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STORIA
tratto dal n. 01 - 2001

«La fede nasce dalla volontà, non dalla costrizione»


Con queste parole del De civitate Dei, Alcuino, il consigliere più ascoltato da Carlo Magno, si rivolge al re franco che aveva tentato di imporre ai Sassoni il battesimo con la violenza. Nella storia della Chiesa, l’autorità di sant’Agostino, finché è stata riconosciuta, ha rappresentato un elemento di critica all’imposizione della pratica cristiana attraverso la forza. E a ogni idealizzazione malata delle realtà mondane. Intervista con Alessandro Barbero


di Paolo Mattei


Il 23 novembre dell’800, il re dei Franchi Carlo Magno, il «novus Christianissimus Dei Costantinus Imperator», come lo aveva definito anni prima papa Adriano I, si presentò alle porte di Roma. Papa Leone III lo andò a ricevere personalmente a dodici miglia dall’Urbe, aumentando del doppio la tradizionale distanza prevista dal rituale dell’«adventus Caesaris» che disciplinava le entrate imperiali nella città. Quasi un mese dopo l’accoglienza pontificia, la mattina di Natale, Carlo fu incoronato e insignito dei titoli di Augusto e di imperatore. Dell’Impero romano, naturalmente. Infatti, agli occhi dei protagonisti, quel giorno rifioriva l’Impero romano, cristiano, il cui corso era stato interrotto circa tre secoli prima dalle invasioni dei barbari (il 23 agosto 476 l’erulo Odoacre depose l’ultimo imperatore romano, Romolo Augustolo, assumendo per sé il titolo di rex). E fu proprio davanti a un barbaro, a un Franco (discendente da quel coacervo di tribù germaniche stanziatesi nella Gallia e convertitesi successivamente al cristianesimo alla fine del V secolo), che papa Leone III si inchinò, col gesto della proskynesis, sancendo, con quel rituale propriamente orientale, l’irrimediabilità della distanza – politica, culturale, teologica – con l’Oriente cristiano e col basileus di Costantinopoli. L’Impero, in quel mattino di Natale in cui Leone III unse Carlo con l’olio sacro, si ricostituiva, nei convincimenti dei protagonisti, a Roma.
Ma guardando a quelle vicende dalla nostra prospettiva storica, risulta evidente come la fisionomia “mediterranea” (le sponde europea, africana e asiatica del Mare Nostrum) dell’antico Impero romano si dissolve nel nuovo profilo “continentale”, con baricentro nella valle del Reno, dell’Impero carolingio. Così che non si può non convenire con chi ebbe a definire Carlo «rex pater Europae», fondatore di uno “spazio politico” occidentale che è ancora oggi sotto i nostri occhi.
In occasione dei milleduecento anni da quell’incoronazione, il Pontificio comitato di Scienze storiche e la Direzione generale dei monumenti, musei e gallerie pontificie, hanno allestito, presso i Musei Vaticani, la mostra “Carlo Magno a Roma” (visitabile fino al 31 marzo e probabilmente anche oltre), incentrata sul rapporto tra l’imperatore franco e l’Urbe. Carlo, nato probabilmente intorno al 742 e morto nell’814, visitò Roma quattro volte, nel 774, nel 781, nel 787 e, l’ultima volta, nel fatidico 800. Gli aspetti capitolini della celeberrima “rinascita” carolingia sono ben documentati dalla mostra (un esempio fra tutti, la riproduzione in miniatura del complesso del Laterano, rinnovato ed ampliato da Leone III), la quale presenta un ricco e significativo catalogo di testimonianze sui rapporti dell’imperatore con i papi Adriano I e Leone III, sui pellegrinaggi a Roma, sulla cultura classica sotto Carlo e su molti altri aspetti della cultura e della società carolingie.
L’anniversario dell’incoronazione e la mostra vaticana rappresentano due ottime ragioni per parlare di Carlo Magno, e del periodo storico in cui operò, con Alessandro Barbero, docente di Storia medievale presso l’Università del Piemonte Orientale a Vercelli, e affermato scrittore (Premio Strega 1995), di cui sta per uscire in libreria il romanzo (storico, naturalmente) L’ultimo rosa di Lautrec. Nel giugno del 2000 ha dato alle stampe una bella biografia del «pater Europae» (Carlo Magno. Un padre dell’Europa, Editori Laterza, Roma-Bari 2000).

Che cosa ha significato per il cristianesimo dell’alto Medioevo l’avvento al trono di Carlo Magno?
ALESSANDRO BARBERO: L’epoca di Carlo Magno segna la fine di una realtà. Il cristianesimo dei primi secoli era stato una realtà in gran parte greca, orientale. I luoghi in cui il cristianesimo è nato e poi è stato predicato, i luoghi in cui hanno vissuto gli apostoli e poi i primi padri della Chiesa, erano tutte regioni molto più influenzate da cultura e tradizioni greche che non latine. Ecco, in questo senso certamente con l’epoca di Carlo Magno si genera una frattura insanabile, tuttora non sanata. Si compie la fine del cristianesimo connaturato a un impero romano grecolatino, e si realizza la divaricazione dello spazio d’azione in due ambiti separati: uno greco d’Oriente e uno latino d’Occidente.
Ouesta situazione non corrisponde però alla fine dell’idea di impero cristiano…
BARBERO: Non possiamo parlare della fine dell’utopia imperiale, perché essa in quel momento era più forte che mai. Possiamo dire che l’utopia in quel periodo ha accettato qualche “aggiustamento” realistico, che porta la parte occidentale ad un fondamentale distacco, a un sostanziale disinteresse verso la parte greca, verso i cristiani d’Oriente: essi sono molto lontani, parlano un’altra lingua… In questa idea di impero cristiano, i cristiani d’Oriente vengono tacitamente dimenticati. Un po’ come oggi, qýando, parlando d’Europa unita, tacitamente ci si dimentica, per esempio, delle regioni greco-slave dell’Est (e si ha diffidenza, per altro verso, nei confronti delle popolazioni mediterranee). In questo senso l’utopia imperiale non è morta, ma è cambiata, si è modificata.
uossiamo individuare in quel momento l’inizio del’autoidentificazione della Chiesa di Roma con l’Occidente del mondo?
BARBERO: Con il nostro metro di giudizio storico, sì. Col nostro criterio di valutazione storica possiamo registrare il fatto che l’azione della Chiesa romana si riduce in quel momento a quella parte di mondo che è disposta a riconoscere il primato di Roma. Il resto del mondo… pazienza. Però, al tempo stesso, va detto che è molto forte al tempo di Carlo Magno (e in una maniera che successivamente non sarà più così, per esempio non sarà più così al tempo delle crociate) lo spirito missionario. Certo, non si inviano missionari in Giappone (questo lo faranno poi i Gesuiti nel Cinquecento). Però in età carolingia è chiara l’idea che in Occidente ci sono vasti territori e ci sono stirpi ancora da cristianizzare. Carlo Magno impiega trent’anni a cercare di sottomettere i Sassoni. Sottometterli non vuol dire soltanto espandere il suo potere politico sulla Germania del Nord, vuol dire anche recuperare alla cristianità le ultime tribù germaniche (quindi tribù parenti dei Franchi e dei Longobardi) ancora pagane. Poi Carlo fa un passo più avanti e scopre che ci sono i Danesi, gli Scandinavi insomma… Anch’essi sono Germani, pure con loro ci si capisce, pure loro sono pagani. E anche lì sorge un’attività missionaria. C’è, insomma, una chiara vocazione missionaria, oltretutto piena di rischi. C’è, a tal proposito, un simpatico aneddoto: a Paolo Diacono, intellettuale longobardo di corte, Carlo spedì un giorno una poesia nella quale gli domandava se avrebbe preferito essere sbattuto in carcere o andare a convertire i Danesi… Questo rende l’idea del fatto che si era pienamente coscienti che la missione era una cosa difficile, che si rischiava la pelle. Al medesimo tempo, però, era un proposito deliberato… Mentre, e torno all’inciso sulle crociate, non è affatto vero che esse avessero ancora come finalità la conversione dei pagani. Le crociate sono state fatte per conquistare la Terra Santa, per mantenere Gerusalemme. E oggi noi possiamo capire meglio la forza simbolica che un obiettivo del genere poteva – e può – avere… Pensiamo oggi a Gerusalemme, a come per motivi puramente simbolici… Quelle erano le crociate. Non interessava affatto convertire i musulmani, non c’era per niente questo proposito. Quindi, in sintesi: è al tempo di Carlo Magno che lo spazio d’azione della Chiesa si restringe e che essa comincia ad identificarsi con l’Occidente. Però non si ha ancora la consapevolezza dei rischi di questo fenomeno, non se ne ha piena coscienza, c’è ancora uno spirito missionario ben vivo.
Uno spirito missionario più genuino rispetto ad altre epoche?
BARBERO: Devo fare una premessa di metodo per fedeltà al mio mestiere: io esiterei a dire che ci sono certe epoche in cui si è sinceri e genuini e certe altre in cui non lo si è più. In ogni momento storico c’è una compresenza di punti di vista, di atteggiamenti. Non arriverei alla distinzione un po’ manichea tra periodi storici genuini e buoni e altri in cui tutto è negativo e cattivo: questo è un atteggiamento antistorico. L’epoca di cui stiamo parlando non era caratterizzata soltanto da un’esigenza di espansione di tipo imperialista. Ci sarà stato senza dubbio anche questo aspetto, perché è facile immaginare che per certi guerrieri franchi che combattevano in Sassonia sotto Carlo Magno (una guerra, ripeto, durata trent’anni e mai veramente conclusa, caratterizzata dalle continue ribellioni di quel popolo visceralmente legato ai propri riti religiosi) la conversione dei pagani rappresentasse una questione secondaria rispetto all’allargamento dei possedimenti terrieri, alla sottomissione di nuovi schiavi, alla spartizione di uffici e prebende. Insomma, la dimensione imperialistica c’era senz’altro e si portava dietro un ponderoso carico di violenza. Al tempo stesso però esisteva un clero, dei monaci e degli intellettuali che riflettevano sulla natura morale, oltre che politica, della faccenda. E quindi accade che Alcuino, il più ascoltato da Carlo tra i suoi consiglieri, quando viene a conoscenza delle pesanti violenze che il re franco aveva perpetrato sui riottosi Sassoni volendoli battezzare con la forza, gli scrive, citando il De civitate Dei di sant’Agostino, che «la fede nasce dalla volontà, non dalla costrizione. Si può persuadere un uomo a credere, non si può obbligarlo». E aggiunge: «La Sassonia ha bisogno di predicatori, non di predatori». Carlo Magno dà ascolto a questi suoi amici. E quando si tratta di “pianificare” un’altra missione, questa volta neiýconfronti degli Avari, negli accampamenti dell’esercito, nel 796, si riunisce una sorta di conferenza episcopale, dai cui lavori emerge, in un documento ufficiale, una condanna fin troppo chiara dei metodi seguiti in Sassonia. Non bisognava ripetere gli stessi errori, bisognava impostare la predicazione sull’amore e non sull’imposizione. Ad Alcuino e ad altri, come Paolino, patriarca di Aquileia, che presiedette a quella conferenza, è chiaro il fatto che a credere non si può essere costretti. Inoltre, da parte di costoro, c’è tutta una realistica considerazione politica: è un clero, quello che circonda Carlo Magno, che conosce il mondo. In Sassonia, gli fanno osservare, abbiamo introdotto il sistema delle chiese, e dappertutto abbiamo costretto la gente come prima cosa a pagare la decima per il mantenimento del parroco. E questa gente, ovviamente, non era contenta. Non possiamo portare il cristianesimo e come prima cosa dire: dovete pagare una tassa!
Insomma, c’è una capacità di gestione del problema dal punto di vista sia politico sia morale che, in quel momento, è notevole.
Che cosa spinse la Chiesa di Roma a sancire l’alleanza coi lontani Franchi, in fondo anch’essi barbari come i più vicini Longobardi, che culminò con l’incoronazione imperiale di Carlo?
BARBERO: Vari motivi. I Longobardi erano in Italia fin dal 568. Per loro era concepibile un accordo con il papato solo se il papa acconsentiva ad essere un vescovo del regno longobardo. Roma doveva accettare di entrare a far parte del regno e, come tutti gli altri vescovi, come quelli di Milano e di Pavia, anche il vescovo di Roma doveva riconoscere l’autorità del loro re. I Longobardi volevano questa completa sottomissione, la loro linea era questa, più indietro non potevano andare. Invece con i Franchi, che erano lontani, si poteva in qualche modo trattare alla pari, da potenza a potenza.
C’è poi un altro motivo, forse anche più importante. I Franchi, dal punto di vista del papa, erano in realtà “meno barbari” dei Longobardi perché questi ultimi erano stati a lungo ariani, quindi eretici. Si erano poi convertiti al cattolicesimo, ma durante la lunga fase ariana avevano avuto pessimi rapporti con tutta la struttura della Chiesa. Questo fatto ha inciso pesantemente nella decisione di Roma. Mentre invece i Franchi hanno avuto, diciamo, un “colpo di fortuna” con il re Clodoveo, il quale, nel V secolo, si convertì al cristianesimo nella forma cattolica, probabilmente nel Natale del 496. Fu una cosa casuale, una questione di incontri fortuiti, perché le tribù franche, nel corso dei loro spostamenti, non trovarono ariani. Incontrarono invece cattolici. Mentre i Longobardi, che venivano più da oriente, dalla Pannonia, erano stati a contatto con un clero ariano. Queste sono proprio delle casualità. Quindi i Franchi, stanziati in Gallia, convertiti al cattolicesimo, avviano subito una collaborazione molto stretta con l’episcopato locale. Per cui il regno franco, fra tutti i regni romano-barbarici, già prima di Carlo Magno è di gran lunga il più robusto, è quello che funziona meglio, proprio anche a livello amministrativo, culturale, perché ha il supporto leale dell’episcopato e del clero cattolici. Ovviamente queste buone notizie giungono alle orecchie di Roma che, a un certo punto, trae le sue conclusioni…
Carlo Magno ebbe a che fare, negli anni in cui regnò, anche con i musulmani. Alcuni erano vicini, oltre i Pirenei…
BARBERO: I musulmani sono una realtà relativamente nuova in quel momento. Si parla molto poco di loro negli ambienti intellettuali. Non c’è ancora, al tempo di Carlo, lo sforzo, che troverà attuazione dopo il Mille, di leggere le loro opere, di tradurre il Corano, di capire cosa essi pensano; non è ancora il tempo di scoprire che hanno compiuto le poderose traduzioni che permetteranno all’Occidente di recuperare tutta la cultura greca. Questo lavoro si farà poi all’epoca di Dante. Al tempo di Carlo Magno la sensazione è che il mondo sia grande e pieno di cose, anche misteriose, pieno di cristiani, ma anche di barbari e pagani. E pure il fenomeno musulmano è affrontato con pragmatismo e realismo politico. Come dire, banalizzando: con costoro, se non possiamo batterli, vediamo di riuscire a conviverci. Con i musulmani Carlo ebbe a che fare concretamente solo sul fronte spagnolo. Nel 778 organizzò una spedizione oltre i Pirenei per aiutare il governatore di Barcellona Sulaimân ben Yaqzân ibn al-Arabi e altri “principes Sarracenorum” che si erano ribellati contro l’emiro di Cordova e avevano chiesto aiuto a Carlo. Ritornando da questa spedizione, la retroguardia dell’esercito franco fu distrutta tra i Pirenei in un’imboscata: da quest’episodio nacque la leggenda dell’eroe Orlando, del traditore Gano e dell’agguato che i musulmani tesero presso Roncisvalle. In realtà gli autori del fatale tranello furono i Baschi, cristiani, e non i musulmani.
I musulmani però non erano solo in Spagna…
BARBERO: Ce n’erano altri, più lontani, come Harûn al-Rashid, a Baghdad, califfo dal 786 all’809, con il quale Carlo mantenne sempre rapporti eccellenti mandando e ricevendo ambasciate e regali. Celebre è l’elefante Abul Abbas, dono del califfo, che Carlo porterà sempre con sé in tutti i suoi spostamenti.
Insomma, professore, possiamo parlare di tolleranza religiosa nelle relazioni fra cristiani e musulmani del IX secolo?
BARBERO: Non arriverei a parlare di una tolleranza programmatica, ma di pragmatismo sì, di realismo politico. D’altronde probabilmente anche Harûn al-Rashid avrà fatto le stesse considerazioni per mantenere rapporti cordiali con Carlo all’insegna di una prudenza politica molto realistica: non sapeva granché di questi barbari del Nord che erano a Roma o ad Aquisgrana. Mantennero quindi ottimi rapporti, senza uno spirito di guerra santa. Il punto è questo. C’è la concezione missionaria nei cristiani dell’epoca di Carlo Magno che però è gestita con realismo politico. L’idea non è: “noi e loro”, “noi contro di loro”. Soprattutto non si pone il problema di Gerusalemme perché gli arabi a Gerusalemme in quest’epoca sono tollerantissimi: il patriarca cristiano continua a vivere lì, anche sotto il governo arabo, e i pellegrini vanno a Gerusalemme senza problemi. Non c’è ancora questa idea, starei per dire malata, che Gerusalemme debba essere tutta dell’una o dell’altra parte. Idea che è poi all’origine di tantissimi problemi che sono sotto gli occhi di tutti.


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