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ARGENTINA
tratto dal n. 01 - 2002

Vittime della finanza

Così idealista, così feroce


La crisi argentina è tutt’altra cosa rispetto alla povertà che morde buona parte dell’America Latina e dei Paesi in via di sviluppo. Questo è il testa-coda di una nazione moderna, la frana per smottamento di un sistema che aveva seguito alla lettera le istruzioni dettate dall’ortodossia neoliberista. Col risultato di spazzar via la classe media più consistente di tutto il Sud America e di diventare terra fertile per gigantesche speculazioni finanziarie straniere. Ecco come sta finendo un decennio votato all’irrealtà


di Gianni Valente


Una immagine delle proteste popolari in Argentina

Una immagine delle proteste popolari in Argentina

Adesso la middle class di Buenos Aires la puoi incontrare di notte tra le aiuole di plaza Libertad. Gente come Gabriel e Florencia, aria gentile e impacciata, che si apparecchiano la casetta di cartoni per dormire. L’appartamento di due camere dove avevano iniziato a vivere se l’è preso la banca, dopo che il negozio di gioielli dove lavoravano è fallito e non hanno trovato più i soldi per il mutuo. Adesso, il futuro è diventato uno specchio infranto e i loro progetti arrivano fino a dopodomani, quando andranno alla Caritas della chiesa del Carmine a farsi la doccia e a sciacquare i panni. Arriva anche Víctor, laurea inutile in giurisprudenza, che dorme qui dopo una giornata passata in biblioteca, almeno lì si leggono gratis i giornali. Passano i ragazzi della parrocchia di San Nicola. Distribuiscono panini ai clochard storici del quartiere, e anche ai nuovi arrivati, che allungano mani curate ed esitanti. Eduardo, che sta in strada da tanti anni e millanta di aver conosciuto Evita sul set di qualche film, se la ride di questi nuovi poveri che non sanno chiedere l’elemosina, che non sopportano di puzzare, che ancora si schifano a rovistare nell’immondizia. E ha da ridire anche sui parrocchiani, che danno da mangiare a tutti senza rispettare l’anzianità di accattonaggio. «Ma insomma, noi c’eravamo da prima!».
La crisi argentina è tutt’altro rispetto alla povertà che morde buona parte dell’America Latina e dei Paesi in via di sviluppo. È il testa-coda di una nazione moderna. La frana per smottamento di un sistema sociale che si era affidato in appalto alle “mani invisibili” del mercato globale, seguendo alla lettera tutte le istruzioni per l’uso dettate dall’ortodossia neoliberista: privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica, apertura al capitale finanziario esterno. Col risultato di spazzar via la classe media più consistente e radicata di tutta l’area latinoamericana.
Nell’esplosione sociale argentina c’è di tutto. I cacerolazo, i concerti di pentole spontanei iniziati il giorno che il decaduto presidente de la Rua ha decretato lo stato d’assedio, e che continuano a rimbombare in tutto il Paese. Ci sono i piqueteros disoccupati delle grandi aree deindustrializzate, che bloccano le strade. Ci sono le asambleas de barrio delle periferie abbandonate e dei settori di lavoratori sindacalizzati. Ma la forza d’urto potenzialmente devastante è la rabbia di chi ha scoperto da poco di essere diventato povero. La maggioranza silenziosa, quelli che di solito pensano agli affari loro, senza grilli per la testa. I milioni di piccoli proprietari e risparmiatori che hanno visto il conto sequestrato dalle banche, dilapidato dalla svalutazione del peso, gli stipendi che arrivano a singhiozzo e la voragine della disoccupazione che li risucchia.
Gli studi delle agenzie di statistica sociale come la “Equis” raccontano in cifre il saccheggio che attraverso i processi di accumulazione finanziaria, nell’arco di 25 anni, ha prima illuso e poi vampirizzato la maggioranza degli argentini. Gli strati medi che a metà degli anni Settanta, prima della dittatura, costituivano il 65% della popolazione, ora sono solo il 45%. I poveri adesso sono il 30%: dodici milioni, di cui quattro in stato di indigenza. Il 60% di questo esercito di disperati proviene dalla classe media. Nell’ultimo quarto di secolo c’è stata una progressiva concentrazione della ricchezza nell’élite finanziaria. I ceti bassi hanno perso il 32% delle loro entrate, i settori medio-bassi il 22% e i medi il 12,5%. Solo gli strati più elevati hanno visto un aumento delle entrate del 21%.
Quando i manifestanti assaltano i bancomat e le sedi delle aziende privatizzate, cercano di vendicarsi del nemico invisibile che credono di aver individuato. Ma la reattività sociale assume anche forme più fantasiose.

Vite in svendita

Una singolare insegna di un caffé argentino

Una singolare insegna di un caffé argentino

A Quilmes, i capannoni della fabbrica tessile che ha chiuso, mandando sul lastrico migliaia di operai, erano andati in rovina. Adesso, per tre giorni a settimana, brulicano come un formicaio umano. Centinaia di bancarelle improvvisate fanno il mercato del trueque de la Bernalesa. Uno dei più grandi della rete di economia alternativa che si è propagata in pochi mesi in tutto il Paese, con quattromila punti di scambio dalle province del nord fino alla Patagonia. Ospitati nelle parrocchie, nei circoli sindacali, negli impianti di industrie fallite. Un colpo di reni dell’imprenditoria “dal basso” che in pochi mesi ha visto impennare il numero degli aderenti da 50mila a quasi 400mila. Un supermercato fai da te, che apre filiali dovunque a ritmo esponenziale, da cui dipende per buona parte l’economia familiare di più di un milione e mezzo di persone. Se le aziende collassano e licenziano, se le banche sequestrano i conti e nascondono all’estero i capitali, se tutto il sistema economico-finanziario va in blackout, al mercato del trueque (che vuol dire scambio, baratto) vai e vendi quello che hai, o quello che sai fare. Non circolano né pesos né dollari. Ognuno compra e vende beni e servizi servendosi dei crediti, piccoli foglietti verdi che valgono solo all’interno del circuito. Insomma, un miniesercito di piccoli produttori e consumatori tenta una piccola rivincita dell’economia reale sui processi virtuali della speculazione finanziaria che hanno evaporato le risorse del Paese. C’è di tutto: dal pane alle lampadine, dai cannelloni ai laboratori di depilazione, dai cavalli a dondolo alle visite a domicilio offerte in baratto da un’azienda sanitaria che è fallita. Arrivano anche molti commercianti di Baires, lasciano i loro negozi nei quartieri ricchi dove non entra più nessuno e provano a piazzare qui i loro articoli in cambio del cibo e dei beni primari. Ma la maggior parte di quelli che da tante strade diverse sono finiti qui, dietro alle bancarelle, è in fuga dalla bancarotta della propria vita. Cercano una via di uscita dal gioco perverso di chi li ha spinti in battaglia, tagliando la via del ritorno. Gente come Margarita e Víctor, lei licenziata dalla fabbrica tessile, lui dalla fabbrica di scarpe, insieme a migliaia di altri colleghi. Adesso, lui fabbrica scarpe con il cuoio comprato all’ingrosso e lei cuce vestiti. E i loro cinque bambini si divertono pure, a fare i commessi per caso dietro il banchetto di mamma e papà. Ma c’è anche chi non sa far nulla, e allora mette in vendita gli arnesi ormai inutili di un minimale benessere consumista franato nel nubifragio inatteso della miseria. Come Gladis e Alejandro, che allineano sulla loro tavola di legno una piastra per asciugare i capelli, un frullatore, le punte per il trapano, il videoregistratore e qualche cassetta di film americani, «tanto noi li abbiamo già visti». C’è anche la cartomante che legge i tarocchi, ma al suo tavolino non si siede quasi nessuno. Non servono i veggenti per indovinare che qui anche domani sarà dura.
I miracoli di san Cayetano
Non è vero, come scrivono sui giornali, che è aumentata la fila dei pellegrini a San Cayetano, il patrono del pane e del lavoro. Nel santuario più caro alla classe trabajadora fin dai tempi d’oro del sindacalismo peronista, sono sempre stati tanti quelli che portavano le loro pene davanti al santo amico delle prostitute e dei disgraziati messi in croce dagli strozzini. Semmai, la notizia è che da quando è iniziata la crisi, nella seconda metà degli anni Novanta, più di duecento copie della statua del santo sono partite verso parrocchie, cappelle e oratori di tutto il Paese. Tutti vogliono la sua consolazione vicina, a portata di pellegrinaggio, ora che senza soldi è diventato più difficile partire per la capitale. L’altra notizia è che da un po’ di tempo a pregare san Cayetano per il pane e il lavoro non vengono solo gli operai licenziati e i poveretti. Si vedono anche banchieri, dirigenti di piccole imprese, industriali sul lastrico. Come la giovane Elisa, che qualche giorno fa ha chiesto a padre Fernando di benedire la sua piccola fabbrica di estintori con trenta operai, che non riesce più a tenere aperta. Fernando, 31 anni, due metri d’altezza e una faccia da attore, insieme agli altri preti del santuario, fa quello che può, e non è poco. Tengono aperta la chiesa e i confessionali per dodici ore al giorno. Raccolgono cibo, medicine e vestiti che distribuiscono per tutto il Paese con più di quaranta spedizioni al mese. Organizzano una mensa parrocchiale e corsi di formazione per gli esclusi dal circuito produttivo. Tengono una banca dati coi nomi di chi cerca lavoro, che l’anno scorso ha permesso a quasi duemila disoccupati di trovare occupazioni precarie per sopravvivere. E in tanto darsi da fare tengono allenato uno sguardo lucido e realista su quello che è successo all’Argentina. «Tanti di quelli che ora battono le pentole» dice Fernando «sono gli stessi che applaudivano Menem e i suoi illusionismi sulla “rivoluzione produttiva”. Abbiamo passato dieci anni in un mondo irreale, fittizio. Dove chi guadagnava sulla speculazione finanziaria si permetteva di andare tutte le settimane in California per il weekend. Era una bomba a tempo».

Un padre di famiglia disoccupato che chiede l’elemonsina

Un padre di famiglia disoccupato che chiede l’elemonsina

Gente che Dio usa
come un segno

Alla stazione di Retiro i boliviani e i peruviani danno l’assalto ai torpedoni con i loro fagotti. Per qualche anno col loro lavoro in nero raccattato ai margini del finto boom argentino hanno mantenuto le famiglie. La moneta di qui pesava, un peso uguale un dollaro, grazie all’artificio della convertibilità. Ma adesso è finita. Non c’è più lavoro e il peso si è sganciato dall’abbraccio mortale che lo legava alla divisa statunitense, precipitando. Meglio tornarsene a casa.
Il crollo argentino schiaccia la classe media. Ma gli effetti a catena sono devastanti soprattutto ai piani bassi. Nel secondo e nel terzo cordone abitativo intorno a Buenos Aires tornano a gonfiarsi le villas miserias, come chiamano qui le baraccopoli. Ritornano come reduci sconfitti quelli che avevano provato a trovare un posto nell’apparente normalità urbana. Si aggiungono gli immigrati e i nuovi poveri provenienti dall’interno, dalla provincia, perché almeno in questi formicai umani c’è la scuola per i bambini e ogni tanto qualcuno passa a distribuire vestiti e medicine.
Nel quartiere-satellite di San Isidro il contrasto è da capogiro. In mezzo alle ville extralusso dei superricchi, tra campi da golf e strade chiuse vigilate dalla seguridad, continua a gonfiarsi il barrio la Cava. 13mila baraccati accalcati in un reticolo inzeppato di casupole, tubi dell’acqua accroccati, fili della luce penzolanti, cumuli di immondizia. Da quando è saltato tutto, i pochi che prima rimediavano qualche changa, qualche lavoretto nelle case dei ricchi, bighellonano davanti ai tuguri scalcinati. Ai bambini e ai ragazzi prova a pensarci la parrocchia, che gestisce il centro educativo per milleduecento di loro, dai due ai diciott’anni. Ma per i grandi è facile lasciarsi andare. Assumere la mentalità degli assistiti a vita. Non a tutti capita, come a Héctor, la fortuna di ricominciare. Quando spacciava e rubava, ogni tanto si sorprendeva a immaginare che sarebbe finita presto, per la droga o per qualcuna delle coltellate che rimediava a ripetizione, e che ancora gli infiorano il corpo. Poi ha incontrato degli amici, persone della Chiesa che lavoravano per il recupero dei drogati. «Gente» dice «di quella che Dio usa come un segno». Ha trovato una ragazza. Ha raccolto un paio dei cinque figli che negli anni aveva sparso per la favela ed è andato a vivere con lei e i suoi tre bambini, figli di altre storie perdute. Parla guardando le due stanze scrostate in cui vivono e gli brillano gli occhi. «Non avrei mai pensato di mettere su famiglia, una casa, di avere dei figli per cui alzarsi e andare a cercare lavoro». Dalla sua vita povera e disordinata ma senza rancori, guarda con amichevole distacco anche i furori collettivi di questi tempi. Lui che il conto in banca non l’ha mai avuto, adesso non ha il problema del corralito. Se gli chiedi se scenderà in piazza per il cacerolazo, alza le spalle. «Devo trovare il latte e il riso per i bambini. Se domani non abbiamo da mangiare, non ce lo dà mica il governo. E neanche i suonatori di pentole».


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