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NUOVI BEATI
tratto dal n. 02 - 2002

Per una lettura civile della proposta di Josè Maria Escrivà de Balaguer


Pubblichiamo l’intervento del professor Giorgio Rumi al Congresso internazionale “La grandezza della vita quotidiana”, tenuto a Roma presso la Pontificia Università della Santa Croce nei giorni 8-10 gennaio 2002, in occasione del centenario del beato Josemaría Escrivá de Balaguer


di Giorgio Rumi


Chi frequenta la storia religiosa s’imbatte non di rado in alcune torsioni interpretative, di evidente origine ideologica, che deformano la conoscenza degli avvenimenti e oscurano la loro comprensione. L’Historia rerum gestarum, più che tendere alle res gestae, sembra volersene distaccare, come attratta irresistibilmente da una finalità estrinseca di utilità rispetto a un mal confessato progetto, o approdo generale della vicenda umana. Ecco allora il postulato del progresso nel tempo, per cui l’oggi – grossolanamente – è tendenzialmente “migliore” dello ieri, salvo essere a sua volta superato dal domani. Anche se non è necessariamente lineare, e non esclude ritorni e contorsioni limitate ed occasionali, il “corteo” dell’umanità, come lo pretende lo storico inglese Carr, si volge al meglio. Ne deriva un pregiudizio di orientamento a indefiniti traguardi superiori di civiltà, bene espressi dalle citatissime, leopardiane «magnifiche sorti e progressive».
Se è così, se a questi nuovi idoli si inchina il lavoro dello storico, le conseguenze sono importanti. Il passato si riduce a un fiume, ricco di bracci morti e insignificanti rispetto all’unico ramo che noi, i posteri, eleggiamo meritevole di significato e valore. Tutta l’esperienza dei predecessori si fa poca cosa, se non ordinata ai nostri interessi, ai nostri criteri di giudizio. Si interrompe (per i cristiani) la comunione dei santi, e per tutti il vitale rapporto tra le generazioni. L’oggi si asside come giudice supremo e inappellabile del tempo, e quel che non gli serve è inesorabilmente respinto nel buco nero del nulla.
Le classiche immagini, tempo com tempo come magazzino d’immagini retoricamente più o meno utili, tempo come contagio e contaminazione da parte del male, cedono compiutamente il passo all’idea, che è poi quella della più robusta tradizione cattolica, della stagione di prova e valutazione dei risultati
C’è dell’altro. La democrazia politica, o almeno una sua presuntuosa vulgata, si ribalta addosso alla ricerca di Dio e all’organizzazione ecclesiale in cui storicamente si è espressa dal conferimento a Pietro di quelle tali chiavi. Ha preso forma, da almeno un secolo, una sorta di pregiudizio antigerarchico, per cui si postula una melior condicio della “base” rispetto al “vertice”: del laico rispetto al prete, di questo rispetto al vescovo, e quindi del vescovo rispetto alla curia e al deprecato Vaticano. Il postulato è indimostrabile, ma si fa moda e riflesso condizionato per ricerche, studi, ipotesi di lavoro, griglie interpretative.
Infine, la bipolarità assoluta e oserei dire maniacale ortodossia-dissenso. È inutile dire quale sia il fronte preferito, dove s’incentrino le simpatie, le consonanze e gli interessi. Esiste quasi una doverosità della contestazione, e simile atteggiamento si ribalta anche all’indietro, pervenendo – almeno nelle intenzioni – alla costruzione di un albero genealogico dei “virtuosi”, degli illuminati o “perfetti”, con il che si vorrebbe disporre di una legittimazione almeno storiografica di valutazioni o tendenze odierne. È un caso esemplare di esorbitanza dell’ideologia, anche religiosa, sul vissuto delicatissimo dello spirito, che si vorrebbe piegare altrimenti o addirittura riscrivere.
Nulla di tutto ciò si trova negli scritti di Josemaría Escrivá: non la pretesa di scegliersi un’idea di progresso, non il rovesciamento della gerarchia cattolica com’è uscita da due millenni di vissuto religioso, non il soggettivismo relativistico così diffuso oggi da essere divenuto quasi “normale”. Prevale assolutamente, invece, il senso di fedeltà, l’appartenenza filiale alla Chiesa, e ciò sgombra il campo dalle topiche consuete, anche se superare il conformismo storiografico esige un supplemento d’attenzione con una cura per il diverso, il singolare, l’originale davvero fuori dal comune. Ecco perché è possibile tentare un profilo “civile” degli insegnamenti di Josemaría Escrivá, ma sempre tenendo conto... che la voce “politica” non compare – come tale – nei pur accuratissimi indici per materia posposti ai nuovi scritti, essendo questione riservata alla esclusiva responsabilità personale dei suoi figli spirituali e del lettore ansioso di trovarvi una parola utile nell’ora che volge.
Escrivá non aderisce all’idea, prevalente fra Otto e Novecento, di un tempo ordinato al progresso, inteso come obbligata evoluzione dal buio alla luce, sia nella versione rettilinea sia in quella, più problematica, che ammette possibilità di occasionali cadute e temporanee involuzioni. Per Escrivá il tempo è segnato dalla venuta del Salvatore e dalla operosa attesa del suo ritorno: esso si configura come il tempo della prova, in cui i nostri comportamenti saranno osservati, valutati e giudicati secondo un rigoroso criterio di responsabilità. L’uomo non pencola sull’abisso dell’insignificanza ma è chiamato a dare il meglio di sé. In questo senso, il tempo è davvero un “tesoro” (Amici) per cui «non ci deve avanzare nemmeno un secondo di tempo: non sto esagerando [...]. Se ti avanza tempo, rifletti un momento: è quasi certo che sei caduto nella tiepidezza, o che, soprannaturalmente parlando, sei un paralitico. Immobile, inerte, sterile, non sviluppi tutto il bene che dovresti comunicare a coloro che ti stanno accanto, nel tuo ambiente, nel tuo lavoro, nella tua famiglia» (Amici).
Tutto s’incentra sul discorso evangelico dei talenti, che non possono essere sperperati né tenuti nascosti. Quand’anche avessimo una sola moneta «dissotterra il talento! rendilo proficuo [...] l’essenziale è dare tutto ciò che siamo e abbiamo, fare in modo che il talento renda, e impegnarci senza sosta a produrre un buon frutto. Dio ci concede forse ancora un solo anno per servirlo. Non pensare a cinque né a due. Bada solo a questo: uno solo, quello che è appena cominciato. Bisogna darlo, non sotterrarlo!» (Amici). Davvero, allora, «il tempo è il nostro tesoro, il “denaro” per comprare l’eternità» (Solco). Non c’è distacco dalla contemporaneità, e neppure sudditanza. Piuttosto, eliminate tante separatezze diffuse anche da una vecchia tradizione credente, respinta la teoria dei fili (rossi, ma altresì di ogni possibile variazione cromatica), ne esce rafforzata l’idea della storia aperta alla libera estrinsecazione delle potenzialità personali (e quindi anche collettive) dell’uomo. Non l’acquiescenza al tempo, ma la creatività è doverosa, col segno che chi crede, chi spera, è fortemente indotto a imprimere sul “mondo”.
Il vecchio contemptus mundi è ridotto a una vocazione, circoscritta da una rivisitazione di quel mondo, che correttamente vien ricondotto alla gravitas della materia e purificato da un’arbitraria estensione alla secolarità tutta. Il tempo torna a essere, come nella proposta evangelica, il teatro, il luogo normale di estrinsecazione dell’avventura umana, la nostra specifica tappa del cammino che dobbiamo percorrere tra la prima e la seconda venuta del Salvatore. Le classiche immagini, tempo come eterno ritorno, tempo come magazzino d’immagini retoricamente più o meno utili, tempo come contagio e contaminazione da parte del male, cedono compiutamente il passo all’idea, che è poi quella della più robusta tradizione cattolica, della stagione di prova e valutazione dei risultati. Nessun meccanicismo, nessuna arbitrarietà, ma slancio delle potenzialità umane verificate all’apertura dell’uomo e della storia, a un altro tempo, quello ultimo e definitivo.
Ma il tempo amico che ci prospetta Escrivá de Balaguer, quello pieno di attese e fiducioso nella nostra creatività, non è figlio dell’ottimismo pragmatico contemporaneo, a sua volta antidoto alla dissipazione e all’angoscia. Esso si rifà addirittura alla lezione del secondo capitolo della Genesi, che vede l’uomo, antecedentemente alla caduta, inviato nel giardino dell’Eden perché lo lavorasse e lo custodisse (Gen 2, 15). Non l’ozio era protagonista dell’originario progetto divino ma, appunto, il lavoro, e specificamente quello agreste, così trasparente e verificabile nei risultati e negli appuntamenti. Semmai, mancava ancora la fatica e il dolore, ma questi saranno effetti del gran mistero del libero arbitrio. Escrivá libera il lavoro dall’ipoteca servile che un lungo percorso, esteso dall’otium degli antichi al “disoccupato lettore” cui s’appella Cervantes in esordio al suo Don Chisciotte, aveva accumulato. Il lavoro è l’attività tipica ed esclusiva dell’uomo, la sua nobile dignità. Il lavoro produce le opere, e queste riconducono l’esistenza dal cupo frantoio che distrugge la vita al giardino originario. Per questa via, Escrivá dissolve un’altra leggenda nera, quella del disdegno iberico per il lavoro, che si pretendeva tollerabile solo se decantato in servizio civile e militare allo Stato, e per il resto emarginato ai ceti inferiori come vergognoso per la condizione signorile. Se è vero che dalla Spagna muovono Escrivá e la sua “opera”, essi si fanno presto romani ed universali, e comunque ricchi della secolare tradizione di rischio e di ardimento, che non rifiuta gli impegni più difficili. Domenico, Ignazio e Teresa lo confermano.
L’intuizione a suo modo rivoluzionaria di Escrivá non distingue tra l’uno e l’altro tipo di impegno quotidiano: non cosa fai ma come lo fai. Con ciò, le secolari separatezze tra lavoro degno e fatica servile vengono meno, subordinate come sono ai valori incorporati. «L’uomo nasce per lavorare, come gli uccelli per volare» (Amici). Le conseguenze sono importanti, e sarebbe riduttivo comporle in una sorta di ecclesiologia (o teologia, come ha detto Giovanni Paolo II) del laicato, perché si estendono all’intera sfera del temporale. «Voi restate in mezzo al mondo non perché Dio si sia dimenticato di voi, non perché il Signore non vi abbia chiamati. Vi ha invitati a permanere in mezzo alle attività e agli impegni terreni facendovi capire che la vostra vocazione umana, il vostro lavoro, le vostre doti, lungi dall’essere estranee ai disegni divini, sono le cose che Egli ha santificato» (È Gesù). Il laico non è più un non-religioso, o un suddito, come ancora voleva il Codice piano-benedettino del 1917. A pieno titolo è compartecipe del disegno divino perché tutta la sua azione del tempo storico – il lavoro, lo studio, l’amore... – può essere ricondotta all’azione del disegno di salvezza formulato dal Signore. In altri termini, «la vostra vocazione umana è parte importante della vostra vocazione divina». La serialità può essere santificata, «santificando precisamente il vostro lavoro e il vostro ambiente, e cioè la professione o il mestiere che riempie i vostri giorni, che dà una fisionomia peculiare alla vostra personalità umana, che è il vostro modo di essere presenti nel mondo» (Amici). Tutto l’agire nella storia, se buono e ordinato a Dio, viene rivalutato e gli viene restituita l’antica dignità, che si era troppo a lungo dimenticata nella separatezza e nella differenza. «Non ci può essere una doppia vita, non possiamo essere come gli schizofrenici, se vogliamo essere cristiani: vi è una sola vita, fatta di carne e di spirito, ed è questa che dev’essere – nell’anima e nel corpo – santa e piena di Dio» (La Chiesa).
Escrivá a Caracas, in Venezuela, nel 1975

Escrivá a Caracas, in Venezuela, nel 1975

Ecco allora che si chiude un lungo fraintendimento, che aveva voluto vedere nell’umana intrapresa un effetto della caduta. Al contrario «il lavoro è la prima vocazione dell’uomo, è una benedizione, e si sbagliano, purtroppo, quelli che lo considerano un castigo» (Il lavoro). Davvero, «studio, lavoro [sono] doveri ineludibili di ogni cristiano» (Solco). Le vecchie gerarchie sono accantonate, e con esse le stratificazioni sociali di un millennio. «Il lavoro ordinario non è un particolare di scarsa importanza, bensì il cardine della nostra santificazione» (Santi). Ogni «lavoro umano, anche quando può sembrare umile e insignificante, contribuisce a ordinare in senso cristiano le realtà temporali [...] e viene assunto e incorporato all’opera mirabile della Creazione e della Redenzione del mondo» (La Chiesa). Per questa via, all’operare nel tempo si può conferire la massima dignità possibile, con la sua elevazione «all’ordine soprannaturale, e diventare un’occupazione divina» (Forgia).
Siamo agli antipodi della materializzazione della storia, che si pretendeva vincente negli anni centrali del Novecento. E contro l’alienazione, si proclama la densità spirituale della fatica trasformatrice. L’imperativo diventa la rigenerazione dell’azione, con Escrivá si tratta di «realizzare in modo santo le più diverse occupazioni, anche quelle che sembrano più indifferenti» (Solco). «Quel tuo lavoro – umile, monotono, piccolo – è orazione tradotta in opere» (Cammino). In simile prospettiva declina e scompare un altro postulato dell’età industriale, il conflitto di classe. Già il rifiuto della cosiddetta mercificazione del lavoro va in questo senso, ma l’introduzione di un “terzo” (che non è lo Stato corporativamente assiso sopra i due classici contendenti, capitale e lavoro) vissuto come termine ad quem dell’agire umano, scompagina le categorie di giudizio e gli stili relazionali consueti. Santificare «il vostro lavoro e il vostro ambiente, e cioè la professione o il mestiere che riempie i vostri giorni, che dà una fisionomia peculiare alla vostra personalità umana, che è il vostro modo di essere presenti nel mondo; e, assieme al lavoro, il focolare, la vostra famiglia e, infine, la nazione ove siete nati e che amate» (Amici). Assolutamente «non ci può essere una doppia vita, non possiamo essere come degli schizofrenici se vogliamo essere cristiani» (La Chiesa).
Escrivá restituisce al lavoro l’originaria dignità facendolo parte integrante del generale progetto di santificazione del tempo. La gran questione non è la riduzione dello spazio dedicato al lavoro, come vorrebbe il laburismo novecentesco, ma la sua piena e non vocale esaltazione come via ordinaria di espressione della genialità creativa dell’uomo. Anzi, la Chiesa, lo studio, il campo dell’esperienza benedettina sono qui rifuse e riplasmate in modo più confacente lo spirito contemporaneo e come sottratte al gran frantoio della storia attraverso una stringente dedicazione. «Le opere umane soffrono l’usura del tempo; ma questo non succede con le opere divine, a meno che gli uomini non le facciano decadere. Solo quando si perde l’impulso divino, giunge la corruzione, la decadenza» (Il lavoro). Ancora: «Santificare il proprio lavoro non è una chimera, bensì è missione di ogni cristiano» (Solco).
L’universale ricapitolazione in Dio è capace di trasfigurare, con il lavoro, la prosa quotidiana, come quello che «prima sbucciava patate “soltanto”; adesso si sta santificando sbucciando patate» (Solco). E cioè «il lavoro umanamente degno, nobile e onesto può – e deve! – essere elevato all’ordine soprannaturale, e diventare un’occupazione divina» (Forgia). D’altra parte, vi concorre l’esempio di Gesù: «Che il Signore sia venuto a cercarti nell’esercizio della tua professione? Così cercò i primi: Pietro, Andrea, Giovanni e Giacomo accanto alle reti: Matteo seduto al banco degli esattori... E sbalordisci! Paolo nel suo accanimento di metter fine alla semenza dei cristiani» (Cammino). Ma se «il vero fine del tuo lavoro [è] la gloria di Dio» (Il lavoro), tutta la qualità o il valore del lavoro può e deve essere riconsiderata. Siamo così al bivio consueto, da cui si diparte la via frequentatissima del disprezzo per il lavoro poco gratificato che conduce alla liberazione dal lavoro attraverso il suo contenimento temporale, l’aumento delle ferie, l’assenteismo, la prostrazione adolescenziale, l’anticipo del pensionamento. Qui il lavoro è irredimibile e va tendenzialmente ridotto o soppresso, con una deificazione del tempo libero. Ma c’è anche il cammino ecologico-ruralista, coll’incremento del part-time e del lavoro domiciliare, che, almeno nella sua prevalente vulgata, nasconde la solitudine, annulla il contatto umano e fa trionfare un destino effimero e precario.
Quella di Escrivá è una via nuova e diversa, che apprezza il lavoro senza zuccherosi sentimentalismi, conferendogli invece una sorta di straordinario valore aggiunto. Senza retorica può allora proclamare che «la santità “grande” consiste nel compiere i “doveri piccoli” di ogni istante» (Il lavoro), e, insieme, che «la vera povertà non consiste nel non avere, ma nell’essere distaccato: nel rinunciare volontariamente al dominio sulle cose» (Il lavoro). Di questo pensiero troviamo una traccia (successiva) nell’insegnamento di Primo Mazzolari che distingueva attentamente tra ricchi, non-ricchi ma desiderosi di esserlo, e poveri: un giudizio andato purtroppo perduto, almeno nella cultura politica dell’Italia contemporanea. In ogni caso, siamo ben lontani dagli epidermici entusiasmi del tipo “piccolo è bello”, o dalle suggestioni del fai-da-te, dai rigurgiti passatisti e preindustriali. Nessuna sfida del moderno è troppo alta e ardua per Escrivá, è il cuore dell’uomo che gli interessa e che vuole indirizzare al servizio di Dio, proprio sull’esempio dei grandi santi della sua terra. Edifica un’opera di Dio, e si tiene lontano, non dal giusto sollievo dalla fatica, ma dall’endemico divertimento inteso proprio come divaricazione da ciò che ha senso e valore. Ecco perché bisogna lavorare “bene”: «siamo obbligati a lavorare, e a lavorare coscienziosamente, con senso di responsabilità, con amore e perseveranza, senza trascuratezze e leggerezze: perché il lavoro è un comandamento di Dio» (Forgia). E quindi, «lavora con allegria, con pace, alla presenza di Dio» (Forgia). La compatibilità tra tempo degli uomini e tempo di Dio, dona alla vicenda di questo mondo un’importanza senza pari, persino il peccato può stimolare gli anticorpi del bene: «La lotta interiore non ci allontana dalle nostre occupazioni terrene: ci induce a portarle a termine meglio!» (Forgia). Ma tutto si regge sul ripristino dell’ordine vero dei significati e dei valori che esige, «dà un motivo soprannaturale alla tua ordinaria occupazione professionale, e avrai santificato il lavoro» (Cammino).
Le conseguenze sono decisive. L’irruzione del santo nella scansione normale dell’esistenza permette di attingere traguardi ultimi senza gestualità eccezionali, restando nelle collocazioni “normali” della vita civile: la famiglia, l’occupazione, i cerchi concentrici dell’organizzazione sociale e, sì, anche politica. Il relativismo spicciolo che ha impolverato e un po’ anche immiserito la quotidianità di tanti credenti viene spazzato via e sostituito da una ricerca dell’esattezza e dell’eccellenza che un certo orgoglio laicista riservava a chi fosse finalmente approdato alle sfere superiori del sapere e dell’operare. La perfezione non è più, per il cristiano, sigillo caratteristico dello straniamento dal mondo. Anche qui si può, si deve tendere al miglior risultato possibile, come ben sapevano generazioni di nostri predecessori, che non avevano remore a superare i traguardi più alti, certi di far cosa gradita al Signore senza opporvi una fuorviante vittoria del male nel tempo del mondo. «Una persona devota, dalla vita di pietà non bigotta, compie il suo dovere professionale con perfezione, perché sa che questo lavoro è preghiera innalzata a Dio» (Forgia). Cadono i cascami di un secolare difensivismo cattolico, timoroso della diffusione della cultura, prudentissimo di fronte all’avanzamento di scienza e tecnologia. Escrivá vuole l’audacia della ricerca, e fa della rinuncia una dimensione interiore, non pavidamente rinunciataria delle conquiste possibili attraverso anche il lavoro professionale, l’educazione, lo studio, la cultura in tutte le sue espressioni (Cammino). In altre parole incita amici devoti e semplici estimatori a un compito che è un’apertura all’avvenire: «Tu, in quanto cristiano – ricercatore, letterato, scienziato, politico, lavoratore...–, hai il dovere di santificare queste realtà» (Solco). Il recupero della modernità si fa possibile e doveroso, ma si avanza un’ulteriore difficoltà.
... Non l’ozio era protagonista dell’originario progetto divino ma, appunto, il lavoro, e specificamente quello agreste, così trasparente e verificabile nei risultati e negli appuntamenti. Semmai, mancava ancora la fatica e il dolore, ma questi saranno effetti del gran mistero del libero arbitrio
Dai tempi – invero non lontanissimi – della presa di coscienza della cosiddetta questione sociale, molte energie della comunità ecclesiale si sono rivolte alla rimozione delle maggiori ingiustizie provocate dall’industrializzazione e dai suoi corollari: nascita del proletariato, crescita di anarchia e socialismo, declino della presunta armonia sociale dei tempi andati, protesta di classe, spettro e speranza della palingenesi: la rivoluzione. Il culto della perfezione e la tensione all’eccellenza possono sembrare un’esaltazione dell’individualismo, un abbandono al suo destino del meno fortunato, capace e meritevole, con tutte le conseguenze e le implicazioni, anche ecclesiali, che si possono facilmente immaginare. Ma nella proposta di Escrivá, forte è la consapevolezza delle possibilità, anzi della necessità di una ricaduta sociale potentemente riformatrice. Ecco perché non vi troviamo arcaismi, né oniriche fughe dalla realtà, troppo spesso diffuse nell’opinione cattolica.
Il tempo, come tale, non legittima soluzioni pratico-politiche. È possibile e anzi doveroso guardare avanti: proprio come scienza e tecnologia sono al servizio dell’uomo, e non idoli cui sacrificare la creatività incessante cui siamo chiamati. La proposta di Escrivá è impiantata anzi a un equilibrato ottimismo storico: «Un errore fondamentale da cui devi guardarti: pensare che le esigenze ed i costumi – nobili e legittimi – del tuo tempo e del tuo ambiente, non possano essere ordinati e adattati alla santità della dottrina morale di Gesù Cristo» (Solco). L’oggi non è irriducibile, e non c’è scontro preconcetto tra la condizione di cittadino e quella di cristiano. «Servire fedelmente la società civile» è possibile e doveroso (Solco). Ancora più importante, se possibile, dell’enunciazione di principio, sono le sue implicazioni concrete. Tutto deriva infatti da quella “unità di vita” su cui insiste Escrivá (Amici). Il monito Caesaris Caesari, Dei Deo obbliga all’intervento per il bene comune, e non c’è separatezza possibile. «In quanto cristiano, hai il dovere di intervenire, di non astenerti, di prestare la tua collaborazione per servire con lealtà, e con libertà personale, il bene comune» (Forgia). Le forme e i luoghi di questa presenza trasformatrice sono le associazioni, le istituzioni, e in genere le organizzazioni espresse dalla società e praticabili dallo stato secondo coscienza (Forgia). Non è lecito «disinteressarsi della realtà storica che (ci) circonda» (Solco). Al contrario, occorre «essere esemplare in tutti i campi, anche come cittadino» (Forgia).
Esistono dei criteri per rendere trasmissibile e fruttuoso l’intervento nella storia. Certamente, chi aderisce all’insegnamento del sacerdote aragonese o, semplicemente, chi vi ha trovato un consiglio ed un aiuto spirituale, non può pretendere di costituirsi in un’aristocrazia dominatrice, in una melior condicio rispetto ai fratelli (Il lavoro). Del tutto superata è la formula – magari fruttuosa nella temperie degli anni Trenta e Quaranta – che vorrebbe «operai cattolici», «medici cattolici», «ingegneri cattolici», «come se i cattolici formassero un gruppetto separato dagli altri uomini, perché così si dà la sensazione che esista un fossato tra i cristiani e il resto dell’umanità» (È Gesù). Ancora oggi, peraltro, compare nei media la figura del cosiddetto «scrittore cattolico», e persino dello «storico cattolico», come se fosse una razza a parte, in bilico tra rappresentatività e limitatezza di orizzonti... Escrivá ha in mente cittadini uguali agli altri nei diritti, nei doveri e nelle possibilità. Rispetta ed ama l’esperienza millenaria dei religiosi, ma suggerisce un modello di vita ordinaria nel tempo (Colloqui): essere «comuni cittadini che vogliono essere dei buoni cattolici» (Colloqui).
Vuole insomma «la giustizia fra gli uomini» (È Gesù), ma la declina secondo un’ampiezza insolita, perché le fa ricomprendere, oltre le dimensioni usuali, i doveri verso Dio, non riconducibile a un riferimento neutro e simbolico. Rifiuta il «clericalismo», e ricerca una sincera «mentalità laicale», capace di audace iniziativa e piena responsabilità (Colloqui). Occorre servire la Chiesa e non servirsene per veicolare opinioni e propositi di gruppi e gruppetti. Occorre un laicato maturo, che esca da superstiti condizioni minorili. Non stupisce allora l’estrema confessione che regge il tutto: «Ho sempre predicato il criterio della libertà personale e della corrispondente responsabilità. Ho cercato e cerco la libertà, per tutta la terra, come Diogene cercava l’uomo. L’amo ogni giorno di più, l’amo al di sopra di tutte le cose terrene: è un tesoro che non apprezzeremo mai abbastanza» (È Gesù). La libertà è la chiave che apre l’altro tempo, quello definitivo, se è vero che «senza libertà è impossibile corrispondere alla grazia».



Nota
Le citazioni si riferiscono ad Amici di Dio, Cammino, La Chiesa nostra madre, Colloqui con monsignor Escrivá, È Gesù che passa, Forgia, Il lavoro rende santi, Solco (varie edizioni).


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