La distruzione di Montecassino
Il 18 maggio di sessant’anni fa terminava la battaglia di Cassino, una delle più dure e irrazionali della Seconda guerra mondiale. Costò migliaia di vite umane e la distruzione dell’abbazia di Montecassino fondata da san Benedetto. «Un faro della civiltà europea» l’ha definita il presidente Ciampi, bombardata dagli alleati «per un tragico errore, frutto di una cattiva informazione». Ecco che cosa accadde
di Roberto Rotondo

La copertina della Domenica del Corriere del 27 febbraio 1944
L’abbazia di Montecassino, che nel dopoguerra fu ricostruita esattamente com’era, quest’anno ha ricordato con alcune manifestazioni i sessant’anni dal bombardamento e dalla tragica battaglia. Anche il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, il 15 marzo, ha partecipato alle celebrazioni. È salito all’abbazia, dove si è raccolto in tre minuti di silenzio per ricordare le vittime dell’attentato terroristico di Madrid avvenuto cinque giorni prima, ha partecipato ad una messa e, poi, nella piazza di Cassino ha dedicato un discorso alle sofferenze di quelle terre durante l’ ultima guerra. Sofferenze che, nel dopoguerra, solo il libro e, poi, il film La Ciociara «hanno avuto il coraggio di raccontare», ha detto Ciampi. Aggiungendo: «Ci sono avvenimenti che rappresentano il male, che nessuna filosofia della storia riesce a mitigare. Nella Seconda guerra mondiale, purtroppo, ve ne sono stati molti. La distruzione di Cassino è uno di questi». Inoltre, ha continuato Ciampi, «nessuno potrà mai perdonare la distruzione di quello che per oltre mille anni è stato un faro della civiltà europea, l’abbazia di san Benedetto». E per ben due volte, il capo dello Stato, è tornato sul bombardamento del monastero benedettino: «Fu un tragico errore, frutto di una cattiva informazione».
A sessant’anni esatti di distanza anche Usa e Inghilterra ammettono che fu «un tragico errore». Ma come e perché si arrivò al bombardamento?
Il bombardiere numero 666
Ricostruiamo la vicenda, che ha molte analogie con guerre e operazioni militari dei nostri giorni, cominciando proprio da quel 15 febbraio 1944, quando, alle ore 9 e 24 del mattino, l’abbazia di Montecassino è scossa da una tremenda esplosione, che interrompe la preghiera del piccolo gruppo di monaci benedettini nel cenobio mentre invocano l’assistenza della Madonna e recitano «et pro nobis Christum exora». Tra di loro c’è l’abate ottantenne dom Gregorio Diamare e il suo segretario dom Martino Matronola, che in seguito pubblicherà un diario, indispensabile per ricostruire quei drammatici giorni. Sulle loro teste e su quelle delle centinaia di profughi presenti nel monastero si è appena abbattuto il grappolo di bombe da 250 kg l’una sganciato dal bombardiere strategico numero 666, pilotato dal maggiore Bradford Evans, il quale, con un numero di codice così inquietante, guida la prima delle quattro formazioni di B-17, le fortezze volanti statunitensi, che hanno ricevuto l’ordine di distruggere il millenario monastero arroccato sul colle. Alle fortezze volanti seguono altre quattro ondate di bombardieri medi. Alle 13 e 33 è tutto finito, i monaci sono tutti salvi, ma diverse centinaia di profughi sono morti sotto le bombe, e sarà difficile, anche dopo la guerra, riesumarne i corpi e dare un nome alle lapidi.

Una “fortezza volante” statunitense sorvola l’abbazia, il 15 febbraio 1944
Una sconfitta mediatica
La propaganda nazista, infatti, stava per scatenarsi, sfruttando la notizia del bombardamento a suo favore. Nell’Europa in mano ai nazisti gli angloamericani saranno dipinti, nei giorni seguenti il bombardamento, come nuovi barbari che vogliono cancellare sistematicamente ogni traccia della «superiore civiltà europea». L’abbazia di Montecassino, che in passato era stata distrutta per tre volte dai barbari, dai saraceni e da un terremoto, ora era stata ridotta in polvere «dai giudei e dai filobolscevichi a Mosca, Londra e Washington». Ma non basta, perché l’intelligence nazista – che secondo i rapporti dell’ambasciatore britannico in Vaticano D’Arcy Osborne, già da tempo stava spargendo la notizia che c’erano loro truppe nell’abbazia, per provocare un bombardamento alleato – ha gioco facile anche nell’eleggere i tedeschi a difensori della civiltà: era stata infatti la divisione Hermann Göring a mettere in salvo in Vaticano, nel dicembre 1943, tutte le opere d’arte dell’abbazia trasportabili, insieme all’immensa biblioteca con i suoi inestimabili codici.
In quest’operazione di salvataggio preventivo aveva influito soprattutto l’attenzione che il generale Frido von Senger, comandante del XVI Panzerkorps, aveva verso i benedettini e lo storico monumento. Senger, cattolico, legato da molti anni all’Ordine di san Benedetto, apparteneva a quella piccola aristocrazia della Germania meridionale contraria ai nazisti, ma obbediente agli ordini. Senger, che comandava l’intera linea Gustav, aveva anche fondamentalmente rispettato la neutralità del luogo e non aveva permesso alle sue truppe, sparse su tutta la montagna, di appostarsi all’interno della cintura larga 300 metri che circondava le mura dell’abbazia e che delimitava la zona neutrale.
La confutazione delle “prove inconfutabili”
Roosevelt, come Winston Churchill da Londra, dopo il bombardamento decide quindi di difendere la bontà della decisione dei comandi alleati nel Mediterraneo. Non solo perché la situazione dell’avanzata verso Roma era in una fase delicatissima (le truppe alleate nella valle del Liri erano bloccate mentre nella zona di Anzio rischiavano di essere addirittura ributtate in mare), ma anche perché il generale inglese Henry Maitland Wilson, comandante supremo interalleato nel Mediterraneo, affermava di avere «prove inconfutabili» della presenza del nemico nell’abbazia prima del bombardamento. E, quando, il 9 marzo, il Foreign Office inglese chiederà a Wilson di poter fornire al Vaticano una spiegazione, supportata da fatti, sul perché il monastero fosse stato distrutto, nonostante le ampie garanzie date alla Santa Sede sul rispetto dell’abbazia, Wilson confermò di aver ben dodici «prove inconfutabili» sull’uso militare da parte dei tedeschi del monastero, ma suggerì anche di tenerle segrete, per impedire che i tedeschi costruissero in seguito false controprove. La promessa fu che le prove sarebbero state date al Vaticano a tempo debito. Tempo che non arrivò mai, tanto che, anche dopo la guerra, ci vollero inchieste e controversi studi storici sui documenti degli archivi militari, per concludere che si trattò di un errore. Una delle prove inconfutabili di Wilson fu fatta conoscere dopo la guerra da uno dei protagonisti, il capitano David Hunt, aiutante del feldmaresciallo britannico Harold Alexander, comandante in capo degli eserciti alleati in Italia. Hunt raccontò come, poco dopo l’inizio del bombardamento, gli venne passata la traduzione di un messaggio intercettato ai nazisti che diceva: «Ist Abt noch im Kloester?» e la risposta era «Ja». Abt era stato tradotto come abbreviazione di “reparto militare”, quindi la frase risultava essere: «Il reparto è nel monastero?». «Sì». Sembrò anche ad Hunt la conferma dei loro sospetti, la classica “pistola fumante” come sarebbe chiamata oggi. Ma “Abt” significa anche abate. E, racconta sempre Hunt, gli bastò continuare a leggere il testo dell’intercettazione per capire che i tedeschi parlavano dei monaci nel monastero e non delle loro truppe. Comunque, disse Hunt, era troppo tardi per fermare gli aerei in volo. Possibile un errore di questa portata? Bisogna anche tener conto che i servizi segreti molto spesso vedono e sentono quel che pensano faccia piacere a chi comanda. E così è stato anche in questo caso, basti pensare che, dopo l’inizio del bombardamento, il tenente Herbert Marks, del controspionaggio alleato, che osservava il monastero con un telescopio, pur essendo provato che non c’erano tedeschi, affermò di averne visti una settantina correre dal portone dell’abbazia al cortile. E un messaggio della V armata delle ore 11, dopo la prima ondata di B-17, riferiva: «Duecento tedeschi fuggono dal monastero lungo la strada».

Il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e la moglie Franca in visita all’abbazia di Montecassino accompagnati dall’abate dom Bernardo D’Onorio il 15 marzo 2004
Un ordine mai rivendicato
Ma chi decise che Montecassino doveva essere distrutta? Nel libro Montecassino di David Hapgood e David Richardson (recentemente riedito da Baldini Castoldi Dalai), frutto di lunghe ricerche negli archivi militari, si afferma che non ci sono prove per dimostrare che la decisione fu presa ad un livello più alto del generale Wilson e del generale Alexander. Sta di fatto che la decisione finale di bombardare l’abbazia non fu mai rivendicata da nessuno nella scala gerarchica, a partire dai leader politici alleati, passando per gli stati maggiori e scendendo fino ai comandanti sul campo di battaglia. Solo un generale è passato alla storia come convinto assertore della necessità di distruggere Montecassino: Bernard Freyberg. Il comandante del contingente neozelandese, che dai primi di febbraio aveva preso posizione nella valle del Liri con i suoi uomini, era molto famoso in Nuova Zelanda, ma anche chi ammirava il suo coraggio ammetteva che stentava a concepire una strategia più complessa di quella di un toro in corsa. Così si ritrovò quasi subito d’accordo con il suo superiore Mark Clark sul piano che prevedeva la scalata del colle di Montecassino, nonostante che, già da settimane, questo piano fosse stato foriero solo di tremende perdite. Anzi, fin dai primi giorni, Freyberg scaricò sull’abbazia la colpa del mancato sfondamento delle linee tedesche, perché, secondo lui, i tedeschi guidavano da lì il tiro dell’artiglieria. Si arrivò così al 12 febbraio, giorno in cui Freyberg, per “necessità militari”, richiese con forza il bombardamento del monastero, paventando anche il ritiro delle sue truppe se non fosse stato accontentato. Clark non era d’accordo sia per motivi politici che militari, ma era in una posizione debole. Sulla sua immagine gravava ancora la sconfitta subita dalla divisione Texas il 20 gennaio. Il suo ordine di attraversare il fiume Rapido si era risolto nell’inutile sacrificio di quasi duemila soldati, e la notizia della sconfitta aveva fatto il giro del mondo. Inoltre, come scrisse Clark nel suo libro di memorie In guerra con Alexander, nella scala gerarchica sopra di lui c’erano due generali inglesi, e proprio Alexander gli disse a proposito del bombardamento: «Freyberg è un personaggio molto famoso nel Commonwealth, noi lo trattiamo con guanti di velluto e voi dovete fare altrettanto». Se si aggiunge il fatto che la quasi totalità dei giornali inglesi e statunitensi avevano avviato da molto tempo una martellante campagna di stampa in cui si affermava che i loro soldati stavano pagando con la vita la gentilezza dei comandi militari verso la Chiesa cattolica, e che era «meglio una vittoria in tasca che un Michelangelo sul muro», si comprende perché Clark si arrese e diede disco verde al decollo dei bombardieri. Non senza aver preventivamente lanciato volantini sul monastero per avvisare gli abitanti che le armi erano puntate su di loro. Per i profughi fu l’avviso di una condanna a morte, sia perché nessuno volle credere fino all’ultimo che si arrivasse a tanto, sia perché non ebbero possibilità di fuga, essendo circondati, per molti chilometri, da due eserciti in battaglia.
Il figlio di Freyberg salvato dalle suore

Ciò che resta dell’abbazia alla fine della battaglia
I tedeschi, come anche il comandante neozelandese aveva previsto, occuparono per primi le rovine e la battaglia a valle e a monte riprese feroce. Il paese di Cassino nelle settimane successive fu bombardato al punto che i carri armati americani non potevano procedere nell’avanzata, fermati dai crateri scavati dalle bombe dei loro stessi aerei e dalle loro artiglierie. Ci fu un dispendio di risorse economiche infinito. Una collina venne addirittura ribattezzata “One-million hill”, perché era stato calcolato dagli artiglieri che uccidere ogni singolo soldato nemico era costato 25mila dollari in proiettili. «Forse sarebbe stato più semplice se quella cifra» scrisse amaramente il famoso corrispondente di guerra Ernie Pyle «l’avessero offerta ai tedeschi per andarsene».