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POLITICA
tratto dal n. 03 - 2001

Chiedete a Cesare quel che è di Cesare


Intervista con Giacomo B. Contri


di Giuseppe Frangi


Qual è la posta in gioco nel voto del 13 maggio? Che scenari si potrebbero aprire per la politica, per la società e anche per la Chiesa dopo la sentenza delle urne? E come si inserisce la partita italiana nello scenario internazionale, rimesso in movimento dall’elezione di George W. Bush alla Casa Bianca? Sono questioni di grande respiro alle quali 30Giorni chiama a rispondere un “non addetto ai lavori” come Giacomo Contri. Psicoanalista lacaniano, autore di una grande quantità di studi, direttore di una prestigiosa scuola di pensiero a Milano, Contri è una delle intelligenze più acute nell’Italia di oggi. Ha accettato di parlare su temi non direttamente suoi, perché convinto delle grandi opportunità, non solo politiche, legate alla scadenza elettorale. In particolare Giacomo Contri ha seguito con grande attenzione la decisione di Giulio Andreotti di scendere in campo con una forza che tenterà di dire la sua il 13 maggio, nel gioco, non scontato, tra i due blocchi. Il 12 marzo scorso, quando Giulio Andreotti a Milano, al Teatro Nuovo, ha presentato il suo nuovo progetto politico, Giacomo Contri era in prima fila.
Il fondamentalismo dell’Italia bipolare. Come giudica questo tentativo della politica di eliminare dal suo dna l’idea del compromesso?
Giacomo Contri: Non si aspetti risposte da politologo, bensì da politico, qual è quel nuovo individuo o nuovo cittadino alla cui nascita aspiro, e che io stesso realizzo ben poco. La fine della politica di cui si è tanto parlato è la fine del politico, dell’individuo cittadino.
Ho già avuto modo di esprimere il mio rispetto per Andreotti, e in questa tornata elettorale lo riesprimerò attivamente votando la nuova formazione politica da lui promossa. È un passo, tra altri.
Non si tratta di “tornata” elettorale, di riedizione del noto. Questo bipolarismo – che lei chiama fondamentalista: corretto –, se fosse un invito a cena declinerei l’invito e cercherei nuovi amici o un altro ristorante. Questo o / o mi ricorda la celebre intimazione: “O la borsa o la vita”, un’alternativa in cui si perde in ogni caso, tutt’al più c’è mini/max nella perdita (è meno peggio la borsa che la vita, tanto più che tenendo la vita si potrà poi recuperare la borsa).
Da tempo fioriscono metafore floreali, ma questo o / o mi suggerisce piuttosto la metafora della tenaglia, o dello schiaccianoci, in cui la noce è la testa, o il pensiero, di ciascuno. La mia metafora dice anche che tra i due “o” c’è più sinergia che contrapposizione, in altri termini non si tratta di “bi” ma di “mono”, come nella corrente elettrica che ha sì due poli, + e -, ma al terminale, se lì ci sono io, convergono nel far prendere la scossa. Il risultato, con metafora veteropsichiatrica, è l’elettrochoc. O con Collodi: il Gatto e la Volpe potrebbero anche litigare tra loro: ma chi ci perde è sempre Pinocchio.
Questo fondamentalismo è un frutto dell’ultimo ventennio. Che rapporto c’è tra la situazione politica e quella della Chiesa?
Contri: L’onda che sta per arrivare è quella di una crescente oleosa marea nera. Un autore che amo ha introdotto l’espressione “la nera marea dell’occultismo”, come e più che il “petrolio” pasoliniano.
L’assenza di argomenti, idee, proposte di questa campagna elettorale che è iniziata da un pezzo, non è tutta spiegabile come l’astuzia preelettorale del riservarsi per dopo: io ci trovo afasia e agnosia (mancanza di giudizio). Non ci sono più parole. La cultura di quando non ci sono più parole è una cultura energumena, quale che sia il “Potere” che la amministra. Un mio slogan da anni è che il buco tra l’impotenza e la prepotenza non è mai stato colmato. Oggi lo trovo piuttosto allargato.
Quell’onda parte da lontano, e ciò che ha inghiottito l’ha ormai inghiottito, e non si tornerà indietro. Lasciamo che i morti seppelliscano i loro morti. Non c’è nostalgia – regressiva – né sogni – pseudoprogressivi – che tengano. Ci sono state sempre meno difese, anche nei migliori. Stalin chiedeva: «Quante divisioni di carri armati ha il Papa?», ma qui non si è trattato di carri armati: ci sono battaglie che si perdono non per eccesso di offesa ma per difetto di difesa, e difesa non cruenta. E la facoltà di giudizio è la prima difesa.
Facoltà di giudizio significa pensiero. Si dice che servono nuove idee, e ciò è vero, quanto è vero che serve acqua corrente. Ma di pensiero si tratta, perché è lui capace di idee. Neanche un pensiero “nuovo” – il ’900 è stato criminalmente pieno della parola “nuovo” –, ma che lo sia, pensiero, ossia di ciascuno, e per cominciare almeno di qualcuno.
Negli ultimi anni il ruolo dello Stato si è sempre venuto riducendo, a favore del privato e degli enti locali. Come giudica questa ritirata?
Contri: Non mi dilungo sui pregi (è un errore negare tutto, anche se è poco) e sui difetti (molti) dell’uno o dell’altro braccio della tenaglia: d’altronde non aspettarsi troppo è saggezza. Anzi, alla politica ormai tradizionalmente intesa (la coppia Stato/Società) bisogna imporre la modestia, non con la forza ma semplicemente non rivolgendole troppe domande, o aspirazioni, o attese, altrimenti si incoraggia il totalitarismo, che nasce più dal “basso” di quanto si creda: domandate a qualcuno di essere Dio, o di darvi la felicità, ed è fatta. Quella celebre formula potrebbe essere riformulata: “Domandate a Cesare quel che è di Cesare, domandate a Dio quel che è di Dio”. Non si domandi alla suddetta coppia (Stato/Società) di essere fonte della nostra salute psichica, della nostra capacità di pensare e di agire, della nostra pace personale, o coniugale, del nostro saper essere cittadini cioè politici, della nostra intelligenza, della nostra felicità, della nostra capacità di iniziativa in tutti i sensi e anzitutto in quello della produzione di rapporti. Non si tratta di limitare lo Stato (né di espandere la Società), ma di limitare le nostre domande a esso, così come a ogni istituzione di esso: per esempio, che cosa cambia se dirottiamo le nostre domande fondamentali e personali alle Regioni piuttosto che allo Stato?
L’avvento di una forza che rompa i blocchi maggioritari è un fatto che lei giudica importante?
Contri: Il compromesso – che per esempio questa nuova formazione politica tende a riportare in vigore nei limiti suaccennati, anche con l’aumento di peso del proporzionale – non è un ripiego quantunque dignitoso, è la pace al posto del conflitto. Pacem in terris cioè compromesso cioè riconoscimento dell’esistenza. Il compromesso non risulta anzitutto dall’esistenza del nemico: anzi, tende a risolvere in anticipo il costituirsi del nemico. Io insegno che il compromesso è la salute psichica stessa, la pace personale. Tanto più quanto più l’individuo è uno degli attori del compromesso stesso, e se lo è eccolo il cittadino nuovo: un’istituzione esso stesso, un ente giuridico, non più la persona fisica senza persona giuridica. Sono anni che parlo dell’individuo come la sede di una sovranità non ancora concepita modernamente, la “persona” con titolo pieno (nulla a che vedere con un certo “personalismo”). Sovranità non comporta prevaricazione, semmai una modestia cosmica: quella celebre “Signora” è passata alla sovranità nel momento stesso in cui ha pronunciato l’ecce ancilla Domini (chi l’avrebbe detto che la Madonna fa politica?, politica non “mamma-bambino”).
In una recente conversazione qualcuno ha commentato che se la nuova formazione politica riuscisse, avremmo un caso di “tra i due litiganti il terzo gode”. Ma può non essere così, anche se non va da sé, e niente “va da sé”. Può essere – ecco almeno la strada – che sia il quarto a godere, la “persona” di cui sopra, un nuovo cittadino: che prima di attendersi qualcosa dalle istituzioni parte dal prendersi per istituzione.
A mio parere è l’uomo agostiniano, la cui “interiorità” non significa un “dentro” intimistico con vita separata dal “fuori”, bensì competenza personale (il “dentro”) sul fuori, ossia capacità politica. È lui il quarto che gode. Certo, potrebbe soffrire e non godere, ma almeno non è un masochista, che li confonde. O un invidioso: l’invidia è il partito trasversale della morte della politica, o del compromesso, o della Città. Masochismo, invidia, in generale perversione, sono non vizi privati ma immoralità politiche.
Sulla scena politica italiana c’è un altro acceso proporzionalistra: Fausto Bertinotti…
Contri: Del ’68 mi è rimasto qualcosa, e sono contrario a buttarne via tutto. Per esempio me ne resta un criterio classificatorio: Bertinotti resta un “compagno”. Non importa ora la tipica aggiunta: “che sbaglia”. Prima di lui, lo stesso Marx era un compagno che sbaglia, con un errore letteralmente massacrante che è l’unico che da tanti anni gli imputo: quello di neppure contemplare l’Agostino politico, quella “Città di Dio” che dice che per fare una Città ce ne vogliono due, che sono due cittadinanze a farne una (in ciò Marx ha condiviso lo stesso punto di vista del suo nemico di classe). Aggiungo soltanto che questo non è un articolo di fede ma di ragione, e di ragion pratica e laica. È da una prima cittadinanza auto-noma che ho davvero la cittadinanza per esempio italiana. Ragion pratica giuridica, e politica, e senza più l’errore di distinguere una morale interiore (Kant) da diritto e politica, che è, in quanto distinta, o la morale dei panni sporchi – e il compromesso sarebbe panni sporchi, ossia, come si dice, “scendere” a compromessi –, o la morale dei panni “puliti” dei nostri anni.
La situazione della Chiesa. Se cade la maschera della Chiesa trionfante, cosa rimane?
Contri: Lei mi parla della Chiesa. Da piccolo mi insegnavano che la Chiesa è una società (societas). Non le resta che una soluzione: di esserlo, e non come una delle componenti della “società” in generale.
Poiché gioco in casa posso parlare liberamente: la situazione della Chiesa oggi è più fori cadenti che atri muscosi. Quella che lei chiama «maschera della Chiesa trionfante» è un delirio paranoico, che Gesù non aveva perché non immaginava di essere perseguitato: lo era. E, a ben vedere, non era preoccupato più di tanto, pur facendogli male i chiodi. Si preoccupava del giudizio: quando dice “amate i vostri nemici” li chiama con il loro nome, “nemici”, cioè giudica (curioso che di solito sfugge proprio questo).
È tutta una questione di pensiero ossia di competenza. Se c’è una cosa che manca alla Chiesa di Cristo è il pensiero di Cristo. Pensiero-pensiero, pensiero di un pensante, ma proprio come si dice il pensiero di quel o quel o quell’altro pensatore. I cristiani non pensano – ossia fanno male politica – perché non coltivano il pensiero di Cristo come tale.


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