«...ebbi tentazione di santità»
Così scrisse Pier Paolo Pasolini forse ripensando al suo incontro con un frate eremita che oggi è sulla via della beatificazione. Era la primavera del 1963 e lo scrittore stava lavorando a Il Vangelo secondo Matteo
di Giovanni Cubeddu
Pier Paolo Pasolini
La Volpini raccontò a Pasolini della propria amicizia con l’eremita. Il poeta si incuriosì o, meglio, sospettò che l’incontro con quel frate dal nome così semplice (che nei maligni poteva suscitare ironia) valesse la pena del viaggio. Dunque Pasolini andò. E quando nel gennaio del 1964 frate Ave Maria muore, il poeta manda alla Volpini una copia del suo libro Poesia in forma di rosa (1961-1964), con uno scritto posto come segnalibro tra le pagine 42 e 43 di quella prima edizione. Si tratta della poesia La Realtà.
Lo scritto era una lettera riservata e personale alla Volpini, ma la scelta delle pagine aveva probabilmente un senso: forse Pasolini desiderava che l’amica potesse rintracciare in quelle righe la trama autobiografica di quell’incontro all’eremo, potesse cioè ritrovare, tra i luoghi della memoria che Pasolini indicava esistenti «nell’Emilia del mio destino, nel Friuli dei miei numi», in realtà anche il paesaggio che l’accolse a Sant’Alberto:
una sera, tra boschi
cedui, chissà, tra macchie indissolubili
di viole sulle prode, tra vigneti e lumi
serali di villaggi, sotto vergini nubi…
E potesse vedere il nudo tormento che accompagnava il poeta e che quell’incontro aveva ancora una volta ridestato:
A vincere fu il terrore. Voglio dire che fu
più grande il terrore della realtà e della solitudine,
di quello della società. Amara gioventù,
preda di quella immedicabile coscienza
di non esistere, che è ancora la mia schiavitù…
Frate Ave Maria
Pasolini continuò la sua visita all’eremo, ogni tanto interrompendo la sintassi dei suoi pensieri con esclamazioni del tipo: «Che luogo! Che uomo! Che colloquio straordinario!». Solo alcuni giorni dopo si spiegò con l’amica Volpini, con maggiore dettaglio: «Frate Ave Maria aveva tutta l’attenzione per me. Parlava con tale naturalezza, pur nel suo linguaggio religioso, da risultare non solo rispettoso, ma affascinante. Non si è stupito del mio scetticismo e mi ha detto che il suo Gesù ama più i lontani che i vicini, che non si scandalizza di niente e che solo Lui conosce davvero il cuore umano. Di fronte a lui, io artista, non mi sono sentito, come succede spesso nei luoghi seri e importanti, un po’ fuori contesto… Anche il frate è un originale come me, un creativo… ha inventato la sua vita, strana per il buon senso comune, ma vera ed affascinante. Anche lui è un figlio d’arte, riesce a trasformare in bella e straordinaria una vita che, analizzata razionalmente, è la morte civile e la follia». Quindi Pasolini s’incamminò verso il bosco prospiciente l’abbazia, in solitudine, e forse annotò qualcosa dell’incontro.
Fu allora che la Volpini, prima di congedarsi, ebbe l’opportunità di salire alla cella di frate Ave Maria per ringraziarlo. E lui invece: «L’amico che mi hai portato oggi ha bisogno di vedere tanta fede, tanto amore, tanta innocenza, per far uscire dal suo cuore il grido d’amore, oltre che di denuncia. Stagli vicino. Se quest’uomo potesse servire il Signore, chissà che cose meravigliose farebbe!».
Anche Pasolini ritornò dal frate per accomiatarsi. L’eremita lo accolse di nuovo, lo accompagnò fino all’uscita, e quasi gli gridò con la sua voce roca: «Voglio dirle che qui c’è un altro amico, che sa solo pregare, ma che pregherà tanto perché lei faccia cose bellissime».
Pasolini non deve averlo dimenticato. Perché la poesia, in quelle pagine 42 e 43 segnalate ad Angela Volpini, così continuava:
Ché io arriverò alla fine senza
aver fatto, nella mia vita
la prova essenziale, l’esperienza
che accomuna gli uomini, e dà loro
un’idea così dolcemente definita
di fraternità almeno negli atti dell’amore!
Come a un cieco: a cui sarà sfuggita,
nella morte, una cosa che coincide
con la vita stessa, – luce seguita
senza speranza, e che a tutti sorride,
invece come la cosa più semplice del mondo –
una cosa che non potrò mai condividere.
Morirò senza aver conosciuto il profondo
senso d’essere uomo, nato a una sola
vita, cui nulla, nell’eterno corrisponde.
Pasolini mentre lavora al Vangelo secondo Matteo
E questa fu la via per cui da uomo senza
umanità, da inconscio succube, o spia,
o torbido cacciatore di benevolenza,
ebbi tentazione di santità. Fu la poesia.
«Quando scrivo poesia è per difendermi e lottare, compromettendomi, rinunciando a ogni antica mia dignità: appare, così, indifeso quel mio cuore elegiaco di cui ho vergogna», dicono i primi versi di La Realtà. E ora viene facile pensare che la misericordia del vecchio eremita nei suoi confronti abbiano a che vedere con quella tentazione di santità.
Di quel pomeriggio nell’Oltrepò pavese restava, ancora più incarnato, visibile, un mistero: «E come mai» aveva detto frate Ave Maria appena salutato Pasolini, «un grande artista, un personaggio così famoso, è interessato a conoscere un povero cieco, che sa solo dire “Gesù, Maria, vi amo: salvate le anime”?».