Così libera, così obbediente
Storia di Gianna Beretta Molla, la prima madre di famiglia dell’epoca moderna ad essere proclamata santa
di Stefania Falasca
Gianna Beretta Molla in una vacanza a Courmayeur, Aosta
Gianna queste poche righe le aveva scritte su un quaderno di scuola quando aveva diciotto anni. Morì che non ne aveva compiuti quaranta. Offrendo la propria vita per quella della sua quarta figlia. Il 16 maggio prossimo sarà canonizzata. È la prima madre di famiglia dell’epoca moderna a salire agli onori degli altari.
Una “kamikaze della vita”, non hanno esitato a definirla alcuni, polemizzando sull’opportunità della sua causa. Altri invece, per quel suo gesto eroico di madre, ne hanno fatto una paladina degli antiabortisti. Ma quante ammirevoli madri hanno compiuto lo stesso sacrificio... No. Non può essere solo quest’ultimo atto la chiave di tutto. Quando Paolo VI, raccogliendo le notizie sulla sua vita, espresse l’auspicio di vederla sugli altari, non aveva altro scopo che mostrarci una via semplicissima. Non altro desiderio che quello di lasciarci rapire, tuffandoci, in pieno, nel cuore stesso della santità cristiana. Attraverso il vissuto quotidiano di questa donna.
Lo straordinario della storia di Gianna Beretta Molla inizia da qui.
Non potremo fare del bene se non abbiamo in noi la grazia
«Una donna normalissima» la descrive il marito, l’ingegnere Pietro Molla. «Equilibrata, intelligente, moderna. Stimava la sua professione, amava la montagna, le piacevano i bei vestiti, i fiori e la musica. Gianna nella sua vita non ha mai cercato la rinuncia per la rinuncia, non ha fatto, secondo me, né ha inteso fare, cose fuori dell’ordinario, eccezionali. Non mi sono accorto di avere al fianco una santa...». Queste le sue prime parole deposte nell’interrogatorio al processo. Del resto, come dargli torto «se per santità s’intende fare cose grandi, penitenze fuori dal comune». «Nella vita di mia moglie» aggiunge «non ci sono state». Anche le tappe della sua vita sono quelle di tanti. Finiti gli studi liceali, si iscrive all’Università statale di Milano, nel 1949 si laurea in medicina e chirurgia, nel ’50 apre un ambulatorio a Magenta, nel ’52 si specializza in pediatria, nel ’55 si sposa. Famiglia e lavoro. Queste le sue occupazioni di ogni giorno fino alla morte.
Gianna era cresciuta in una famiglia numerosa. Con un padre e una madre di quelli che lasciano in eredità una fede semplice e bella. Tre dei suoi fratelli abbracceranno la vita religiosa. Due diventeranno medici, e uno di loro partirà missionario in Brasile fondando un ospedale. Ed è per seguire le loro orme che s’iscrive a medicina. Tanto che, finiti gli studi, pensa anche di raggiungere, come medico volontario, suo fratello. Prima di decidere chiede consiglio al suo parroco. «Ma perché vuoi andare tanto lontano?» le chiede: «Ci sono tante teste matte che si sposano e tu che sei una brava figliola vuoi andartene?». A suo fratello scrive: «Non verrò, per ora, in Brasile, Dio ha disposto diversamente». Nel ’54, in un concerto di fine anno, incontra Pietro. L’anno seguente si sposano. Vanno ad abitare a Ponte Nuovo, vicino Magenta. Lui lavora come dirigente in una fabbrica. In una delle prime lettere gli scrive: «Pietro carissimo, il Signore mi vuol proprio bene. Io sono proprio contenta. Tutto quello che siamo e abbiamo è solo dono della Sua bontà divina. Ecco il segreto della felicità: vivere momento per momento, istante per istante, abbandonandoci senza riserve all’azione della Sua grazia».
I figli arrivarono uno dietro l’altro. «Eravamo avanti con l’età» racconta il marito, «e Gianna non voleva essere per loro una madre troppo vecchia». A ogni nascita, come ringraziamento, mandava offerte, frutto dei suoi risparmi, al suo fratello missionario in Brasile. «Fin dall’inizio della nostra unione» racconta il marito «avevamo deciso che ognuno di noi potesse non mutare il suo lavoro, di dirigente industriale io e di medico lei, e questo fu realizzato senza scontri, salvo quei sacrifici necessari da entrambe le parti». Gianna così continua senza sosta a esercitare il suo lavoro di medico fino all’ultimo. «Dai suoi pazienti era molto stimata e ben voluta» ricorda l’infermiera che l’assisteva. «Sempre disponibile con tutti, anche quando veniva chiamata d’urgenza di notte, anche durante l’ultima gravidanza sempre attendeva prontamente. Ricordo che una volta fu chiamata tre volte nella stessa notte. Spesso portavano i malati ad attenderla in fondo alle scale, per delicatezza verso di lei e il suo stato. Se il paziente era povero, Gianna, oltre la visita gratuita, gli dava le medicine o i soldi. Continuò con naturalezza e dedizione l’assistenza ai malati fino al giorno prima di entrare in clinica per l’ultima volta». In una nota Gianna scrive: «Quanto è prezioso il nostro lavoro. Abbiamo occasioni che il sacerdote non ha... noi abbiamo i corpi da curare, ma quando le medicine non servono più, c’è l’anima da portare a Dio».
Gianna con il marito Pietro e la figlia Lauretta
Il marito, nella sua deposizione dichiara: «Gianna aveva un carattere fondamentalmente ottimista, basato però nella speranza dell’aiuto di Dio. Le componenti fondamentali della speranza cristiana di Gianna erano due: la sua piena fiducia nella Provvidenza e la certezza dell’efficacia determinante della preghiera».
Gesù mio bene, ti amo
Nel corso della sua ultima gravidanza le viene diagnosticato un fibroma che compromette la vita del bambino. Gianna non esita a scegliere la via più pericolosa per lei, scegliendo la salute del bambino. Si sottopone così a una difficile operazione per l’asportazione del fibroma. L’operazione riesce, la gravidanza continua, ma il rischio per lei, al momento del parto, si sarebbe ripresentato e sarebbe stato fatale. In quei giorni lascia scritta questa preghiera: «O Gesù, ti prometto di sottomettermi a tutto ciò che permetterai mi accada, fammi solo conoscere la tua volontà. Mio dolcissimo Gesù, Dio infinitamente misericordioso, Padre tenerissimo delle anime, e in modo particolare delle più deboli, delle più miserabili, delle più inferme che porti con tenerezza speciale fra le tue braccia divine, vengo a Te per chiederti, per l’amore e i meriti del tuo Sacro Cuore, la grazia di comprendere e di fare sempre la tua santa volontà, la grazia di confidare in Te, la grazia di riposarmi sicuramente per il tempo e per l’eternità nelle tue amorose braccia». Trascorre i successivi sei mesi di gravidanza confidando solo a pochi di essere conscia, come medico, dei gravi rischi che affrontava.
«Qualche mese prima del suo ultimo ricovero per la nascita di nostra figlia» ricorda il marito, «stavo uscendo per andare al lavoro e avevo già infilato il cappotto. Gianna, mi pare ancora di vederla, era appoggiata al mobile dell’anticamera della nostra stanza. Mi è venuta vicino. Mi guardò, senza parlare... così, come quando si debbono dire cose difficili alle quali si è tanto pensato. Poi mi disse: “Pietro, ti prego... Se si dovrà decidere tra me e il bambino, decidete per lui. Lo esigo, salvate lui. Te lo chiedo”. Così. Nient’altro. Rimasi incapace di dire qualunque cosa. Conoscevo mia moglie... Sono uscito di casa senza dire una parola».
Gianna, al settimo mese della sua ultima gravidanza, tiene due dei suoi figli in braccio
Entrò in camera operatoria sola. «Me la trovai in piedi davanti», ricorda il fratello medico Ferdinando; «con quel suo modo fermo e candido mi disse: “Eccomi, sono pronta per fare tutto quello che Dio vuole”».
Il mattino del 21 aprile del 1962 dà alla luce Gianna Emanuela. «Quando si svegliò dall’anestesia le portarono la piccola», racconta il marito: «La guardò e l’accarezzò in uno sguardo lunghissimo, in silenzio...». In quel Venerdì santo iniziò la sua passione. Ciò che si temeva non tardò a manifestarsi: peritonite settica. Non si riuscì a far nulla per salvarla. In quegli ultimi giorni, in mezzo ad atroci dolori, continuò a offrirsi umilmente, pregando, invocava la sua mamma in cielo e chiese che non le venissero dati stupefacenti, per restare cosciente. Virginia, la sorella suora, così ricorda gli ultimi momenti: «Entrai nella stanza e rimasi da sola con lei. Prima ancora di baciarla mi disse: “Ginia, sei qui… sapessi cosa vuol dire morire e lasciare quattro bambini piccoli... Non farti più mandare lontano... hanno bisogno di te adesso». Mi chiese di portarle la comunione. Ma non trovai il prete, le porsi allora il mio crocifisso. Lei lo strinse al petto e lo baciò con una tenerezza indicibile».
«La portammo a casa nel suo letto di sposa. Come aveva voluto» ricorda. «Gesù mio bene, ti amo» furono le sue ultime parole. Alle prime luci dell’alba il respiro si fece affannoso. Sentì la voce dei bambini che in quel momento si svegliavano nella stanza accanto. Gli occhi le si rigarono di lacrime... sorrise, poi spirò. Era il mattino del 28 aprile, Domenica in albis. La salma rimase esposta per tre giorni. In silenzio, un’interminabile processione di operai, medici, pazienti, sacerdoti, soci dell’Azione cattolica, tutta la popolazione di Magenta e di altri comuni, accorsero a salutarla. «Non ho mai atteso alle confessioni quanto in quei tre giorni» racconta nella deposizione il parroco. «Prima di portare l’ultimo saluto alla dottoressa, tanti, soprattutto uomini, che di rado si vedevano in chiesa, sentivano il bisogno di confessarsi». Al suo funerale un fiume di persone aspettarono in ginocchio il passaggio del suo feretro.
L’impossibile diventato possibile
Gianna da lassù ha continuato a fare il bene. Quindici anni dopo la sua morte è andata missionaria in Brasile. Proprio nell’ospedale di Grajaú, nello Stato del Maranhão, in cui esercitava come medico il fratello frate cappuccino. Il 22 ottobre del ’77, padre Alberto Beretta non si trovava nell’ospedale. La notizia della guarigione miracolosa di una partoriente, per intercessione di sua sorella, lo raggiunse quando si trovava in Italia. È il miracolo che ha portato Gianna alla beatificazione, il 24 aprile 1994. Il secondo miracolo, sempre in Brasile, nello Stato di San Paolo. L’11 gennaio 2000, la signora Elisabete Arcolino Comparini, viene ricoverata per la perdita totale di liquido amniotico al quarto mese di gravidanza. In questi casi l’esito è segnato. Morte del feto con conseguente aborto spontaneo o terapeutico a causa dell’immediato pericolo di vita per la madre. Ma dopo aver implorato l’aiuto di Gianna, la gravidanza, sotto gli occhi stupefatti dei medici, continuò e venne addirittura portata a termine. «Nella letteratura scientifica mondiale non sono registrati casi di sopravvivenza fetale in seguito a rottura delle membrane alla sedicesima settimana di gestazione; è assolutamente inspiegabile sia l’evoluzione, sia l’esito favorevole con la nascita di una bambina completamente sana» riferisce il perito della Consulta medica, professor Elio Cirese, primario di ostetricia e ginecologia dell’ospedale romano Fatebenefratelli e docente all’Università di Roma Tor Vergata. In una foto, allegata agli atti del processo, la signora brasiliana tiene in braccio la sua piccola Gianna Maria. La deposizione della donna chiude con queste parole: «Ogni volta che andavo in ospedale per le visite sentivo battere il cuore della bambina e questo mi dava forza nel continuare. Tutti continuavano a ripetermi: questo non è possibile. Mi dicevano: è impossibile. La dottoressa italiana... ha voluto tenermi lei la mano, da lassù. Dio mi ha voluto bene. E io ancora oggi parlo di questo “impossibile” divenuto “possibile”».