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CINA
tratto dal n. 05 - 2004

Dopo le recenti prove di “tacito accordo” tra Pechino e Santa Sede sulle nomine dei vescovi

Eletti “democraticamente”. Eppure validi


Per la prima volta dalla nascita della Repubblica Popolare, due vescovi sono stati ordinati con l’assenso del governo dopo aver reso pubblica la nomina ricevuta dal Papa. Ma anche le ordinazioni episcopali avvenute finora senza il mandato pontificio sono sacramentalmente valide. Come aveva già rilevato un’indagine sulla delicata questione svolta dai dicasteri vaticani nella prima metà degli anni Ottanta...


di Gianni Valente


La chiesa Dongtang a Pechino

La chiesa Dongtang a Pechino

Nella lunga strada dei rapporti tra la Chiesa cattolica e la Cina i cambiamenti veri sono spesso avvenuti sottovoce, senza fanfare. Due recenti episodi, registrati senza enfasi solo dalle agenzie di stampa specializzate, potrebbero segnare il silenzioso ingresso in una fase nuova rispetto al punto più delicato dell’anomalia che vive la Chiesa cattolica cinese da quasi cinquant’anni.
Lo scorso 6 gennaio, per la prima volta dalla nascita della Repubblica Popolare Cinese, l’ordinazione di un vescovo, il trentanovenne Pietro Feng Xinmao, nominato coadiutore della piccola diocesi di Hengshui, nella provincia dell’Hebei, è avvenuta con il riconoscimento del governo e nel contempo con la pubblica e dichiarata approvazione della Santa Sede. Il giovane vescovo, scelto dai sacerdoti della diocesi, prima dell’ordinazione aveva reso nota ai fedeli la nomina ricevuta da papa Giovanni Paolo II. A suggerire che potrebbe non trattarsi di un episodio isolato, è venuta alla fine di aprile l’ordinazione (anch’essa con previa nomina e approvazione pontificia, resa pubblica dal candidato) del trentottenne Zhang Xiawang a vescovo coadiutore della diocesi di Jinan, nella provincia dello Shandong.
Dal ’58, quando il regime maoista impose le elezioni “democratiche” dei vescovi cattolici sotto il controllo della filogovernativa Associazione patriottica dei cattolici cinesi, le ordinazioni episcopali riconosciute dal governo erano finora avvenute senza che ci fosse o fosse pubblicamente dichiarata l’approvazione pontificia. Per lunghi anni, sotto le pressioni del potere civile, si era disposto che negli stessi riti di consacrazione fossero inserite formule ad hoc e ne fossero omesse alcune di quelle consuete per marcare il fatto che tali ordinazioni episcopali avvenivano al di fuori della giurisdizione della Sede apostolica, senza alcuna “interferenza vaticana” nella vita religiosa del Paese, in linea con la Costituzione dell’82 secondo cui «i gruppi religiosi e le attività religiose non sono soggetti ad alcuna dominazione straniera».
Proprio nei primi anni Ottanta le ordinazioni episcopali cinesi sotto controllo governativo, in cui si consacravano senza approvazione da Roma sacerdoti che di solito uscivano dalle prigioni e dai campi di lavoro della Rivoluzione culturale, furono oggetto di uno studio dettagliato da parte del Vaticano. Un approfondimento utile ancor oggi per decifrare i contenuti reali del problematico rapporto tra la Santa Sede e l’ex Celeste Impero.
A quel tempo, il chiarimento da parte dalla Santa Sede offrì la soluzione definitiva per un caso quantomai serio. Alcuni rappresentanti cattolici cinesi dell’area clandestina, che rifiutava ogni compromesso con il regime, sollevavano dubbi non solo sulla legittimità, ma sulla validità stessa delle consacrazioni episcopali prive di approvazione papale. Perplessità che allora erano condivise anche da noti osservatori cattolici della Chiesa in Cina.
Sostenere che quelle consacrazioni episcopali erano invalide, significava invalidare anche le ordinazioni sacerdotali amministrate da quei vescovi e di conseguenza togliere valore ed efficacia ai sacramenti dell’eucarestia e della confessione celebrati nelle chiese che il regime cominciava a far riaprire, dopo gli anni terribili della Rivoluzione culturale. Un tesoro di grazia e conforto cristiano a cui tanti fedeli potevano finalmente riattingere con una certa facilità, spesso dopo aver patito persecuzioni.
Una messa mattutina nella Cattedrale di Fuzhou

Una messa mattutina nella Cattedrale di Fuzhou


Domande di riconciliazione
A mettere in moto i dicasteri vaticani fu la richiesta giunta a Roma da parte di un vescovo cinese, ordinato all’inizio degli anni Ottanta senza mandato pontificio, che chiedeva in via riservata di essere riconosciuto come vescovo legittimo dalla Sede apostolica. La Congregazione di Propaganda Fide sottopose la questione a Giovanni Paolo II, ricevendo dal Papa stesso l’incarico di studiare ulteriormente il caso «per chiarire i dubbi che potrebbero eventualmente sussistere circa la validità stessa dell’ordinazione, dato che il consacrante principale e i due co-consacranti sono illegittimi». Nel 1983 la richiesta di chiarimento dottrinale pervenne alla competente Congregazione per la dottrina della fede. Seguendo le indicazioni del rimpianto monsignor Jean Jérôme Hamer, allora segretario del dicastero vaticano e poi divenuto cardinale, fu redatto un ricco dossier a mo’ di “istruttoria”, su cui espressero i loro voti favorevoli alla validità delle ordinazioni in questione molti consultori dell’ex Sant’Uffizio.
Anche sulla base di questo lavoro, concluso nell’85, la Santa Sede ha continuato a considerare pienamente valide le ordinazioni episcopali in Cina, oltre ogni ragionevole (o pretestuoso) dubbio.

Le condizioni essenziali
Ma come si determina la validità o l’invalidità di un’ordinazione episcopale? Confrontando l’insegnamento della Chiesa con le notizie sulla complessa situazione cinese attinte anche dai propri archivi, l’approfondimento svolto dai dicasteri vaticani tendeva a verificare se nelle ordinazioni cinesi “patriottiche” si erano realizzate le condizioni essenziali richieste per la validità sacramentale. A partire dal soggetto consacrante e dal soggetto consacrato.
La Chiesa cattolica riconosce e riserva il potere di ordinare nuovi vescovi a tutti i vescovi che siano stati a loro volta validamente consacrati, anche se la loro consacrazione valida risulta illegittima perché non provvista del mandato o dell’approvazione del vescovo di Roma. Solo coloro che hanno ricevuto la successione apostolica valida possono a loro volta trasmetterla. A questo proposito, fu verificata minuziosamente tutta la rassegna dei consacranti per ognuna delle ordinazioni illegittime (cioè senza mandato o accettazione papale) dal ’58 all’82, per documentare che nelle linee di successione apostolica non c’erano state interruzioni.
Come era noto in Occidente, attraverso le notizie provenienti dalla Cina tramite i missionari rimasti ad Hong Kong, fino al ’64, in quasi tutte le ordinazioni, i consacranti erano vescovi legittimi, che spesso accettavano di consacrare i vescovi eletti “democraticamente” senza aderire in cuor proprio all’idea di una Chiesa cinese “indipendente” separata da Roma, ma solo per assicurare la continuità della struttura ecclesiale in tempi che si facevano sempre più difficili. Passata la Rivoluzione culturale, che per lunghi anni aveva annullato ogni espressione pubblica della vita cristiana, le ordinazioni erano riprese nel ’79, stavolta amministrate da vescovi anch’essi illegittimi. Anche tutti i sacerdoti consacrati vescovi possedevano i requisiti essenziali richiesti per la validità della consacrazione, che sono il battesimo valido e il sesso maschile.
Rituali “ritoccati”. Ma non nell’essenziale
Affinché un’ordinazione episcopale sia valida, il rito di consacrazione deve contenere, per quanto riguarda la materia e la forma, alcuni elementi essenziali. La Costituzione apostolica Sacramentum ordinis di Pio XII (1947) aveva indicato questi elementi essenziali nell’imposizione delle mani da parte del vescovo consacrante sull’eletto, e nella recita delle parole del “Praefatio” (la preghiera consacratoria), tra le quali sono dette esplicitamente essenziali e richieste ad valorem solo quelle della formula «Comple in sacerdote tuo ministerii tui summum, et ornamentis totius glorificationis instructum coelestis unguenti rore sanctifica» («Compi nel tuo sacerdote la pienezza del tuo ministero, e, rivestitolo con le insegne della più alta dignità, santificalo con la rugiada del celeste unguento») .
Vennero vagliate tutte le notizie e le ricostruzioni fatte da testimoni oculari, trasmesse per mezzo dei missionari di Hong Kong, le quali confermavano unanimemente che tutte le consacrazioni dei vescovi “patriottici” cinesi si erano svolte secondo il Pontificale romano, nelle vecchie edizioni in latino, sia prima che dopo la Rivoluzione culturale. Ma confermavano anche le pressioni ambientali affinché alcune parti del rituale fossero omesse o manipolate, per esprimere la lealtà dei vescovi consacrati nei confronti del governo ed evitare riferimenti a ogni loro legame giuridico con la Sede apostolica.
Questi cambiamenti vennero sottoposti dagli uffici vaticani competenti ad una rigorosa analisi. In particolare, l’Associazione patriottica dei cattolici cinesi aveva stampato nel ’79 un libretto di Spiegazioni del Rito della messa solenne per l’ordinazione del vescovo. Una rivista della Chiesa in Cina documentava i fatti anche con le fotografie delle nuove ordinazioni episcopali. Dal libro in questione si ricavava quali fossero le variazioni che si sarebbero dovute apportare alle formule e ai passaggi del Pontificale romano, precedente alla riforma di Paolo VI, che continuava ad essere usato nelle liturgie di ordinazione episcopale. Con una accurata lettura sinottica era facile evidenziare le possibili varianti punto per punto.
Nelle formule iniziali, la lettura del mandato apostolico veniva sostituita con la lettura dell’atto di elezione “democratica” da parte del popolo e del clero diocesano. Nella formula di giuramento avrebbero dovuto essere omessi tutti i riferimenti al papa e agli obblighi di obbedienza del nuovo vescovo nei confronti della Sede apostolica, e si sarebbero dovute inserire espressioni di taglio nazionalistico e patriottico («Garantisco di condurre tutto il clero e tutti i fedeli della mia diocesi a obbedire al governo, ad amare la Patria e osservare le sue leggi»), insieme ad altre che affermavano l’impegno a mantenere «i principi dell’indipendenza, dell’autodeterminazione e dell’autogestione della Chiesa». Delle interrogationes rivolte al consacrando si sarebbero dovute omettere quella che impegnava il candidato a sostenere, insegnare e custodire «i decreti della Sede santa e apostolica», e quella in cui si dichiarava obbedienza «all’apostolo Pietro, al Papa regnante suo vicario e ai suoi successori». Perfino si sarebbe dovuta omettere la promessa di avere particolare cura dei poveri, in quanto sembrava offensiva del regime comunista che non poteva tollerare che vi fossero poveri in una nazione dove vigeva il sistema socialista. Mentre si sarebbe dovuta introdurre un’apposita formula ex novo, in cui il nuovo vescovo si impegnava a «sbarazzarsi completamente di tutti i controlli della Curia romana» e a camminare decisamente sulla strada della indipendenza, autodeterminazione e autogestione della Chiesa.
Proprio la disposizione di inserire quest’ultima formula nel rituale rappresentava l’espressione più esplicita dell’intento di non ammettere alcun vincolo di giurisdizione tra i vescovi cinesi e la Santa Sede.
D’altro canto, proprio questo studio accurato dei testi confermò che tutti gli omissis e le inserzioni arbitrarie, anche nel caso in cui fossero state tutte effettivamente operate durante la celebrazione concreta, pur configurando un’ordinazione illegittima per l’assenza del mandato pontificio, avrebbero riguardato comunque testi e aspetti non essenziali ai fini della validità del sacramento. Non a caso già nell’81 lo stesso segretario di Stato, il cardinale Agostino Casaroli, anticipando forse una possibile soluzione positiva del problema della Chiesa in Cina, proprio riguardo alle ordinazioni episcopali cinesi aveva dichiarato che «ciò che è illegittimo, a certe condizioni, può essere legittimato».
Per le formule e i gesti che accompagnavano l’imposizione delle mani, le ordinazioni senza mandato papale dei vescovi cinesi, come si poteva evincere dalla copiosa documentazione delle pubblicazioni della Chiesa in Cina, seguivano alla lettera il Pontificale romano. Dunque, riguardo alla materia e alla forma, conservavano integri tutti gli elementi essenziali per la validità della consacrazione.
Fedeli in preghiera nei pressi del santuario di She Shan, vicino a Shanghai, in occasione dell’annuale pellegrinaggio del 24 maggio

Fedeli in preghiera nei pressi del santuario di She Shan, vicino a Shanghai, in occasione dell’annuale pellegrinaggio del 24 maggio


Quod facit Ecclesia
L’altra condizione necessaria per la validità dell’ordinazione episcopale è che la consacrazione avvenga secondo l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa quando consacra un vescovo («intentio faciendi quod facit Ecclesia»).
Su questo punto si concentravano le obiezioni di chi, sia nella Cina continentale che tra alcuni studiosi di Hong Kong, sollevava dubbi sulla validità delle ordinazioni cinesi. Secondo alcuni, le eventuali esplicite dichiarazioni di indipendenza dalla giurisdizione della Santa Sede e la censura di ogni riferimento al legame col vescovo di Roma, pur non compromettendo la validità delle consacrazioni dal punto di vista della materia e della forma, contravvenivano alla necessaria condizione di consacrare i nuovi vescovi con l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa quando amministra le ordinazioni episcopali. Soprattutto nell’area clandestina della Chiesa cinese, guidata da vescovi ordinati legittimamente, fuori dal controllo dell’Associazione patriottica, i dubbi sulla validità delle ordinazioni “patriottiche” trovavano facile presa.
Ma anche su questo punto le informazioni acquisite da vari testimoni, e note alla stampa, confrontate con la dottrina consolidata, escludevano che si potesse invocare il “difetto d’intenzione” per sollevare dubbi sulla validità delle ordinazioni cinesi.
In particolare, sulla questione dell’intenzione, che usciva dall’ambito riscontrabile dei fatti esteriori per investire anche quello soggettivo interno del consacrante e del consacrato, si poteva richiamare, come facevano alcuni esperti consultati nella verifica vaticana, un passo della Apostolicae curae (1896), la Lettera apostolica di Leone XIII sulla invalidità delle ordinazioni anglicane. In esso veniva ribadito il principio per cui, non potendo in tali casi la Chiesa giudicare dell’intenzione interna, ogniqualvolta venivano rispettate la forma e la materia richieste per l’amministrazione del sacramento si presumeva che il consacrante e il consacrato avessero inteso «fare ciò che fa la Chiesa» quando consacra dei vescovi. Nel caso delle ordinazioni cinesi, e diversamente dalle ordinazioni anglicane, erano state usate l’imposizione delle mani e le parole del prefazio consacratorio del Pontificale romano, che costituivano la forma e la materia prescritte. Ed era evidente anche l’intenzione di consacrare i vescovi come veri pastori, secondo quanto la Chiesa crede e professa riguardo al ministero episcopale, pur al di fuori della giurisdizione della Santa Sede.
Su questo punto delicato si concentravano anche molti argomenti dei pareri espressi dai consultori interpellati sulla base del materiale raccolto. Uno di loro scriveva tra l’altro che il giuramento non sembrava implicare necessariamente, da parte del soggetto, una totale rottura o separazione dalla fede della Chiesa tale come viene professata nel Credo che gli stessi vescovi “patriottici” recitavano e facevano recitare durante la messa, confessando in tal modo la stessa fede della Chiesa di Roma.
A spazzar via ogni dubbio sul “caso cinese”, bastava poi riproporre la dottrina cattolica consolidata da secoli e confrontatasi con casi simili della storia anche recente della Chiesa, in merito alla validità dei sacramenti amministrati da ministri eretici o scismatici. Da san Gregorio Magno al Concilio ecumenico Vaticano II, da sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino fino al Codice di diritto canonico promulgato nel 1983, il Magistero e la teologia classica hanno riconosciuto validi tali sacramenti, quando fossero adempiute le necessarie condizioni di validità, sulla base del fatto che «la virtù di Cristo che agisce nei sacramenti non viene ostacolata dalla condizione indegna del ministro», come affermava un brano di papa Anastasio II citato nel parere di uno degli esperti. Le sanzioni canoniche che colpiscono i vescovi consacrati senza beneplacito della Sede apostolica rendono nulli gli atti di giurisdizione e di magistero amministrati da costoro. Ma non possono invalidare gli atti sacramentali, amministrati in virtù della potestas ordinis o potestas sanctificandi che è “irrevocabile” in quanto conseguita in virtù del sacramento e che tocca la dimensione ontologica della persona. Lo stesso Pio XII, nell’enciclica Ad Apostolorum Principis del ’58, proprio in merito al caso cinese aveva stabilito che i vescovi ordinati illegittimamente e i loro consacranti incorrevano ipso facto nella scomunica «specialissimo modo» riservata alla Santa Sede. Ma aveva riconosciuto la validità di tali consacrazioni. E poi i protagonisti di quella vicenda erano davvero animati da un reale intento scismatico?

Nessuno scisma cinese
Nessun papa ha mai riconosciuto nella travagliata vicenda della cattolicità cinese la consumazione di un vero scisma. Nell’incertezza dovuta anche alla scarsità di notizie, solo Giovanni XXIII, in un famoso discorso al Concistoro del 15 dicembre ’58, si era spinto a scongiurare il «gravissimo pericolo di un funesto scisma», ma non era andato oltre.
Nel frattempo sulla casistica delle ordinazioni episcopali cinesi erano trapelati anche da parte di testimoni oculari preziosi elementi di chiarimento, acquisiti con interesse nel corso dell’approfondimento vaticano. Vi erano le testimonianze di numerosi vescovi che dicevano di aver pronunciato le formule “indipendentiste” «solo con le labbra, ma non con il cuore». Molti dichiaravano di essere stati accorti nel “correggere” tali formule, con l’accordo del consacrante, omettendo con finta distrazione, mentre le pronunciavano, ogni espressione che indicasse una esplicita volontà di indipendenza dalla Sede apostolica. Si raccontava a mo’ di esempio la storia di un vescovo «che non voleva fare il giuramento e non lo fece. Si arrivò con il vescovo consacrante a un compromesso in questi termini: “Accetti il controllo di una Chiesa straniera?”, gli fu chiesto. Allora lui domandò cosa significasse “straniera”. Il vescovo che lo interrogava ribatté: “Accetti il controllo e la direzione da Taiwan?”». In altre occasioni in realtà non si sapeva cosa si erano detti fra di loro il consacrante ed il consacrato perché in quel momento l’organo della Chiesa aveva iniziato a suonare forte per impedire che fossero udite le parole del giuramento.
Già all’inizio degli anni Ottanta, le lettere sempre più numerose che i vescovi illegittimi inviavano a Roma con la richiesta di essere legittimati in via riservata dalla Santa Sede confermavano che tutta la loro vicenda andava giudicata tenendo conto delle circostanze concrete in cui si era svolta. Tutti si dichiaravano assolutamente certi della validità dell’ordinazione ricevuta. Tutti affermavano di aver accettato l’ordinazione senza mandato pontificio con lo scopo ultimo di garantire in tali circostanze la continuità della Chiesa in Cina, in attesa di tempi migliori.
Era noto negli ambienti della Congregazione di Propaganda Fide il fatto che giungevano alla Santa Sede, attraverso persone fidate, lettere scritte in latino da anziani vescovi che chiedevano perdono al Santo Padre e supplicavano di essere riconosciuti nella piena comunione con il Successore di Pietro, spiegando le ragioni del loro operato con il desiderio di salvare il salvabile e non lasciare il gregge senza pastori.
In questo quadro, l’approfondimento svolto dai dicasteri vaticani, pur lasciando la decisione all’autorità del Papa, guardava con favore alla reintegrazione dei vescovi richiedenti nel pieno esercizio del proprio ministero episcopale avendo come criterio la «“suprema lex” che è la salvezza delle anime». Neanche la collaborazione dovuta da questi vescovi agli organismi “patriottici” controllati dal Partito comunista veniva di per sé presentata come un dato che precludesse questa possibilità. Già molti studiosi del caso cinese e frequentatori della Cina negli anni Ottanta affermavano, contro un modo troppo scontato di parlare e di ragionare, che non era giusto identificare l’Associazione patriottica nazionale, che era un organismo di controllo politico, con la parte di Chiesa che in Cina accettava o sopportava tale controllo. Anzi, molti specialisti della questione ecclesiale cinese già allora giudicavano ingiusta la denominazione stessa di “Chiesa patriottica”, dato che vescovi, sacerdoti e fedeli pur registrati presso l’Associazione patriottica erano e si professavano fedeli alla fede cattolica e si sentivano in piena comunione con il Papa. Lo studio vaticano riconosceva che dopo la Rivoluzione culturale c’era una relativa libertà di movimento, tollerata talvolta anche all’interno dell’Associazione patriottica. Non sembrava che la vita della Chiesa in Cina fosse tanto politicizzata «da non permettere spazi di libertà interiore ed esteriore perfino ai vescovi».
In effetti, a partire dai primi anni Ottanta, un numero crescente di vescovi ordinati col sistema “democratico”, previa la loro petizione e considerata volta per volta la loro situazione personale e la certezza della validità della loro ordinazione secondo i requisiti sopra indicati, cominciarono a essere riconosciuti come vescovi legittimi dalla Sede apostolica. Ma di questa storia 30Giorni tratterà un’altra volta.


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