. Il segreto di don Orione era la santità. Santità vera che operava nella carità, nello zelo e nell’umiltà. Auspice Maria: «Portami, o Vergine benedetta, fra le moltitudini. Sorretto dal tuo braccio potente tutti io porterò a Te». E il largo respiro missionario nel giorno della prima santa messa celebrata per i suoi monelli dell’oratorio: «Preservatemi, o Dio, dalla funesta illusione, dal diabolico inganno che io, prete, debba occuparmi solo di chi viene in chiesa e ai sacramenti».

Capì il suo tempo più di qualunque altro
«Tortona, cara città del mio pianto e del mio amore, canta a Dio un cantico nuovo, l’inaugurazione del tuo santuario è un’aurora. Vedi quei piccoli lavoratori del santuario? Ti sembrano garzoni lavoratori e sono chierici. Quei giovani cresciuti alla santa fatica, Dio li trasformerà in apostoli...».
Città del mio amore. Il santuario della Madonna della Guardia! Ideato e costruito nel luogo meno indicato dalla natura, dalla politica, dalla pietà, dall’igiene e dall’urbanistica, è una realtà da ammirare. È opera di don Orione. Ma non si poté mai dire, lui vivente. Chi tentava di fargli un elogio in pubblico o in privato rischiava di alienarsi la sua amicizia. Protestava: «È la Madonna che s’è fatto il santuario!».
Il patriarca di Venezia, Angelo Giuseppe Roncalli, presente a Tortona per la festa della Guardia il 29 agosto del 1958, poche settimane prima dell’elezione a Sommo Pontefice, aveva constatato che le fondamenta di tutto l’edificio con la bella torre campanaria da dove Maria benedice la diocesi tortonese, erano fede, preghiera e amore che don Orione aveva praticato e insegnato.
Sì, le armonie di Lorenzo Perosi e la santità di Luigi Orione, coetanei, compagni di scuola, amici fraterni, hanno portato il nome della diocesi di Tortona ben oltre i classici confini dall’Antola al Po. E Orione e Perosi convergono: la santità «è musica profondissima e altissima...» mentre gli oratori musicati sono «evangelizzazione moderna».
E il vescovo, monsignor Igino Bandi, intelligente, brillante ed esemplare per tanti vescovi italiani, non sempre riesce a capirlo, ad arginarlo, ad intuire gli scoppi di fuoco di quel vulcano che, invece, capisce il vescovo, gli obbedisce, sa fare qualche pausa come gli ha insegnato il grande Perosi. Non pausa-conclusione, ma soltanto interruzione per risentire fino in fondo al cuore le armonie precedenti e per preparare del vulcano gli scoppi di fuoco e di luce e di debiti. Dei rapporti fra il vescovo di Tortona e Orione, seminarista ventenne che “giocava” a fare il fondatore, leggiamo il commento dell’arcivescovo di Genova, il cardinale Giuseppe Siri: «Si capisce la grandezza di personalità di monsignor Igino Bandi quando lo si vede a confronto con l’umile don Orione, che vince, che vince senza fare del vescovo uno sconfitto, ma un benefattore». Ancora: «Capì tutto il suo tempo più di qualunque altro...; il rischio, umanamente calcolato, lo spinse molte volte, forse sempre, fino al limite del verosimile testimoniando la certezza della luce interiore».
Anche a Tortona, agli inizi delle prime vampate vulcaniche, molti non lo capirono e ci fu chi lo osteggiò sempre.
Abbiamo letto anche: «Cara Tortona, città del mio pianto». Ciarle, oppositori interni, invidie, calunnie lo mettono in cattiva luce e provocano una visita apostolica: è una ferita nell’animo che sopportò da santo. Ma l’ora del dolore è passata. Ora Tortona si rapporta con il più grande dei suoi figli soltanto con gioia, con amore, con gratitudine e con fierezza.
Ormai a Tortona le opere di carità si chiamano don Orione e tutti ne sono protagonisti generosi. Arrivato io vescovo – sprovveduto – nella diocesi di don Orione, mi sono divertito ad una battuta di dolce polemica del vescovo ausiliare, monsignor Angeleri, tortonese, anziano, pacato e dolcissimo. Mi raccontava dei rapporti amichevoli fra la popolazione e la curia. «Però», mi diceva con l’aria di rivelarmi un segreto di famiglia, «mi fanno fare tante e tante raccomandazioni per trovare lavoro e quando – spesso – le segnalazioni riescono bene, vengono a ringraziarmi molto gentilmente in curia ma poi concludono: “Stia tranquillo, passo subito da don Orione...”. E il bravo e candido vescovo ausiliare concludeva con un sussurro confidenziale: “Purtroppo!”».
Sarà bene annotare subito che a Tortona e in Italia la simpatia per don Orione è ora trasferita ai suoi figli: la Piccola Opera della Divina Provvidenza e le Piccole Suore Missionarie della Carità.

La notte di preghiera
alla Madonna della Guardia
La bella, la ricca, la marinara, la libera, la superba, e gli aggettivi qualificativi potrebbero continuare. Talvolta, chi sa che ho trascorso otto anni della mia vita come arcivescovo di Genova vuol sapere se era proprio vero che il cardinale Siri fosse un grande e se è vero che i genovesi siano avari...! Alla prima domanda un sì convinto e sincero. Risposta alla seconda domanda: uno sviluppato senso di autoironia induce i genovesi a ridere di sé, inventando e raccontando esilaranti episodi di vita quotidiana all’insegna dell’avarizia. Un gruppetto di amici effettua da Genova una bella gita in Val d’Aosta. Durante l’escursione, sono costretti a rifugiarsi in una baita per ripararsi da una terribile bufera di vento e di neve, la tipica tormenta. Una squadra di soccorso, dopo una mattinata di ricerche senza esito, nota sopra uno sperone di roccia una ennesima baita. Ecco, i soccorritori sono saliti fin lassù. La baita è chiusa. Bussano. Da dentro: «Chi è?». «Siamo la Croce Rossa». Da dentro non solo non aprono, ma risponde qualcuno guardingo con tre parole ben misurate: «Abbiamo già dato!». Il tempo non mi permette di agghindare di fronzoli spassosi il racconto dell’escursione alpina come l’hanno inventata e come l’abbelliscono i genovesi. Eppure, quasi incredibile ma vero, Genova ha aiutato don Orione più di ogni altra città. Ascoltiamolo: «O Genova, città di Maria. Anch’io povero peccatore vorrei morire fra le tue mura perché sei la città di Maria. Lascia, o Genova, che io mi congratuli con te e ti saluti con le storiche parole che rivolgeva a te il grande san Bernardo: “In eterno sarò memore di te, popolo eletto”. Ho girato tanto per l’Italia, ma non ho trovato, e lo dico non per interesse, non per farvi insuperbire, non ho trovato un cuore così largo e generoso come il genovese. Il genovese sarà rude, ma ha un cuore grande, un cuore nobile...». E il grande cardinale Siri, nato e vissuto sempre a Genova a lungo, a lungo arcivescovo della sua città che conosceva come pochi, mi raccontava un episodio di cui era stato testimone de visu a proposito della generosità dei genovesi per don Orione. Una sera il prete di Tortona aveva fatto tardi per ascoltare i suoi benefattori della Lanterna, consolando, confessando, ricevendo come faceva per due giorni la settimana, e correva per arrivare in tempo a prendere il treno per Tortona. Una piccola folla lo inseguiva. «Non credevo ai miei occhi, tutti avevano denari in mano da offrire a don Orione per le sue opere di carità. Mi creda», concludeva il principe Siri, «queste cose non è facile vederle in altre città, ma proprio a Genova...».
Mi piace ricordare ancora la notte di preghiera di don Orione ai piedi della Madonna della Guardia sul monte Figogna, invocando: «Vergine benedetta, Vergine tutta santa...».

I romani sono abituati a tutto
Dicono che Vittorio Emanuele II confidasse all’onorevole Marco Minghetti, presidente del Consiglio, che da quando era sbarcato a Roma ci teneva a fare qualche passeggiata per la capitale, ma si rammaricava, da buon buzzurro, che il popolo romano, a differenza dei torinesi, neppure lo salutava. E la risposta di Minghetti, da autentico toscano: «Maestà, non ci faccia caso: i romani, come i toscani, non salutano mai per primi. Sono abituati a tutto! Ripensi che tempo fa questa gente ha avuto un giovanissimo assessore che poi ha fatto un po’ di carriera». Pausa. «Si tratta di un certo Giulio Cesare...». Il popolo romano! Bisogna studiarlo, conoscerlo, amarlo. Ma prima studiare, conoscere e innamorarsi di Roma.
Imparare Roma, direbbe Giovanni Paolo II. Tutti sappiamo delle attenzioni di papa Sarto per la romana Patagonia che portarono Pio X ad affidare a don Orione quella che allora era la periferia ultima della città: si diceva “fuori porta San Giovanni”. Perdonatemi se mi abbandono a ricordi personali raccontando il mio unico incontro con don Orione a Roma. Durante la celebrazione del funerale del papa Pio XI in San Pietro. Ero in seconda fila come alunno del Seminario Maggiore di Roma e proprio davanti a me era presente don Orione che indossava una cotta candidissima sulla talare. Ricordo bene. Mentre la pesante bara di piombo veniva fatta scendere lentamente nella Confessione per essere collocata nelle Grotte Vaticane, le carrucole, nel silenzio della basilica, carico di suggestione e di storia, cigolavano, spietatamente cigolavano sotto lo sguardo allibito e sdegnato del maestro delle cerimonie monsignor Respighi. Don Orione, invece, compreso e commosso, ad ogni cigolio scuoteva cotta e testa candida come per assentire ad alti pensieri di meditazione e di preghiera. Un solo indimenticabile incontro personale con don Orione, ma ben nove anni a contatto immediato e costante con l’opera più significativa di lui a Roma: la chiesa parrocchiale di Ognissanti con annessa la grande, bella, efficentissima scuola, costruita per i figli del popolo, da lui intitolata a san Filippo Neri. Mi sembra necessario precisare che fui per nove anni viceparroco a San Giovanni Battista De Rossi, una parrocchia nuova smembrata da Ognissanti. Innegabilmente si respirava aria orionina!
Dalla grande parrocchia madre furono smembrate una decina di parrocchie, ma Ognissanti rimase la parrocchia “dei primi tempi”, dei “bei tempi”, la “nostra parrocchia”. Parrocchia sempre amata e rimpianta (il primo amore non si scorda mai!). E i parroci delle nuove parrocchie dovevano accontentarsi delle rivendicazioni garantite dal Codice di Diritto canonico del 1917. Ma si dovette attendere che passasse quella generazione per creare nuove e vere comunità. Sinceramente devo confessare che mai ho notato adescamenti... pastorali da parte degli orionini di Ognissanti.
Don Orione tornava a Roma volentieri. Incontrava i suoi figli e le sue figlie e tanti amici come don Giuseppe De Luca, don Umberto Terenzi, padre Cappello... Dimenticavo fra gli amici i “suoi” papi: Pio X (quello dei voti perpetui e del Credo), Benedetto XV, Pio XI (si sta studiando quale parte abbia avuto don Orione nel preparare la Conciliazione) e Pio XII.
Ancora un sussulto del vulcano fiammeggiante di fede e di amore: «O Chiesa veramente cattolica, santa madre Chiesa di Roma, unica vera Chiesa di Cristo, mille volte ti benedico e mille volte ti amo, bevi il mio amore e la mia vita!».
Don Orione da Giovane

Don Orione da Giovane


Molto vi amo in Gesù Cristo
e ho anche pianto lungamente
Capitando in Abruzzo, non solo da giovane, mi piaceva visitare a Pescina la tomba di Ignazio Silone. Pellegrinaggi letterari? Forse, ma anche qualcosa in più... Ho ripetutamente letto il racconto dell’avventura dell’orfano ribelle, Ignazio Silone, con don Orione (Uscita di sicurezza). È narrazione ricca di tristezza, di sorpresa, di ammirazione, di gratitudine e – chissà? – di fede. Proprio Silone nel romanzo postumo Severina afferma (attraverso la protagonista): «non credo... ma spero». Non aveva scritto Péguy, il credente devoto di Maria: «La fede che mi piace di più è la speranza»?
Don Orione era arrivato in Avezzano da solo, fra la miseria e il dolore, la disperazione e la morte e, dopo mesi eroici in umiltà, era partito da solo. Arrivato a Tortona per riprendere, in pace e serenità, il suo calvario, così rispondeva a un giovane della Marsica che, dopo averlo ringraziato, si lamentava che la sua partenza solitaria lo aveva colto di sorpresa: «Non restate offesi se sono partito senza salutarvi... Vi dirò che quantunque sia partito di nascosto, nel lasciarvi ho sofferto molto... molto vi amo in Gesù Cristo e ho anche pianto lungamente pensando che abbandonavo degli orfani e pensando al vostro avvenire».
Il giudizio della figlia maggiore di Federico von Hugel: «Nel mezzo della morte e del disordine, si muoveva, completamente assorto nella sventura di quei poveri contadini, don Orione, un umile prete, un uomo cui molti guardano come a un santo». I poveri contadini sono i “cafoni” con le famose gerarchie, presentati da Ignazio Silone nel romanzo Fontamara.
Fame, Freddo, Fatica, Fastidi, Fede, Fumo, Fiat.No. Non è durante gli interminabili giorni trascorsi per ordine di san Pio X a Messina e a Reggio Calabria in occasione del terremoto del 28 dicembre 1908 che don Orione ha sintetizzato nelle sette effe la figura del prete orionino. Ma il settenario ora citato dice tutto, ancora una volta, su don Orione e anche sulla sua presenza in aiuto spirituale e materiale delle popolazioni calabresi e siciliane poverissime. In altro contesto, ancora una volta, citando san Francesco d’Assisi, aveva proclamato che nelle sue case non c’era posto per i frati mosca (sfaticati) né per i frati Elia (vanitosi e mondani). E ancora una volta presentava la carta d’identità a proposito degli orfani da ricoverare nelle sue case di Noto e di Cassano Ionio. «Ricevo esclusivamente quando le altre porte sono chiuse o quando si tratta di casi urgenti». Trascrivo letteralmente da Alessandro Pronzato: «Purtroppo anche in momenti così tragici affiorano particolarismi, settarismi, meschinità, invidie...».
Finisco con un racconto di vita parrocchiale a San Giovanni Battista De Rossi. Un giorno a pranzo, monsignor Marcello Urilli, confidò a noi suoi quattro viceparroci che era stato in udienza dal cardinal vicario Francesco Marchetti Selvaggiani e, piangendo molto, gli aveva confidato che da qualche mese soffriva per calunnie infamanti che gli arrivavano attraverso lettere anonime. Marchetti, che lo amava, lo aveva tranquillizzato ma alla sua maniera: «Non fare lo stupido; non vorrai mica pretendere di essere l’unico prete di Roma che non ha a che fare con le lettere anonime!». E poi: «Sai che te dico? Queste cose capitano ai santi...! Come siamo noi due...» e cambiando tono di voce, «ma questo non lo dire ai viceparroci!». E monsignor Urilli si consolò di non essere stupido e si convinse ancora una volta che bisogna farsi santi.
E don Orione? Tutto idem come monsignor Urilli. E, nonostante le calunnie di Messina e di Tortona, riuscì a diventare santo per davvero!

Vorrei essere un poeta
e un santo per parlare della carità
È un tema che – mi pare – non si possa narrare brevemente. Ricorderò il successo della prima conferenza-lezione all’Università Cattolica sull’apostolato della carità nel mondo, “Vorrei essere un poeta e un santo per parlare della carità”, e anche del successo della seconda conferenza in cui parlò di Manzoni e di tutte le opere di beneficenza milanesi meno che della propria. Le varie biografie del santo arcivescovo di Milano e del santo di Tortona mettono ripetutamente in evidenza il costante interessamento del cardinale Schuster per don Orione e per la sua opera a Milano, il Piccolo Cottolengo, sempre stimata, difesa e promossa. Lasciatemi ripensare ad alcune mie meditazioni giovanili sulla carità e sulla Provvidenza nei Promessi sposi. Là c’è la Provvidenza... il saluto di padre Cristoforo a Renzo e Lucia invitati a dire ai figli futuri «che perdonino sempre, sempre, tutto, tutto»; il discorso al Lazzaretto del «mirabil frate» padre Felice, cappuccino: «Per me e per tutti i miei compagni, che senza alcun nostro merito siamo stati scelti all’alto privilegio di servire Cristo in voi [appestati]». Quanta affinità del pazzo della carità con gli scritti del grande romanziere cristiano!
Ricordo la battuta semiseria del cardinale Schuster che non avrebbe ricevuto don Orione se dall’America fosse tornato ricco... E il quarto d’ora d’ilarità che si era concesso don Orione quando gli riferirono della minaccia. E lasciatemi anche ricordare Clemente Rebora, il poeta ateo, ma per anni tormentato da Gesù cui non voleva arrendersi. Rebora, amico fraterno di don Orione che certamente avrebbe firmato le liriche del convertito, presentato al cardinale Schuster da sua eminenza monsignor Angelo Roncalli allora nunzio e poi sommo pontefice Giovanni XXIII. Il cardinale di Milano amministrò a Rebora la prima comunione e la cresima e lo ebbe sempre caro specialmente quando intuì i segni della vocazione sacerdotale di Clemente nella Congregazione fondata da Antonio Rosmini, a sua volta amico di don Orione.
C’è da turbarsi leggendo di Rebora: «O carro vuoto sul binario morto»; altre volte c’è anche da vergognarsi: «Urge la decisione tremenda. Dire sì, dire no a qualcosa che so». E anche da sorridere di sé giocando ai giochi d’amore: «Ma provati a chiamarmi, da te io fuggirò, ma provati a lasciarmi, con te io resterò».
Nel concludere i rapporti di don Orione con Milano, con il cardinale Schuster, con Giovanni XXIII, con Clemente Rebora, ancora un ricordo. Passava la folla che accompagnava in trionfo la salma di don Orione per le strade di Milano ed era tanta che incuriosiva due netturbini: «Cos’è tutta questa gente?». E la risposta: «È il funerale di un prete che, però, era proprio un brav’uomo, nonostante...» (La gazzetta del popolo, Torino, 2 giugno 1972).
Cardinale Giovanni Canestri



Español English Français Deutsch Português