Vittime della finanza
Così idealista, così feroce
La crisi argentina è tutt’altra cosa rispetto alla povertà che morde buona parte dell’America Latina e dei Paesi in via di sviluppo. Questo è il testa-coda di una nazione moderna, la frana per smottamento di un sistema che aveva seguito alla lettera le istruzioni dettate dall’ortodossia neoliberista. Col risultato di spazzar via la classe media più consistente di tutto il Sud America e di diventare terra fertile per gigantesche speculazioni finanziarie straniere. Ecco come sta finendo un decennio votato all’irrealtà
di Gianni Valente
Una immagine delle proteste popolari in Argentina
La crisi argentina è tutt’altro rispetto alla povertà che morde buona parte dell’America Latina e dei Paesi in via di sviluppo. È il testa-coda di una nazione moderna. La frana per smottamento di un sistema sociale che si era affidato in appalto alle “mani invisibili” del mercato globale, seguendo alla lettera tutte le istruzioni per l’uso dettate dall’ortodossia neoliberista: privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica, apertura al capitale finanziario esterno. Col risultato di spazzar via la classe media più consistente e radicata di tutta l’area latinoamericana.
Nell’esplosione sociale argentina c’è di tutto. I cacerolazo, i concerti di pentole spontanei iniziati il giorno che il decaduto presidente de la Rua ha decretato lo stato d’assedio, e che continuano a rimbombare in tutto il Paese. Ci sono i piqueteros disoccupati delle grandi aree deindustrializzate, che bloccano le strade. Ci sono le asambleas de barrio delle periferie abbandonate e dei settori di lavoratori sindacalizzati. Ma la forza d’urto potenzialmente devastante è la rabbia di chi ha scoperto da poco di essere diventato povero. La maggioranza silenziosa, quelli che di solito pensano agli affari loro, senza grilli per la testa. I milioni di piccoli proprietari e risparmiatori che hanno visto il conto sequestrato dalle banche, dilapidato dalla svalutazione del peso, gli stipendi che arrivano a singhiozzo e la voragine della disoccupazione che li risucchia.
Gli studi delle agenzie di statistica sociale come la “Equis” raccontano in cifre il saccheggio che attraverso i processi di accumulazione finanziaria, nell’arco di 25 anni, ha prima illuso e poi vampirizzato la maggioranza degli argentini. Gli strati medi che a metà degli anni Settanta, prima della dittatura, costituivano il 65% della popolazione, ora sono solo il 45%. I poveri adesso sono il 30%: dodici milioni, di cui quattro in stato di indigenza. Il 60% di questo esercito di disperati proviene dalla classe media. Nell’ultimo quarto di secolo c’è stata una progressiva concentrazione della ricchezza nell’élite finanziaria. I ceti bassi hanno perso il 32% delle loro entrate, i settori medio-bassi il 22% e i medi il 12,5%. Solo gli strati più elevati hanno visto un aumento delle entrate del 21%.
Quando i manifestanti assaltano i bancomat e le sedi delle aziende privatizzate, cercano di vendicarsi del nemico invisibile che credono di aver individuato. Ma la reattività sociale assume anche forme più fantasiose.
Vite in svendita
Una singolare insegna di un caffé argentino
I miracoli di san Cayetano
Non è vero, come scrivono sui giornali, che è aumentata la fila dei pellegrini a San Cayetano, il patrono del pane e del lavoro. Nel santuario più caro alla classe trabajadora fin dai tempi d’oro del sindacalismo peronista, sono sempre stati tanti quelli che portavano le loro pene davanti al santo amico delle prostitute e dei disgraziati messi in croce dagli strozzini. Semmai, la notizia è che da quando è iniziata la crisi, nella seconda metà degli anni Novanta, più di duecento copie della statua del santo sono partite verso parrocchie, cappelle e oratori di tutto il Paese. Tutti vogliono la sua consolazione vicina, a portata di pellegrinaggio, ora che senza soldi è diventato più difficile partire per la capitale. L’altra notizia è che da un po’ di tempo a pregare san Cayetano per il pane e il lavoro non vengono solo gli operai licenziati e i poveretti. Si vedono anche banchieri, dirigenti di piccole imprese, industriali sul lastrico. Come la giovane Elisa, che qualche giorno fa ha chiesto a padre Fernando di benedire la sua piccola fabbrica di estintori con trenta operai, che non riesce più a tenere aperta. Fernando, 31 anni, due metri d’altezza e una faccia da attore, insieme agli altri preti del santuario, fa quello che può, e non è poco. Tengono aperta la chiesa e i confessionali per dodici ore al giorno. Raccolgono cibo, medicine e vestiti che distribuiscono per tutto il Paese con più di quaranta spedizioni al mese. Organizzano una mensa parrocchiale e corsi di formazione per gli esclusi dal circuito produttivo. Tengono una banca dati coi nomi di chi cerca lavoro, che l’anno scorso ha permesso a quasi duemila disoccupati di trovare occupazioni precarie per sopravvivere. E in tanto darsi da fare tengono allenato uno sguardo lucido e realista su quello che è successo all’Argentina. «Tanti di quelli che ora battono le pentole» dice Fernando «sono gli stessi che applaudivano Menem e i suoi illusionismi sulla “rivoluzione produttiva”. Abbiamo passato dieci anni in un mondo irreale, fittizio. Dove chi guadagnava sulla speculazione finanziaria si permetteva di andare tutte le settimane in California per il weekend. Era una bomba a tempo».
Un padre di famiglia disoccupato che chiede l’elemonsina
come un segno
Alla stazione di Retiro i boliviani e i peruviani danno l’assalto ai torpedoni con i loro fagotti. Per qualche anno col loro lavoro in nero raccattato ai margini del finto boom argentino hanno mantenuto le famiglie. La moneta di qui pesava, un peso uguale un dollaro, grazie all’artificio della convertibilità. Ma adesso è finita. Non c’è più lavoro e il peso si è sganciato dall’abbraccio mortale che lo legava alla divisa statunitense, precipitando. Meglio tornarsene a casa.
Il crollo argentino schiaccia la classe media. Ma gli effetti a catena sono devastanti soprattutto ai piani bassi. Nel secondo e nel terzo cordone abitativo intorno a Buenos Aires tornano a gonfiarsi le villas miserias, come chiamano qui le baraccopoli. Ritornano come reduci sconfitti quelli che avevano provato a trovare un posto nell’apparente normalità urbana. Si aggiungono gli immigrati e i nuovi poveri provenienti dall’interno, dalla provincia, perché almeno in questi formicai umani c’è la scuola per i bambini e ogni tanto qualcuno passa a distribuire vestiti e medicine.
Nel quartiere-satellite di San Isidro il contrasto è da capogiro. In mezzo alle ville extralusso dei superricchi, tra campi da golf e strade chiuse vigilate dalla seguridad, continua a gonfiarsi il barrio la Cava. 13mila baraccati accalcati in un reticolo inzeppato di casupole, tubi dell’acqua accroccati, fili della luce penzolanti, cumuli di immondizia. Da quando è saltato tutto, i pochi che prima rimediavano qualche changa, qualche lavoretto nelle case dei ricchi, bighellonano davanti ai tuguri scalcinati. Ai bambini e ai ragazzi prova a pensarci la parrocchia, che gestisce il centro educativo per milleduecento di loro, dai due ai diciott’anni. Ma per i grandi è facile lasciarsi andare. Assumere la mentalità degli assistiti a vita. Non a tutti capita, come a Héctor, la fortuna di ricominciare. Quando spacciava e rubava, ogni tanto si sorprendeva a immaginare che sarebbe finita presto, per la droga o per qualcuna delle coltellate che rimediava a ripetizione, e che ancora gli infiorano il corpo. Poi ha incontrato degli amici, persone della Chiesa che lavoravano per il recupero dei drogati. «Gente» dice «di quella che Dio usa come un segno». Ha trovato una ragazza. Ha raccolto un paio dei cinque figli che negli anni aveva sparso per la favela ed è andato a vivere con lei e i suoi tre bambini, figli di altre storie perdute. Parla guardando le due stanze scrostate in cui vivono e gli brillano gli occhi. «Non avrei mai pensato di mettere su famiglia, una casa, di avere dei figli per cui alzarsi e andare a cercare lavoro». Dalla sua vita povera e disordinata ma senza rancori, guarda con amichevole distacco anche i furori collettivi di questi tempi. Lui che il conto in banca non l’ha mai avuto, adesso non ha il problema del corralito. Se gli chiedi se scenderà in piazza per il cacerolazo, alza le spalle. «Devo trovare il latte e il riso per i bambini. Se domani non abbiamo da mangiare, non ce lo dà mica il governo. E neanche i suonatori di pentole».