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CINEMA
tratto dal n. 02 - 2002

Intervista a Zhang Yimou

Il realismo di Yimou


Il cinese Zhang Yimou è uno dei migliori registi contemporanei e il padre della nuova cinematografia orientale. Qui parla del suo ultimo film Happy times, ma anche dei cambiamenti in atto in Cina. Intervista


di Antonio Termenini


 Zhang Yimou sul set di Happy times

Zhang Yimou sul set di Happy times

Quando nel 1988 vinse l’Orso d’oro al festival di Berlino con Sorgo rosso, Zhang Yimou rivelò al pubblico occidentale l’esistenza di un cinema cinese vitale e pieno di nuovi talenti. Da quel momento, infatti, i selezionatori dei principali festival internazionali cominciarono a scegliere numerose opere provenienti dalle tre Cine, quella continentale, Taiwan e Hong Kong. Seguirono premi, pubblicazioni autorevoli sui registi della “quinta generazione”, un gruppo di intellettuali reduci dall’esperienza traumatica della rivoluzione culturale imposta dal regime maoista negli anni Settanta.
È per questo che Zhang Yimou si può considerare, oltre che uno dei migliori cineasti contemporanei, il padre della nuova cinematografia orientale. Il seguente successo di Lanterne rosse, Yu dou e Vivere lo impose per il suo stile fatto di continue soluzioni visive, fastoso da un punto di vista scenografico. Un cinema narrativamente disseminato di metafore, di complessi simbolismi, di continui rimandi alla società cinese contemporanea. Una scelta dettata dall’impossibilità di dire esplicitamente alcune cose, vista l’inflessibilità della censura di Pechino di qualche anno fa, ma anche dalla scelta «di rinnovarsi continuamente», come ci ha spiegato egli stesso in un incontro al Festival di Berlino, svoltosi dal 6 al 17 febbraio, dove è stato presentato fuori concorso il suo ultimo film, Happy times.
«L’elemento fondamentale per ogni artista è quello di mantenere saldi i principi della propria poetica, le caratteristiche di fondo della sua opera, che sono la visione del mondo, della società, le ossessioni dei personaggi che mette in scena. Lo stile, a mio parere, come la materia narrativa, deve invece cambiare continuamente. Non amo quei registi sempre uguali a se stessi, in cui la sorpresa è ridotta al minimo. Sono sempre stato preoccupato dall’idea che i miei film fossero catalogati come film “di maniera”, “alla Zhang Yimou”. È per questo che Lanterne rosse è diversissimo da La storia di Qu Ju e da Non uno di meno, anche se in tutti e tre racconto del potere come presenza opprimente per l’individuo, della subalternità e delle prevaricazioni esercitate nei confronti della donna nella società cinese, della mancanza di diritti civili nel mio Paese, dell’arretratezza economica di molte zone rurali».

L’atteggiamento del governo nei tuoi confronti è, però, sicuramente cambiato. Da un po’ di anni i tuoi film circolano liberamente in Cina e possono essere selezionati dai direttori dei festival internazionali senza problemi. È cambiato il clima politico in Cina o sei cambiato tu?
ZHANG YIMOU: A me sembra che sia cambiato l’atteggiamento delle autorità cinesi nei confronti degli intellettuali cinesi più conosciuti e popolari in Occidente. Il dialogo culturale interno ed esterno fa parte di una più ampia strategia tesa a far uscire la Cina dal suo guscio, dall’isolamento politico economico e sociale, senza per questo rinunciare alla propria identità. La politica inaugurata da Deng Xiaoping cerca di coniugare il cambiamento in atto con la tradizione dando anche un senso di continuità rispetto alle fasi precedenti del regime comunista.
A volte è proprio questo che sconcerta un po’ noi occidentali: è come se i cinesi guardassero tutto alla luce di una storia più ampia, quella del Celeste Impero. E ogni cambiamento, ogni rivoluzione, vengono accettati e inquadrati in un processo storico che viene da lontano. Così anche il comunismo sembra un capitolo di questa storia...
YIMOU: Inquadrare tutto in un processo più ampio non ci autorizza a parlare di un feudalesimo senza feudalesimo o di un comunismo senza comunismo. Molti registi e artisti come me hanno dovuto pagare sulla propria pelle le follie della rivoluzione culturale e l’azzeramento dell’uomo a favore dell’ideologia, intesa in senso fanatico e assolutistico; e se torniamo indietro nella storia non possiamo non vedere come l’Impero aveva soffocato la ricerca della libertà di vari strati della popolazione.
Sono invece d’accordo con chi dice che esiste una certa ciclicità nella storia cinese e che il nostro popolo ha accettato i cambiamenti anche più traumatici come un fatto ineludibile, come tappe di un imprecisato progetto “superiore” proprio solo della Cina e del suo popolo.
Proprio qui a Berlino, al “Forum”, abbiamo visto Focus on China, una sezione composta da documentari, video e fiction che testimoniano la realtà di un Paese ancora molto povero, arretrato.
YIMOU: Il mio è uno sguardo non più interno perché da qualche anno vivo quasi sempre negli Stati Uniti. Ma forse, proprio per questo, sono in grado di esprimere un giudizio più oggettivo. Shanghai e Pechino sono due megalopoli ormai per molti versi simili ad altre come New York e Los Angeles. Al loro interno convivono enormi disuguaglianze sociali: lo scintillio del progresso tecnologico, la sensazione di grande benessere coprono vaste aree urbane di totale indigenza. Inoltre basta fare dieci chilometri fuori Pechino per incontrare centinaia di villaggi dove manca l’acqua, la luce elettrica, il gas e i beni di prima necessità. E non parliamo delle immense aree rurali del Paese. Certo, l’ingresso nel Wto è stato un ulteriore, fondamentale passo in avanti verso l’incontro con l’Occidente. Soprattutto questo passo servirà a superare il falso conflitto con Taiwan, anch’essa entrata nel Wto. Si tratta di una contrapposizione unicamente strategica, che non investe di certo la sfera economica, visto che almeno il 20 per cento dell’economia del mio Paese è basato su investimenti provenienti da Taiwan che, a loro volta, catalizzano un’altra serie di investimenti dagli Stati Uniti.
Dopo le grandi riforme strutturali che riguardavano la liberalizzazione del mercato e dell’economia, è necessario mettere mano a riforme che investano la sfera del sociale.
È quello che hai voluto sottolineare con Happy times?
YIMOU: Sì, il mio ultimo film si inserisce a pieno titolo nel filone realistico, quello che indaga più direttamente la realtà cinese, inaugurato nel 1992 con La storia di Qu Ju che vinse il Leone d’oro a Venezia e che è proseguito con Keep cool, Non uno di meno e La lunga strada verso casa. Rispetto a questi titoli, Happy times ha un’ambientazione metropolitana. Il mio intento era quello di raccontare con molta ironia, in una sorta di black comedy, la parabola di un cinquantenne, Zhao, che per non sentirsi solo cerca disperatamente di trovare una moglie. Per sposare una donna divorziata deve trovare però una somma di 50.000 yuan. Non avendo a disposizione quella cifra chiede aiuto all’amico Li Xuejian che decide di affittare un bus di sua proprietà. Zhao comincia, però, ad innamorarsi della sorella cieca di Li creando una serie di equivoci. In Happy times ho cercato di unire la commedia e la tragedia, l’ironia e il dramma. Penso sia un punto di arrivo importante per il mio cinema. È, infatti, la prima volta che nella mia carriera di cineasta affronto così direttamente il tema della vecchiaia e della solitudine.
Nel 2001 è stato festeggiato il quarto centenario dell’entrata del missionario gesuita Matteo Ricci a Pechino. Recentemente, alla Pontificia Università Gregoriana, durante un convegno mondiale dedicato alla sua figura, è stato letto un messaggio di Giovanni Paolo II che ribadisce la profonda simpatia della Chiesa cattolica per il popolo cinese...
YIMOU: Matteo Ricci è un simbolo in Cina. È il primo esempio positivo di incontro tra Oriente e Occidente. È un personaggio popolare che appartiene a tutti, non solo ai cattolici. Ha insegnato ai nostri antenati la matematica, l’astronomia, la geografia e il più significativo esempio di dialogo interreligioso. Anche se non conosco nello specifico il contenuto del messaggio del Pontefice, penso che la figura di questo missionario, le cui spoglie oggi riposano nel cortile della scuola politica del Partito comunista cinese, sia davvero un ponte per un incontro con il mio popolo.


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