Home > Archivio > 02 - 2002 > «...ebbi tentazione di santità»
RICOSTRUZIONI
tratto dal n. 02 - 2002

«...ebbi tentazione di santità»


Così scrisse Pier Paolo Pasolini forse ripensando al suo incontro con un frate eremita che oggi è sulla via della beatificazione. Era la primavera del 1963 e lo scrittore stava lavorando a Il Vangelo secondo Matteo


di Giovanni Cubeddu


Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini

Un povero frate cieco, malandato in salute. Per andare a trovarlo occorreva lasciare l’automobile qualche chilometro prima ed incamminarsi pazientemente tra i monti dell’Oltrepò pavese. Era l’unico modo di raggiungere l’eremo di Sant’Alberto di Butrio, dimora del religioso già in fama di santità, al secolo Cesare Pisano, per la Chiesa frate Ave Maria, eremita della Divina Provvidenza, famiglia religiosa fondata da don Luigi Orione. È la primavera del 1963 quando Pier Paolo Pasolini intraprende anch’egli la lunga passeggiata per l’eremo. Sta lavorando al Vangelo secondo Matteo, e non è la prima volta che cerca ispirazione in colloqui con uomini di fede o visitando luoghi di preghiera. Lo accompagna un’amica, Angela Volpini, personalità nota nel mondo cattolico italiano di quegli anni e attualmente teste nel processo di beatificazione del frate, dichiarato venerabile nel dicembre 1997. Delle testimonianze della Volpini raccolte nell’archivio dell’Opera don Orione a Roma (cfr. box a p. 75 il cui contenuto è inedito) e di una precedente ricerca pubblicata in Messaggi di don Orione (n. 100/2000) ci siamo avvalsi nella ricostruzione dell’episodio, pressoché sconosciuto.
La Volpini raccontò a Pasolini della propria amicizia con l’eremita. Il poeta si incuriosì o, meglio, sospettò che l’incontro con quel frate dal nome così semplice (che nei maligni poteva suscitare ironia) valesse la pena del viaggio. Dunque Pasolini andò. E quando nel gennaio del 1964 frate Ave Maria muore, il poeta manda alla Volpini una copia del suo libro Poesia in forma di rosa (1961-1964), con uno scritto posto come segnalibro tra le pagine 42 e 43 di quella prima edizione. Si tratta della poesia La Realtà.
Lo scritto era una lettera riservata e personale alla Volpini, ma la scelta delle pagine aveva probabilmente un senso: forse Pasolini desiderava che l’amica potesse rintracciare in quelle righe la trama autobiografica di quell’incontro all’eremo, potesse cioè ritrovare, tra i luoghi della memoria che Pasolini indicava esistenti «nell’Emilia del mio destino, nel Friuli dei miei numi», in realtà anche il paesaggio che l’accolse a Sant’Alberto:
una sera, tra boschi
cedui, chissà, tra macchie indissolubili
di viole sulle prode, tra vigneti e lumi
serali di villaggi, sotto vergini nubi…

E potesse vedere il nudo tormento che accompagnava il poeta e che quell’incontro aveva ancora una volta ridestato:
A vincere fu il terrore. Voglio dire che fu
più grande il terrore della realtà e della solitudine,
di quello della società. Amara gioventù,
preda di quella immedicabile coscienza
di non esistere, che è ancora la mia schiavitù…
Frate Ave Maria

Frate Ave Maria

Quando Pasolini arrivò all’antica abbazia di Sant’Alberto si fermò ad ammirarne gli affreschi del Quattrocento. Frate Ave Maria come sempre era dietro l’altare, nella sua confidenza col Signore fatta di impercettibili rosari, litanie recitate a memoria e pie intenzioni da deporre ai piedi della Madonna. Vi fu qualche minuto di silenzio, interrotto improvvisamente dal gioviale saluto del frate al quale Pasolini rispose avvicinandosi, attraversando la chiesa per finire anche lui dietro l’altare. Il frate gli chiese di prendere una sedia per stare accanto a lui, in un colloquio che nessuno udì e che durò all’incirca due ore. Finalmente il respiro affannoso del frate annunciò che i due stavano scendendo dalla chiesa al chiostro. Pasolini tentava di aiutare la discesa del frate cieco, ma egli lo fermò bonariamente: «Queste pietre sono mie amiche. Le calpesto tante volte al giorno per andare da Gesù, non ho niente da temere da esse!». E rise della sua stessa allegra battuta. Poi proseguì dritto ritirandosi nella sua cella, luogo, assieme al cantuccio dietro l’altare, della predilezione del Signore verso di lui.
Pasolini continuò la sua visita all’eremo, ogni tanto interrompendo la sintassi dei suoi pensieri con esclamazioni del tipo: «Che luogo! Che uomo! Che colloquio straordinario!». Solo alcuni giorni dopo si spiegò con l’amica Volpini, con maggiore dettaglio: «Frate Ave Maria aveva tutta l’attenzione per me. Parlava con tale naturalezza, pur nel suo linguaggio religioso, da risultare non solo rispettoso, ma affascinante. Non si è stupito del mio scetticismo e mi ha detto che il suo Gesù ama più i lontani che i vicini, che non si scandalizza di niente e che solo Lui conosce davvero il cuore umano. Di fronte a lui, io artista, non mi sono sentito, come succede spesso nei luoghi seri e importanti, un po’ fuori contesto… Anche il frate è un originale come me, un creativo… ha inventato la sua vita, strana per il buon senso comune, ma vera ed affascinante. Anche lui è un figlio d’arte, riesce a trasformare in bella e straordinaria una vita che, analizzata razionalmente, è la morte civile e la follia». Quindi Pasolini s’incamminò verso il bosco prospiciente l’abbazia, in solitudine, e forse annotò qualcosa dell’incontro.
Fu allora che la Volpini, prima di congedarsi, ebbe l’opportunità di salire alla cella di frate Ave Maria per ringraziarlo. E lui invece: «L’amico che mi hai portato oggi ha bisogno di vedere tanta fede, tanto amore, tanta innocenza, per far uscire dal suo cuore il grido d’amore, oltre che di denuncia. Stagli vicino. Se quest’uomo potesse servire il Signore, chissà che cose meravigliose farebbe!».
Anche Pasolini ritornò dal frate per accomiatarsi. L’eremita lo accolse di nuovo, lo accompagnò fino all’uscita, e quasi gli gridò con la sua voce roca: «Voglio dirle che qui c’è un altro amico, che sa solo pregare, ma che pregherà tanto perché lei faccia cose bellissime».
Pasolini non deve averlo dimenticato. Perché la poesia, in quelle pagine 42 e 43 segnalate ad Angela Volpini, così continuava:
Ché io arriverò alla fine senza
aver fatto, nella mia vita
la prova essenziale, l’esperienza
che accomuna gli uomini, e dà loro
un’idea così dolcemente definita
di fraternità almeno negli atti dell’amore!
Come a un cieco: a cui sarà sfuggita,
nella morte, una cosa che coincide
con la vita stessa, – luce seguita
senza speranza, e che a tutti sorride,
invece come la cosa più semplice del mondo –
una cosa che non potrò mai condividere.
Morirò senza aver conosciuto il profondo
senso d’essere uomo, nato a una sola
vita, cui nulla, nell’eterno corrisponde.

Pasolini mentre lavora al Vangelo secondo Matteo

Pasolini mentre lavora al Vangelo secondo Matteo

In questo grido, reso forse più acuto dall’aver intravisto un bagliore, si può forse ritrovare un’altra diversa allusione a quella giornata a Sant’Alberto di Butrio:
E questa fu la via per cui da uomo senza
umanità, da inconscio succube, o spia,
o torbido cacciatore di benevolenza,
ebbi tentazione di santità. Fu la poesia.

«Quando scrivo poesia è per difendermi e lottare, compromettendomi, rinunciando a ogni antica mia dignità: appare, così, indifeso quel mio cuore elegiaco di cui ho vergogna», dicono i primi versi di La Realtà. E ora viene facile pensare che la misericordia del vecchio eremita nei suoi confronti abbiano a che vedere con quella tentazione di santità.
Di quel pomeriggio nell’Oltrepò pavese restava, ancora più incarnato, visibile, un mistero: «E come mai» aveva detto frate Ave Maria appena salutato Pasolini, «un grande artista, un personaggio così famoso, è interessato a conoscere un povero cieco, che sa solo dire “Gesù, Maria, vi amo: salvate le anime”?».


Español English Français Deutsch Português