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BRASILE
tratto dal n. 03 - 2001

Grato del battesimo


Parla il cardinale Paulo Evaristo Arns, arcivescovo emerito di San Paolo del Brasile: «Io sono grato del battesimo che ho ricevuto. Quanto al titolo episcopale... sono vescovo mio malgrado»


di Stefania Falasca


Un bel temporale è quello che ci voleva. Uno di quei temporali tropicali che aiutano a respirare almeno un po’ in questa calura soffocante impastata di smog nel caotico traffico paulista. Ed è questo che ci coglie di sorpresa mentre andiamo ad incontrare qui, a San Paolo del Brasile, Paulo Evaristo Arns, l’arcivescovo emerito della megalopoli latinoamericana. L’appuntamento è fissato per le quattro del pomeriggio, nell’antica chiesa di San Francesco, vicino alla cattedrale. Con i suoi cinquantasei anni di sacerdozio, dei quali ventotto vissuti come pastore della più grande metropoli del Sud America, con la sua spiccata personalità e la consistenza di un carattere tenacemente perseverante nella difesa dei poveri e degli oppressi, dom Paulo è una pietra miliare della storia della Chiesa brasiliana e non solo.
Il francescano Arns ha lasciato la guida dell’arcidiocesi di San Paolo il 17 maggio del 1998, dopo aver presentato le dimissioni al Papa per raggiunti limiti di età. Il 14 settembre prossimo compirà ottant’anni. Dom Paulo tuttavia non ha perso la sua ferma lucidità e quella sua particolare vividezza di giudizio che può scaturire solo da uno sguardo aperto, libero. «Tutte le sottomissioni da schiavo del mondo non valgono un bello sguardo di uomo libero» recita un verso di Péguy che il cardinale Arns ha ripreso più volte. In questo momento sta preparando un libro di memorie. L’ultima volta che lo abbiamo incontrato è stato in occasione della ricorrenza dei venti anni dalla morte di Paolo VI e di Giovanni Paolo I. Ci aveva raccontato la sua storia, l’amicizia e i ricordi personali riguardo ai due pontefici. Eccoci ora ad un nuovo appuntamento.

Eminenza, è cambiata molto la sua vita da quando ha lasciato la guida dell’arcidiocesi di San Paolo?
PAULO EVARISTO ARNS: Per prima cosa mi sono trasferito in periferia per lasciare la totale apertura d’azione su tutta la città al nuovo arcivescovo e ai suoi vescovi ausiliari. Non ho alcuna influenza. Mi sono ritirato.
E cosa fa adesso? Come trascorre le sue giornate?
ARNS: Ogni giorno, al mattino e alla sera, parlo alla radio Nove de Julho, la radio cattolica che era stata chiusa sotto il regime militare. Al mattino faccio una meditazione biblica e alla sera rispondo alle domande della gente. Incontro sempre persone, scrivo articoli. La cosa principale della giornata è la messa cantata che adesso celebro ogni giorno nell’ospizio per anziani vicino alla mia residenza e l’officio che recito con la comunità religiosa di suore che abitano nella mia casa. Tre volte al giorno recitiamo l’officio insieme, come si fa in convento.
Adesso ha più tempo da dedicare alla preghiera, ma se ben ricordo, queste erano le stesse cose che faceva anche prima...
ARNS: Quando si diventa vecchi si tende a vedere le cose nella loro essenzialità, si tende ad essere essenziali. Il mio grande amico, dom Hélder Câmara, scomparso due anni fa, mi diceva sempre con molto affetto: «Guarda che la cosa più importante, la più importante di tutte, che tu puoi fare per la Chiesa è la celebrazione della messa e la recita delle orazioni». Sempre mi ripeteva questo. E questo sempre faccio.
Quest’anno lei festeggia trentacinque anni di ordinazione episcopale...
ARNS: Io sono grato del battesimo che ho ricevuto. Quanto al titolo episcopale... sono vescovo mio malgrado. Io non volevo essere vescovo, e non lo dico tanto per dire, per falsa umiltà, è la verità. Figuriamoci poi arcivescovo. Per tre volte rifiutai per iscritto. Ricordo che al quarto sollecito per la prima volta in vita mia piansi. Mi trovavo in quel momento a Roma per il capitolo dell’Ordine e mi chiamarono al palazzo della Congregazione dei vescovi, uscii da lì e mi ritrovai a piangere a dirotto sulla tomba di Pietro.
So che sta scrivendo le sue memorie. Quando sarà pronto il libro?
ARNS: È già pronto. Ho scritto già l’ultima frase e sto valutando la proposta dell’editore. Prima di pubblicarlo lo sottoporrò come sempre alla curia metropolitana. Credo che uscirà in settembre, quando compirò ottant’anni.
Lei è molto tempo che non viene a Roma...
ARNS: Negli ultimi sei anni ci sono stato credo una sola volta.
È mancato quindi a tutti i grandi appuntamenti romani che hanno caratterizzato la Chiesa in questi ultimi tempi: dagli eventi pregiubilari al Giubileo stesso, ai concistori per i nuovi cardinali...
ARNS: Sì.
C’è qualche ragione?
ARNS: Dall’attentato subito nel 1992 la mia salute è stata compromessa ed è andata peggiorando, pertanto il medico mi ha proibito di fare lunghi viaggi. Ma ora spero di andare al prossimo concistoro che il Papa ha convocato a maggio. Sempre se il medico me lo permetterà.
Dunque il Giubileo lei lo ha fatto qui in Brasile...
ARNS: Qui a San Paolo. Ho fatto il Giubileo in tutte le chiese che sono state indicate come santuari ed ho potuto parteciparvi con parecchie comunità parrocchiali. Loro ci tenevano molto ad avere un vescovo in certe occasioni. C’è stata molta partecipazione.
Le dispiace di non essere potuto venire a Roma?
ARNS: Quello che mi è dispiaciuto è di non essere potuto andare in visita alle tombe degli apostoli, perché l’Anno Santo è un’occasione particolare per questo.
Quali giubilei ha fatto in passato a Roma?
ARNS: Sono venuto a Roma in pellegrinaggio per l’Anno Santo del 1950. Allora ero studente alla Sorbona e da Parigi sono venuto con i compagni di studio. Poi ho partecipato a quello del 1975 con Paolo VI. Con lui ero stato anche in Terra Santa. Ricordo la celebrazione eucaristica che vide la maggiore concentrazione di persone di tutto l’Anno Santo 1975. Era fine agosto o inizio settembre, c’erano non meno di centocinquantamila persone in piazza San Pietro ed io ero l’unico cardinale presente accanto al Papa.
Anche se non è venuto a Roma, avrà però sicuramente seguito gli eventi giubilari dalla televisione. Che impressione ne ha avuto?
ARNS: Non guardo molto la televisione. E spesso le immagini da noi giungevano la sera tardi. Ho seguito in particolare il Giubileo dei giovani. Questa immagine è stata molto buona come notizia per la gioventù del Brasile. Quanto più si è distanti dal centro dell’evento tanto meno appare spettacolo e quello che appare sembra vero. Visto da lontano sembra tutto più vero.
Perché dice così?
ARNS: Il pericolo di tutte le grandi feste, delle strutture celebrative, soprattutto di un Giubileo, nello stato attuale, è che i conti con la vita quotidiana non tornino.
Il Papa stesso ha però appena detto che bisogna tornare al tempo ordinario e nel prossimo concistoro verranno indicate le linee guida per l’azione della Chiesa...
ARNS: L’unica possibilità che io vedo è che la Chiesa diventi missionaria. Lo spirito missionario è condividere e partecipare. E non può essere una messa in scena o uno spettacolo.
In una recente intervista il cardinale König ha fatto questa osservazione: «Fa impressione vedere che oggi l’opinione generale è che la Chiesa la faccia il Papa. Nell’immagine che prevale nel mondo il Papa è visto come un grande stratega religioso che elabora e persegue una strategia con i suoi collaboratori e la Chiesa è vista come il prodotto di questa strategia. Ma tutta la tradizione non insegna questo riguardo a Pietro e ai successori. Non sono loro che fanno la Chiesa». Lei cosa pensa a riguardo?
ARNS: Il battesimo vissuto è ciò che ci fa Chiesa, tutto il resto sono solo ministeri e servizi.
Uno degli aspetti che hanno caratterizzato la sua attività pastorale in San Paolo è stato proprio quella di dare spazio, di dar voce all’apostolato dei laici...
ARNS: L’ultimo Concilio ecumenico ha riconosciuto i laici battezzati come i soggetti della vita ecclesiale. Forse nell’immagine attuale della Chiesa si ha una differente visione della loro presenza. Ma qui la loro partecipazione fa parte della normalità. Proprio nella zona di periferia dove attualmente vivo, ad esempio, sorsero le prime comunità di base, in cui erano soprattutto i laici ad essere pienamente coinvolti nell’annuncio cristiano e nelle necessità che la realtà poneva. Qui in San Paolo la presenza dei laici è stata fondamentale. Sono stati preparati ad attendere alle celebrazioni come il battesimo, il matrimonio. Là dove i sacerdoti non ci sono o sono pochi, questi sacramenti sono stati affidati a loro. Il lavoro dei sacerdoti è sempre stato congiunto a quello dei laici nella semplicità della vita quotidiana, perché la Chiesa fosse realmente presente nella vita e non assente dalla vita, perché il laico si sentisse responsabile quanto il sacerdote. Il laico, il semplice battezzato, ha nella vita della Chiesa tanta responsabilità quanta ne ha il sacerdote, il vescovo e il papa stesso. L’esperienza vissuta insieme ai laici sarà il contenuto principale del libro che andrò a pubblicare.
Un’altra caratteristica della stagione ecclesiale che lei ha vissuto da protagonista era l’attenzione alla diversità dei contesti in cui si testimoniava la comune fede. Adesso secondo lei questa attenzione è ancora viva?
ARNS: Una comunità sarà sempre differente dall’altra. L’unità sull’essenziale è l’unica prova che abbiamo davanti al mondo che siamo Chiesa, popolo di Dio, chiamato a proclamare la fede in Gesù Cristo. Gli uomini accetteranno Cristo nel momento in cui saremo uniti nell’essenziale e rispettosi delle differenze e delle circostanze. La nostra fragilità, raccolti in assemblea, sarà occasione a Dio di manifestare la Sua forza. Noi vogliamo che si tenga conto del concetto di Chiesa particolare, che ci sia una maggiore decentralizzazione nella Chiesa, che non sia tutto concentrato nel papa e nella curia romana, ma sia diversificato per l’Asia, in modo che emerga lo spirito asiatico, e così per l’America, per l’Africa.
La collegialità è un tema a lei particolarmente caro. Come si è espressa nell’arcidiocesi di San Paolo?
ARNS: In una metropoli come San Paolo, per la vastità e la complessità della realtà, si rese necessario che tutti i vescovi ausiliari assumessero la competenza di vicario generale nell’arcidiocesi, e che, al tempo stesso, ad ognuno di loro venisse affidato un territorio proprio nel quale rappresentare l’autorità dell’arcivescovo. Ad ogni vescovo venne poi affidata la responsabilità di coordinare una pastorale specifica per tutta la città. Lavorai insieme a nove vescovi. L’apostolato nell’arcidiocesi di San Paolo è fiorito in questo clima di fraterna collaborazione, di mutuo confronto, di apertura e confidenza, di piena e reale collegialità.
Lei ha detto che questo aspetto è fondamentale nell’azione della Chiesa e che dovrebbe essere riconsiderato in futuro...
ARNS: Non si può snaturare il presupposto profondo della collegialità. Il mondo non è un’unica diocesi con un unico vescovo. La collegialità deve manifestarsi in tutti gli aspetti della Chiesa e deve sempre includere papa, vescovi, sacerdoti e laici. La singola diocesi deve avere una parte molto grande, perché tutta la Chiesa si realizza in ogni diocesi. La diocesi deve avere una forza grande e il vescovo non può essere un funzionario. Il vescovo è un successore degli apostoli e agisce con la libertà dei successori degli apostoli, perché i vescovi sono autentici successori degli apostoli e non semplicemente ministri del papa inviati nel mondo. La stessa cosa vale per le conferenze nazionali dei vescovi di tutti i Paesi. La conferenza dei vescovi deve avere una forza molto grande per risolvere le questioni proprie di ogni Paese. Le riunioni dei vescovi non possono solamente essere dei momenti di consultazione per dare suggerimenti al papa perché li riassuma scrivendo qualche cosa. Ciò che esce da queste riunioni deve essere pubblicato in nome di tutti i vescovi che lì si riuniscono e parlano in nome della Chiesa, come è scritto che fecero gli apostoli, nel capitolo 15 degli Atti. Penso che in questo si esprima l’essenza della collegialità e tale atteggiamento deve entrare con urgenza nella Chiesa come elemento centrale obbligatoriamente necessario affinché si possa avere uno spirito missionario.
Dicono che la Teologia della liberazione è morta. È vero questo secondo lei? E che cosa c’era in quell’esperienza che non è andato perso?
ARNS: La Teologia della liberazione non può morire. È impossibile che muoia, perché la Chiesa è stata istituita per liberare gli uomini dal male. E la fame è un male. La povertà estrema è un grande male, l’ingiustizia nel salario ai lavoratori è un grande male. Tutto quello che è male deve essere combattuto dalla collegialità e da tutta la Chiesa. E non solo dal papa e dalle sue encicliche, ma da tutte le organizzazioni che esistono dentro la Chiesa.
sa Teologia della liberazione è stata tuttavia molto combattuta e osteggiata perché considerata quasi un’eresia...
ARNS: In certi ambienti non è stato capito il significato profondo di quest’esperienza che è tutta contenuta pienamente nella Bibbia, dalla prima all’ultima pagina, dalla Genesi fino all’Apocalisse e in tutta la storia della Chiesa. Per conseguire interessi politico-economici si è voluto far credere che la Teologia della liberazione fosse un’eresia. In questo modo intere popolazioni sono state oppresse e tanti uomini di Chiesa hanno sofferto fino al martirio. Oscar Romero, ad esempio, è stato ucciso in quella stessa terra affidatagli dal Papa dove i diritti dei poveri andavano rivendicati senza alcun compromesso.
In conclusione, quali dovrebbero essere per lei i beni da custodire e da far fiorire nella Chiesa?
ARNS: La migliore sintesi di quello che sono i beni da custodire nella Chiesa l’ha espressa Giovanni XXIII nelle encicliche Mater et magistra e Pacem in terris. Nella Pacem in terris disse che questi beni sono quattro: la giustizia sociale è la prima, assolutamente la prima. La seconda è la solidarietà all’interno del popolo, la terza è la verità e la quarta è la libertà, la libertà dei figli di Dio di poter manifestarsi aiutando a far crescere quello che è buono, quello che c’è di buono. Sono questi i beni dai quali non si può prescindere e senza i quali non si può avere la pace.
Eminenza, mi permetta ancora qualche altra domanda. Tra pochi mesi, a settembre, quando compirà ottanta anni, non potrà più entrare in un futuro conclave come votante. Secondo lei dovrebbe essere rivista la regola che fissa il limite di età ai cardinali elettori?
ARNS: No, no. Assolutamente. Sono pienamente d’accordo con Paolo VI che l’ha fissata. La Chiesa deve sempre ringiovanirsi e mai invecchiare. I giovani devono eleggere.
In seguito al recente concistoro si sono fatte speculazioni riguardo ai cardinali favoriti alla successione a Giovanni Paolo II. Circolano voci ad esempio, negli ambienti ecclesiastici, di possibili alleanze per candidare alla successione di Wojtyla un latinoamericano...
ARNS: Un latinoamericano? No, non credo che attualmente sia possibile. Penso sia molto difficile perché non so quanto Roma possa conoscere bene i latinoamericani.
Il collegio cardinalizio sembra comunque prepararsi al conclave...
ARNS: Guardi, io sono contento di poter lavorare adesso e spero di poterlo fare ancora, ma non mi chieda questo: non voglio più eleggere nessun papa.
In un’intervista di qualche anno fa, disse che per essere papa è necessario avere un poco di diplomazia e avere appoggio da tutte le parti. È ancora dello stesso parere?
ARNS: Noi innanzitutto vorremmo che ci fosse un papa che riportasse l’equilibrio indispensabile per far avanzare la Chiesa con un’anima nuova, un cuore nuovo.
Mi scusi, può spiegare meglio che vuole dire?
ARNS: Quello che volevo dire l’ho detto.


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