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VATICANO
tratto dal n. 10 - 2002

CARDINALI. Incontro con Bernardin Gantin

«Ritorno nella mia Africa da missionario romano»


Gantin, dopo aver chiesto al Papa di essere dispensato dalla carica di decano del Sacro Collegio, ritorna nel suo Paese di origine, il Benin. Prima della partenza ha fatto con 30Giorni un piccolo, provvisorio bilancio di 31 anni passati nell’Urbe, ai vertici della Curia.


di Gianni Cardinale


Il prossimo 4 dicembre il cardinale Bernardin Gantin, dopo oltre trent’anni di permanenza nell’Urbe, lascerà Roma per tornare nel suo Paese d’origine, il Benin, nell’Africa occidentale. Gantin, che ha compiuto ottant’anni lo scorso maggio e che ha guidato importanti dicasteri nella Curia romana, conservava ancora il titolo di cardinale decano, raro caso di incarico a vita rimasto nella Chiesa cattolica. Ma essere decano implica avere la residenza a Roma, così Gantin per poter tornare nella casa che in patria gli ha preparato il suo fratello più giovane, ha dovuto chiedere a Giovanni Paolo II la dispensa dalla prestigiosa carica. E il Papa, dopo lunghe insistenze da parte del porporato africano, alla fine ha accettato di concederla.
30Giorni ha incontrato il porporato africano prima della sua partenza e gli ha chiesto di fare un piccolo bilancio, parziale e provvisorio, della sua lunga permanenza nell’Urbe. Il cardinale Gantin ha accettato volentieri.
Eminenza, perché al compimento degli ottant’anni ha chiesto al Papa di dispensarla dalla carica di decano del Sacro Collegio?
Quando un ecclesiastico viene eletto, ad esempio, vescovo in una piccola diocesi italiana, dovrebbe ritenersi contento, dovrebbe considerarsi il padre di quella porzione del popolo di Dio, sapendo che la paternità è per sempre. Se invece già all’inizio pensa di essere trasferito in una diocesi più grande e prestigiosa allora le cose non vanno più bene. Capisco che si possa nutrire un po’ di ambizione per crescere, per migliorarsi, ma la pretesa no, è ingiustificabile e dannosa
BERNARDIN GANTIN: Innanzitutto voglio ricordare che non sono il primo a farlo. Il mio predecessore, il cardinale Agnelo Rossi, fece lo stesso nel 1994. Ad ottant’anni infatti i cardinali decadono da ogni incarico. Non partecipano più alle riunioni dei dicasteri di cui sono membri. Non ricevono più documentazione da questi stessi dicasteri. Una volta un altro cardinale mi ha detto: per noi gli ottant’anni equivalgono alla morte civile… Come decano conserverei il primo posto alle cerimonie, sarei invitato ai ricevimenti, potrei celebrare qualche cresima e qualche ordinazione sacerdotale (forse... i vescovi diocesani sono giustamente gelosi di questo privilegio) ma sarebbero perlopiù ruoli di pura rappresentanza. È meglio invece che possa operare un decano che ha tutte le prerogative di un cardinale “elettore”. E poi la mia salute è un po’ traballante e volendo comunque, quando sarà, essere seppellito nel mio Paese, preferisco tornarci da vivo piuttosto che da morto.
Ritiene che questa norma sugli ottant’anni introdotta da Paolo VI conservi la sua attualità?
GANTIN: È una regola saggia. Per certi versi è una benedizione. In effetti ci possono essere dei casi in cui un ecclesiastico già a sessanta farebbe meglio a rassegnare le dimissioni… Che ci sia un limite di età certo per tutti è quindi una garanzia. L’unica eccezione è giustamente quella del papa, anche perché la presenza di un papa emerito potrebbe creare problemi alla Chiesa universale.
Cosa farà quando tornerà nella sua Africa?
GANTIN: In Africa vivrò una maggiore semplicità: niente ricevimenti, contatti più umani, più distesi. Certo mi mancherà il Papa, mi mancheranno le notizie, le visite di cortesia… ma potrò condurre una vita più isolata e avrò così più tempo per pregare.
Lei era già stato a Roma come studente negli anni Cinquanta e da vescovo durante il Concilio Vaticano II. Nel ’71 però Paolo VI la richiama nell’Urbe come segretario aggiunto della Congregazione di Propaganda Fide.
GANTIN: Sono passati più di 31 anni… Ricordo ancora quando mi proposero di venire… Non avevo molta voglia di partire. Ma poi pensai che non potevo dire di no, che dovevo accettare innanzitutto per obbedienza, poi perché i missionari avevano lasciato la loro casa con enormi sacrifici per annunciarci il Vangelo di Gesù e io non potevo permettermi di non voler lasciare la mia casa se a chiamarmi era proprio quella Roma che aveva inviato i missionari.
Quale fu il suo primo impatto a Roma da segretario aggiunto di un importante dicastero curiale?
GANTIN: Ho ancora il mente quel 30 aprile del 1971. Atterrai a Fiumicino e non c’era nessuno ad aspettarmi all’aeroporto: il cardinale prefetto Agnelo Rossi non sapeva del mio arrivo e il segretario, l’arcivescovo Sergio Pignedoli, era in giro per il mondo. Non avevo ancora un alloggio ufficiale nell’Urbe e così andai a dormire dalle suore domenicane di via Cassia, che conoscevo bene perché avevano una missione in Benin. Questa mancata accoglienza non mi rattristò più di tanto. Venni poi a sapere che il papa Paolo VI invece se ne era rammaricato.
Ha un ricordo particolare del periodo passato come segretario aggiunto di Propaganda Fide?
GANTIN: Una volta feci un viaggio in Uganda, il cui dittatore Idi Amin era in forte contrasto con le potenze coloniali. Paolo VI volle che fossi io ad andarci per fargli comprendere che la Chiesa cattolica non era solo occidentale, ma anche africana. Dovetti spiegare ad Amin che i missionari cattolici non erano solo inglesi (odiava i british, come li chiamava lui) ma anche italiani, tedeschi, belgi. Lui si mostrò sorpreso: “Ah davvero? ” disse; “non lo sapevo…”. Era un militare di bassa cultura. Mi sembra che da quando è stato estromesso dal potere vive, da buon musulmano, in Arabia Saudita…
Nel ’76 venne chiamato a guidare l’allora Pontificia Commissione «Iustitia et pax».
GANTIN: A «Iustitia et pax» venni nominato pro-presidente perché presidente era il cardinale Maurice Roy, caso unico di capo dicastero residente fuori Roma, era infatti anche arcivescovo di Quebec in Canada. Rimasi comunque membro della Congregazione di cui ero stato segretario, così posso affermare che in Propaganda Fide sono rimasto complessivamente per tutti i 31 anni della mia permanenza a Roma.
Il cardinale Bernardin Gantin

Il cardinale Bernardin Gantin

L’anno dopo, nel ’77, Paolo VI la creò cardinale insieme a Giovanni Benelli, Joseph Ratzinger e Mario Luigi Ciappi…
GANTIN: Fu un “miniconcistoro”, l’ultimo. Di quella cerimonia conservo ancora lo zucchetto, era il numero due. Ma la cosa che ricordo con più commozione è che in quel concistoro venne reso noto anche il nome del cardinale creato in pectore l’anno precedente: era l’arcivescovo di Praga Frantisek Tomasek, la quercia morava, un grande testimone della fede.
Lei è stato poi per quattordici anni, dall’84 al ’98, prefetto della Congregazione per i vescovi. Alla fine di questo mandato rilasciò proprio a 30Giorni un’intervista in cui, riprendendo un’affermazione del compianto cardinale Vincenzo Fagiolo, dichiarò che per evitare il carrierismo nella Chiesa si doveva tornare alla grande disciplina della Chiesa antica per cui i vescovi, una volta nominati in una determinata sede, vi restano per sempre… Queste dichiarazioni, su cui si trovò d’accordo anche il cardinale Ratzinger, destarono un certo scalpore. Si è pentito di averle rilasciate?
GANTIN: No. Sono sempre convinto che quando un ecclesiastico viene eletto, ad esempio, vescovo in una piccola diocesi italiana, dovrebbe ritenersi contento, dovrebbe considerarsi il padre di quella porzione del popolo di Dio, sapendo che la paternità è per sempre. Se invece già all’inizio pensa di essere trasferito in una diocesi più grande e prestigiosa, allora le cose non vanno più bene. Non dovrebbero esistere infatti diocesi piccole e grandi, prestigiose e sconosciute, ma diocesi e basta. Capisco che si possa nutrire un po’ di ambizione per crescere, per migliorarsi, ma la pretesa no, è ingiustificabile e dannosa.
Il ricordo più bello che lascio nell’Urbe è Roma stessa, con le tombe degli apostoli Pietro e Paolo, con le memorie dei numerosi santi e martiri che vi hanno vissuto… Credo che piangerò di nostalgia per Roma. Ma ormai anch’io sono diventato romano e torno nella mia Africa da missionario romano
Qual è il ricordo più bello che lascia qui nell’Urbe?
GANTIN: È Roma stessa, con le tombe degli apostoli Pietro e Paolo, con le memorie dei numerosi santi e martiri che vi hanno vissuto… Credo che piangerò di nostalgia per Roma. Ma ormai anch’io sono diventato romano e torno nella mia Africa, da missionario romano.
E quello più triste?
GANTIN: Le tante critiche che ho sentito rivolgere alla Curia romana. Critiche formulate spesso senza conoscerla. Critiche ambigue. A volte comprensibili, perché capita che dei vescovi anche anziani siano trattati – a loro dire – come se fossero dei chierichetti e questo non va bene. Ma spesso ingiustificate, formulate da chi non conosce il lavoro, la dedizione, l’umiltà di chi lavora nei dicasteri romani. Esemplare in questo senso è per me il cardinale Ratzinger, un vero modello per tutta la Curia. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo personalmente ha saputo apprezzare la delicatezza, la sensibilità, la cortesia, la semplicità con cui Ratzinger affronta i casi, spesso difficili, che gli sono sottoposti.
A proposito di critiche alla Curia. Nel suo libro di memorie recentemente edito in Brasile, l’arcivescovo emerito di São Paulo, il cardinale Paulo Evaristo Arns, si è lamentato di come venne smembrata la sua diocesi nell’89. Ha raccontato di una udienza in cui il Papa gli avrebbe assicurato che non era sua intenzione dividere la diocesi. Quando poi venne da lei, titolare del dicastero che si occupò della questione, lei gli avrebbe comunicato che non sarebbe tornato indietro sulla decisione dello smembramento…
GANTIN: Non mi preoccupo più di tanto di queste critiche, ma non è corretto raffigurare un Papa “buono” circondato da una Curia “infida” e “cattiva”. Posso solo dire che la decisione fu presa con il beneplacito del Papa e con l’ampio consenso della Congregazione per vescovi. Debbo infatti ricordare che le decisioni delle Congregazioni sono collegiali e vengono prese da tutti i cardinali e i vescovi membri delle Congregazioni stesse. E in una Congregazione l’opinione del cardinale prefetto è relativa, come quella di ogni altro porporato.
Gantin, come cardinale decano, impone le ceneri a Giovanni Paolo II

Gantin, come cardinale decano, impone le ceneri a Giovanni Paolo II

Il Giornalino, il periodico per ragazzi delle edizioni San Paolo, ha da poco mandato in edicola una storia a fumetti in cui si profetizza l’elezione di un papa africano…
GANTIN: È una cosa che ultimamente si ripete spesso. Da un certo punto di vista è un bene perché significa che davvero nella Chiesa non c’è più né greco né giudeo… Tra quelli che lo dicono credendoci veramente e quelli che lo dicono per scherzare mi piace sottolineare che il futuro della Chiesa, anche per quanto riguarda questo particolare aspetto, appartiene a Dio. Ovviamente ogni pretesa da parte africana sarebbe una sciocchezza. E poi i problemi dei popoli africani non credo che si risolvano con un papa che venga da lì.
Comunque è prematuro parlare di conclavi prossimi venturi.
GANTIN: Assolutamente prematuro. Anche se per i mass media il conclave è cominciato da oltre un decennio… E questo non è un buon segno, vuol dire che c’è una attenzione morbosa e che forse le pressioni e i tentativi di condizionamento in futuro potranno essere più insidiosi e maliziosi di quelli che pure sono esistiti in passato. Bisogna ricordare però che quando i cardinali votano per eleggere il papa, lo fanno nella Cappella Sistina e hanno davanti al loro il Giudizio universale di Michelangelo. E sanno che il Signore li giudicherà per quello stanno facendo…


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