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PAPI DEL '900
tratto dal n. 01 - 2002

Parla don Biagio Amata, decano del Pontificium Institutum Altioris Latinitatis

Se almeno il Canone fosse rimasto in latino…


Parla don Biagio Amata, decano del Pontificium Institutum Altioris Latinitatis


di Lorenzo Cappelletti



Incipit del De civitate Dei di Agostino 
in un manoscritto del XV secolo conservato nella Biblioteca di Rimini

Incipit del De civitate Dei di Agostino in un manoscritto del XV secolo conservato nella Biblioteca di Rimini

Don Biagio Amata è l’attuale decano del Pontificium Institutum Altioris Latinitatis fondato con motu proprio da Paolo VI nel 1964 in attuazione dell’esplicito mandato della costituzione Veterum sapientia. È al suo terzo anno di reggenza, dopo aver preso il posto di don Enrico dal Covolo, ora vicerettore della Pontificia Università Salesiana (UPS). Insieme hanno programmato la celebrazione del quarantennale della Veterum sapientia il 22 febbraio presso la medesima Università. Anche perché, scriveva don Biagio sull’Osservatore Romano nel luglio 2000 ricordando questo atto del pontificato di Giovanni XXIII, la Veterum sapientia «non si trova nemmeno indicizzata nella maggior parte delle pubblicazioni edite in occasione della prossima beatificazione [di Giovanni XXIII] né nel dvd multimediale tempestivamente messo in commercio; ed è pressoché assente anche nei siti internet a soggetto religioso cattolico», suonando «quasi offesa alla memoria di Giovanni XXIII così attento a coniugare tradizione e innovazione».
Ha pronte le dimissioni se non verrà presto un gesto significativo inteso al rilancio dell’Istituto da parte della Santa Sede che ne mantiene l’alto patronato. Parla schietto. È un siciliano simpatico, ne ho conosciuti altri.
Perché l’Istituto che lei dirige fu affidato ai Salesiani?

DON BIAGIO AMATA: L’Istituto fu assegnato alla Società Salesiana perché tradizionalmente in essa c’era stato un culto del latino, consacrato anche nelle regole: l’amore per il latino veniva ritenuto un segno specifico di vocazione. Don Bosco era stato il primo a dar vita a una collana scolastica di antichi scrittori cristiani. Questo fu il motivo per cui, con grande sacrificio e superando opposizioni interne, l’allora superiore maggiore non esitò a dire di sì all’invito della Santa Sede. Tanto più che un articolo del nostro don Gallizia, nel 1959, faceva intravedere la necessità della fondazione di un grande Istituto di livello universitario per lo studio della lingua latina. Bisogna dire anche che altri grandi ordini interpellati rifiutarono.
La débâcle del latino era già in atto nella Chiesa?
DON AMATA: Nei seminari c’era stato un crollo dell’insegnamento del latino. Crollo che divenne poi vuoto dopo la riforma scolastica in Italia (la Veterum sapientia cade proprio nell’anno della riforma della scuola media inferiore in Italia: 1962), una disgregazione a cui gli uomini di Chiesa non erano preparati; mai avrebbero immaginato un sovvertimento di quelle che erano le loro certezze e neanche un cambiamento nella politica italiana: erano convinti che tutto restasse nello statu quo ante. Pensavano che la riforma Misasi durasse qualche anno. È durata quarant’anni! Ma quell’atto di forza fu fatto anche per tappare la bocca a quanti volevano un adattamento della liturgia. E questo fu l’errore grave. In fondo l’intuizione del movimento liturgico era semplicemente di rendere comprensibili al popolo le parti della liturgia della Parola.
Poi si è andati molto oltre quella intuizione.
DON AMATA: Sì, finirono per prevalere certi fanatismi, le istanze avveniristiche e avventuristiche, nonostante le posizioni moderate del Concilio, obbligando Paolo VI a togliere la lingua latina anche dal Canone. I padri erano equilibratissimi, accettarono le istanze del movimento innovatore ma anche le istanze in favore dell’unità del rito, in modo che non ci si sentisse estranei da una nazione all’altra. La contestazione dei lefebvriani non solo della riforma liturgica ma anche dell’aspetto pastorale e di fede del Vaticano II irrigidì le posizioni. Non so se si possa dire, ma Paolo VI non ebbe dei validi e degli intelligenti collaboratori. Il movimento lefebvriano poteva essere contenuto. Invece di imporre subito la riforma si potevano usare le nuove formule per un periodo di venti, venticinque anni ad experimentum. Potevano crearsi dei momenti di urto, di difficoltà, certo. Fatto sta che la Chiesa ha dovuto poi subire lo scisma lefebvriano. Si dice che altrimenti sarebbe stato peggio. Bisogna vedere.
Una più scrupolosa custodia del latino liturgico non avrebbe raggiunto lo scopo meglio della Veterum sapientia, favorendo indirettamente, per lo stupore di fronte alla bellezza di canti e preghiere, anche una volontà di apprendimento e di approfondimento?
DON AMATA: Ricordo come fosse oggi che, quando venne introdotto da Paolo VI l’uso della lingua nazionale anche nel Canone, due docenti che mi affiancavano (io ero preside allora) dissero chiaramente: questa è la morte del latino nella Chiesa. Si rivelarono profetici. Non essendoci più nessuna preghiera in latino, che interesse c’è a celebrare in latino, e che motivo c’è di fare questo tipo di studi? Bisogna dire che la risonanza del latino era anche formatrice, la risonanza di certe preghiere, di certi salmi era, diciamo così, fortemente impegnativa per la propria vita ascetica, spirituale, morale. Ora improvvisamente sono cadute dalla memoria della Chiesa, non solo dei singoli sacerdoti. Questo è un impoverimento troppo grande, ecco perché mi sto impegnando, per obbedienza al carisma della Società Salesiana, certo, ma anche perché in prima persona vedo che è una grande perdita umana, una grande perdita ecclesiale, la totale scomparsa del latino. Sacerdoti che non sanno leggere neanche le lapidi che hanno nelle loro chiese, sacerdoti che non conoscono neanche l’abc del breviario perché, fatto nella forma in cui è stato fatto (salmi da un lato, antifone dall’altro, le letture da un altro ancora. Non parliamo poi della liturgia delle ore nel tempo di Avvento e del periodo di Natale che è veramente...), dà l’impressione che la preghiera sia una cosa complicata. Guai a parlarne così ai liturgisti, eppure loro sono stati la causa di questa perdita: invece di rendere semplice la preghiera propria del popolo di Dio... Non si è capito l’animus, l’intenzione di allora (credo, o forse sono io a non aver capito...): nelle discussioni preparatorie si voleva che quella preghiera fosse la preghiera della Chiesa e quindi doveva essere alla portata di tutti. E invece, in questa maniera diventa sempre più una preghiera artificiosa. Cose che io ho scritto. Ma nessuno parla, perché se per caso uno si muove, ci sono cinquanta liturgisti che fanno i dottori della Legge dall’altra parte.
Ritorniamo alla Veterum sapientia. Ebbe di fatto attuazione quella costituzione. Per quanto tempo effettivamente si insegnò in latino?
DON AMATA: Non sono uno storico e dunque non sono competente a rispondere, ma obbiettivamente i docenti non erano preparati a fare scuola in latino. Quindi ci furono minacce di dimissioni in massa e le università, compresa la Gregoriana, rischiarono di trovarsi sguarnite improvvisamente. Nelle altre nazioni fu un disastro totale: le proteste dei vescovi furono di tale ampiezza (questo si è sempre negato ufficialmente) che obbligarono la Congregazione a soprassedere, a far finta di niente. Anche il nostro Istituto, per il quale si prevedeva un enorme afflusso, il primo anno ebbe sì e no 64 iscritti, una cifra irrisoria, e gli anni successivi cifre ancora inferiori, fino al divieto del superiore nel 1972 di accettare iscrizioni. Una dichiarazione di morte. Ma anche dopo si è vivacchiato. C’è bisogno di un forte ripensamento, di un gesto significativo da parte della Santa Sede perché questo Istituto, che è stato fondato da Paolo VI e di cui la Società Salesiana da quarant’anni si è accollata l’onere, ha avuto una impalcatura accademica che già allora non era adeguata alla situazione. Si supponeva che all’Istituto venissero sacerdoti che già avevano fatto gli studi teologici, si supponeva che avessero fatto gli studi classici: supposizioni che non corrispondevano e non corrispondono più alla realtà. È mancato il controllo della Santa Sede. Dopo 30-40 anni bisogna verificare che sia raggiunta la finalità per cui un Istituto è stato fondato! Mi si è detto: vai avanti, tranquillo, nella santa Chiesa anche cento anni può andare avanti qualcosa senza... Ma ci sono delle vite umane di mezzo!
Un codice miniato

Un codice miniato

Delle ragioni che presiedevano alla Veterum sapientia sembra che la Sapientia christiana, il documento dell’aprile 1979 che disciplina attualmente gli studi ecclesiastici, abbia ritenuto solo la necessità di uno studio del latino (senza peraltro specificarne le modalità: «Nelle facoltà di Scienze sacre è richiesta una congrua conoscenza della lingua latina affinché gli studenti possano comprendere e usare le fonti di tali scienze e i documenti della Chiesa») per accedere alle fonti e ai documenti della Chiesa. Come in concreto viene attuata questa disposizione per quel che è la sua esperienza?
DON AMATA: Quel documento non recepisce la Veterum sapientia, non poteva recepirla per la mutata situazione. C’era stato il ’68, c’era il grande abbandono dello stato clericale: oggi nessuno se lo ricorda, ma centinaia, migliaia di sacerdoti hanno lasciato il sacerdozio e la Chiesa cattolica. L’intenzione del legislatore, magari, era dire che ci voleva una buona conoscenza della lingua latina; nelle intenzioni degli avversari quella dizione significa una qualche conoscenza della lingua latina, perché ci sono le traduzioni, si dice, e si può accedere ai testi mediante esse (ma la traduzione assolutizza, la traduzione in italiano non fa che vertere il testo in quella parte che si vuole risulti predominante). Ma c’è un’altra cosa da dire sugli studi ecclesiastici.
Dica.
DON AMATA: Qual è il concetto su cui sono costruite le facoltà teologiche e tutte le università pontificie che hanno come struttura la facoltà teologica? Che il sacerdote sappia di tutto, soprattutto le verità più contestate, per cui ci sono trattati e esami a sé stanti: ma questa parcellizzazione svilisce il tipo di studio di una materia. Avendo immesso nel 1971 l’Istituto all’interno del Pontificio Ateneo (poi Università) Salesiano come facoltà alla pari con le altre facoltà (noi ci chiamiamo indifferentemente Pontificium Institutum Altioris Latinitatis e Facultas Litterarum Christianarum et Classicarum o anche con entrambi i nomi...), si è arrivati a far assumere questo stesso carattere a un Istituto che avrebbe invece bisogno che si insegnasse, ad esempio, grammatica latina e greca per tutti i primi tre anni, anzi per tutti e cinque gli anni, non solo il primo anno, in modo che alla fine del quinto anno si conosca bene la grammatica latina e greca; e in contemporanea le rispettive letterature. Ma questo va contro gli statuti generali della Santa Sede. Basta così.


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