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EDITORIALE
tratto dal n. 10 - 2002

Attualità di La Pira



Giulio Andreotti


Fu La Pira in persona ad avviare nella chiesa romana di San Girolamo della Carità la Messa del povero, che aveva ideato qualche anno prima in Firenze. Era una esperienza nuova che completava per noi quella della Conferenza di San Vincenzo (con le visite settimanali, due a due, nella borgata periferica di Pietralata). Preghiera in comune, omelia brevissima, un caffè e latte con lo “sfilatino” e il resto della mattina a parlare con questi sfortunati della vita
Fu La Pira in persona ad avviare nella chiesa romana di San Girolamo della Carità la Messa del povero, che aveva ideato qualche anno prima in Firenze. Era una esperienza nuova che completava per noi quella della Conferenza di San Vincenzo (con le visite settimanali, due a due, nella borgata periferica di Pietralata). Preghiera in comune, omelia brevissima, un caffè e latte con lo “sfilatino” e il resto della mattina a parlare con questi sfortunati della vita. Compagni più coraggiosi si improvvisarono anche barbieri, acquistando man mano una certa professionalità nel rimettere a nuovo gli ospiti che per il resto della settimana non conoscevano rasoio e – non tutti – neppure sapone. Ma più di tutto questi poveretti ci erano grati perché li ascoltavamo, potevano sfogarsi, sognare insieme possibili inversioni di rotta nella loro vita disagiata. Quando veniva il professore tutti cercavano di avvicinarlo e il suo sorriso illuminava i volti di tanti che non avevano altri momenti di attenzione e portavano il peso di complicate storie familiari.
Facile era in questo convento, dove aveva abitato il fiorentino Filippo Neri, avvicinare l’immagine di La Pira a quella leggendaria di “Pippo buono” che incolonnava i romani per la visita delle Sette Chiese, intonando strane canzoni per dire che ogni cosa è vanità e che a nulla sarebbe valso se avessero avuto «più soldati che non ebbe Serse armati». Il pio pellegrinaggio, quando non v’era più il fascino personale del santo, si era andato degradando, e con malizia romanesca si ironizzava su le “Sette chiese e quattordici osterie”. Nessuna confusione o retorica nella lapiriana Messa del povero, che per tanti di noi fu un elemento essenziale della formazione.
Giorgio La Pira parla con due studenti, la foto risale alla fine degli anni Quaranta. Il 5 novembre 2002 saranno 25 anni dalla morte di La Pira

Giorgio La Pira parla con due studenti, la foto risale alla fine degli anni Quaranta. Il 5 novembre 2002 saranno 25 anni dalla morte di La Pira

La Pira veniva anche ai nostri convegni e congressi fucini, ottenendo il silenzio iniziale della indisciplinata platea ed un crescente entusiasmo. Aveva uno stile inimitabile. Ad Assisi nel 1942 il suo inno alla pace fu così convincente che il podestà Arnaldo Fortini, che nel dare il saluto della città aveva parlato della guerra come purificazione, andò ad abbracciarlo con vigore. Di quel congresso accanto a memorie incisive – come l’intervento di Ignazio Vian che pochi mesi dopo fu fucilato dai tedeschi a Boves – rimangono piccoli ricordi lapiriani singolari. Per fare il riassunto del suo discorso, ad esempio, pretese fogli di carta patinata, che non fu facile trovare, stanti le restrizioni di cellulosa in quel momento.
Non pensavamo allora a La Pira sindaco, deputato, uomo di governo. Assolse a questi nuovi compiti con la stessa semplicità, identico spirito, volontà di ferro, eleganza toscana su uno sfondo duro di siciliano. Dalla parte dei poveri non si discostò mai, arrivando anche a contestare in pubblico la tesi difensiva di De Gasperi che la socialità trova i suoi limiti nei mezzi disponibili. Il momento più ardito di applicazione della sua tesi si ebbe quando non potendo provvedere diversamente a dare alloggio ad una famiglia senza tetto decretò la requisizione degli uffici dell’imposta sull’entrata. Fummo costretti a difenderli con i picchetti della Guardia di Finanza e reagì con un durissimo telegramma di protesta. Ma la sua santa ostinazione fu anche provvidenziale, come nella difesa della Pignone, contrastando indomito i potenti dell’industria ed anche certe normative obiettivamente disumane. Gli sviluppi successivi gli avrebbero dato ragione.
Facile era in questo convento, dove aveva abitato il fiorentino Filippo Neri, avvicinare l’immagine di La Pira a quella leggendaria di “Pippo buono” che incolonnava i romani per la visita delle Sette Chiese, intonando strane canzoni per dire che ogni cosa è vanità e che a nulla sarebbe valso se avessero avuto «più soldati che non ebbe Serse armati»
Negli anni tragici della morte di Aldo Moro la vicinanza fraterna di Giorgio La Pira e le sue riserve di ottimismo cristiano furono per tutti noi di grande sostegno. Ma quel che resta dei suoi insegnamenti – anzi, con il tempo se ne rafforza il valore profetico – è la sensibilità per l’Oriente in una serena composizione delle attese del mondo arabo e della difesa dello Stato di Israele. Vi sono per questo anche radici più lontane, ma l’Italia deve a La Pira un credito specifico di cui fruisce; ed un modello di conciliazione che dobbiamo difendere e far sviluppare anche da chi ruvidamente ne è ancora lontano.


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