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DOCUMENTO
tratto dal n. 06 - 2004

Che vi sia carità tra le Chiese sorelle


La Chiesa ortodossa russa dal concilio del 1917 a oggi e i suoi rapporti con la Chiesa di Roma


di Andrea Pacini


I primi due decenni del Novecento sono densi di avvenimenti fondamentali per la religione in Russia. Nel 1905 per la prima volta viene emanata dallo Stato russo una legge sulla tolleranza religiosa, con il conseguente riconoscimento della libertà di coscienza per i sudditi dell’Impero e di libertà di organizzazione per le diverse confessioni religiose. La legge sulla tolleranza religiosa rese possibile ad esempio l’emergere sul piano pubblico della “Chiesa dei vecchi credenti”, fino a quel momento ridotti a un’esistenza marginale, per quanto le loro comunità fossero tutt’altro che inconsistenti. La legge migliorò anche la situazione della Chiesa cattolica, la cui giurisdizione consisteva nella metropolia di Mogilev (con sede a San Pietroburgo) cui afferivano cinque diocesi suffraganee: Samoghizia, Lutzk-Zhitomir, Vilna e Tirasapol con sede a Saratov. La provincia ecclesiastica era la più grande del mondo per la Chiesa cattolica, e includeva tre quarti della Russia europea e l’intera Russia asiatica. Secondo le statistiche diocesane del 1910 l’arcidiocesi aveva 28 decanati, 245 parrocchie, 399 preti, e un totale di 1.023.347 fedeli cattolici. A San Pietroburgo era funzionante l’Accademia teologica cattolica con 58 studenti e il seminario maggiore con 122 seminaristi (nei corsi di propedeutica, filosofia e teologia)1.
Giovanni Paolo II e il cardinale Lubomyr Husar a Kiev nel giugno del 2001

Giovanni Paolo II e il cardinale Lubomyr Husar a Kiev nel giugno del 2001

Influenzata in modo positivo dal nuovo clima politico-culturale, nello stesso anno 1905 la Chiesa ortodossa russa chiese allo zar la convocazione di un concilio per dibattere tutta una serie di questioni relative ai suoi rapporti con lo Stato e attinenti alla propria riforma interna. La convocazione fu negata, e solo nel 1917, dopo la Rivoluzione di ottobre, il concilio fu effettivamente convocato2. Nel corso di questo concilio furono prese alcune decisioni di grande rilevanza: dopo circa due secoli – ovvero dall’emanazione del Regolamento ecclesiastico di Pietro il Grande nel 1721, che, abolito il patriarcato, aveva imposto un procuratore laico di nomina imperiale a presiedere il Santo Sinodo – fu ristabilito il patriarcato con l’elezione del nuovo patriarca nella persona del metropolita Tichon, sottraendo così la Chiesa ortodossa all’influenza diretta dello Stato. Furono inoltre elaborati nuovi statuti relativi all’organizzazione della Chiesa, chiaramente fondati sulla sinodalità, e furono discusse riforme prendendo in considerazione anche molteplici istanze di aggiornamento della pastorale ai tempi moderni.
Questo periodo di “nuova primavera” per la Chiesa ortodossa ebbe però durata brevissima: fu infatti stroncato nel 1918 dalle nuove leggi volute da Lenin, che privavano tutte le chiese in Russia della personalità giuridica, impedendo loro quindi di operare nella società, anche sul piano della catechesi. Inizia la politica marxista di ostilità aggressiva verso la religione, che provocherà la pluridecennale persecuzione delle Chiese e dei credenti. Nel 1925 muore il patriarca Tichon e non sarà consentito eleggere un successore al ruolo patriarcale. Alla guida della Chiesa subentra allora il metropolita Sergio, che assume la carica di locum tenens patriarcale (dopo la deportazione ed esecuzione del primo locum tenens eletto, il metropolita Pietro Poliansky). Nonostante che il metropolita Sergio avesse riconosciuto la legittimità del governo sovietico per salvare la stessa sopravvivenza della Chiesa (nel 1930 arrivò a negare pubblicamente l’esistenza di persecuzioni), l’epoca sovietica segna l’inizio di una fase tragica. Nel periodo tra il 1918 e il 1943 la persecuzione delle Chiese fu ininterrotta. La Chiesa ortodossa fu colpita in modo quasi annientante. Nel 1922 iniziarono le confische dei luoghi di culto e i processi sommari contro i membri del clero e i credenti di tutte le Chiese. Vescovi, preti, monaci e laici furono soppressi in modo sommario o deportati nei gulag. Si susseguirono persecuzioni, distruzioni di monasteri e di chiese: nel 1939 la Chiesa ortodossa russa aveva praticamente perduto tutta la sua struttura gerarchica. Secondo i calcoli di Dimitri Pospelovsky circa 600 vescovi e 40mila preti ortodossi sono stati fisicamente eliminati tra il 1918 e il 1938, ovvero tra l’80% e l’85% del clero esistente al momento della Rivoluzione3. Analoga persecuzione toccò anche la Chiesa cattolica: nel 1926 non rimaneva alcun vescovo cattolico in Russia, e nel 1941 solo due delle oltre 1200 chiese esistenti nel 1917 (localizzate soprattutto in Lituania) erano aperte al culto.
Sopra, l’incontro tra il patriarca Alessio II e il cardinale Walter Kasper il 22 febbraio 2004 a Mosca;  sotto, il presidente russo Putin insignisce Alessio II, in occasione del settantacinquesimo compleanno del patriarca, dell’onorificenza dei Servitori della patria

Sopra, l’incontro tra il patriarca Alessio II e il cardinale Walter Kasper il 22 febbraio 2004 a Mosca; sotto, il presidente russo Putin insignisce Alessio II, in occasione del settantacinquesimo compleanno del patriarca, dell’onorificenza dei Servitori della patria

Il governo tentò di demolire la Chiesa ortodossa anche dall’interno, tramite l’incentivazione di correnti scismatiche interne e appoggiandosi a frazioni più progressiste di clero e fedeli. Queste correnti – di cui la più importante prese il nome di “Chiesa viva” – si svilupparono però in competizione reciproca e finirono per spegnersi sia per le vicendevoli rivalità, sia per mancanza di consenso da parte del popolo.
Nello stesso tempo, di fronte a quella che veniva ritenuta l’accondiscendenza del metropolita Sergio, sorge una forte opposizione nella Chiesa contro la sua autorità, e nasce la Chiesa delle catacombe, suddivisa in diverse cappelle. Nella diaspora si forma poi la Chiesa russa dell’emigrazione (o fuori frontiera) a partire da clero e fedeli russi che avevano preso la via dell’esilio. Questa Chiesa si ritenne – e si ritiene – l’unica erede canonica del patriarcato di Mosca, in quanto la gerarchia presente in Russia, riconoscendo il potere bolscevico, avrebbe perso il proprio statuto di canonicità (cadendo nell’eresia). Le stesse difficoltà nei rapporti con una gerarchia che sembrava eccessivamente remissiva e compromessa sorsero tra la diaspora russa in Europa occidentale, e motivarono la formazione di una nuova giurisdizione ecclesiastica: l’esarcato russo dipendente da Costantinopoli, tuttora esistente.
La situazione in Russia conosce un importante mutamento tra il 1941 – data dell’invasione tedesca – e il 1943. L’invasione tedesca di territori russi provoca due eventi che producono un cambiamento nei rapporti tra Stato sovietico e Chiesa ortodossa. Di fronte all’invasione tedesca il metropolita Sergio fa un appello patriottico al popolo in difesa della nazione: Stalin comprende che la Chiesa può essere utile per promuovere e rinsaldare la resistenza contro l’invasore. Nello stesso tempo nelle regioni conquistate dai tedeschi le Chiese ottengono nuovamente libertà di culto e di organizzazione: Stalin teme che questo esempio possa incentivare la Chiesa ortodossa e i credenti russi a non collaborare nella resistenza. Queste due ragioni convincono Stalin ad aprire una nuova fase di rapporti con la Chiesa ortodossa russa. Nel 1943 Stalin riconosce di nuovo alla Chiesa ortodossa la personalità giuridica, restituendole una parte dei luoghi di culto, autorizzando l’elezione a patriarca del metropolita Sergio, permettendo una sua riorganizzazione, per quanto parziale e sotto stretto controllo statale. Saranno del resto proprio le regioni cadute in mano ai tedeschi a godere, anche dopo, di una maggiore facilità per l’esercizio del culto, mentre altrove la situazione rimarrà difficile.
Dopo avere respinto l’invasione tedesca nel 1945 Stalin opera una concentrazione all’interno del patriarcato di Mosca di tutte le strutture ecclesiastiche orientali esistenti nei territori di nuova espansione sovietica, incluse le strutture ecclesiali greco-cattoliche. La Chiesa greco-cattolica in Ucraina viene ovunque soppressa e i suoi beni vengono confiscati dallo Stato o devoluti alla Chiesa ortodossa. Una parte del clero, sotto forti pressioni, accetta di integrarsi nella Chiesa ortodossa (1947 e 1949), mentre una grande porzione di clero e fedeli si rifugia nella clandestinità. Potremmo allora dire che la politica ecclesiastica staliniana è caratterizzata da due diversi atteggiamenti: da una parte, un cambiamento nei rapporti con la Chiesa ortodossa russa, la cui situazione, per quanto ancora precaria, conosce un miglioramento. Dall’altra, una netta opposizione contro la Chiesa greco-cattolica, che conduce alla sua cancellazione sul piano formale e alla sua soppressione sul piano materiale e pastorale, secondo una politica che già nei secoli precedenti gli zar avevano attuato o cercato di attuare quando i territori abitati dai greco-cattolici entravano a fare parte dell’Impero. La situazione della Chiesa cattolica conosce dunque un peggioramento oggettivo.
Se la politica di Stalin segna dunque un qualche miglioramento per la Chiesa ortodossa, è distruttiva per la Chiesa greco-cattolica.
Il patriarca Tichon

Il patriarca Tichon

La politica di ateizzazione tuttavia continua, anche ai danni della Chiesa ortodossa russa. In particolare conosce un nuovo impeto sotto Krusciov4. Migliaia di chiese furono nuovamente chiuse con la forza e la maggior parte degli otto seminari e dei monasteri fu soppressa. Dopo Krusciov, negli anni Sessanta, continua il forte controllo statale sui vescovi e sulla Chiesa. In particolare la Chiesa viene utilizzata come strumento di propaganda all’estero del regime sovietico. La Chiesa doveva negare pubblicamente la persecuzione. È in questo clima che la Chiesa ortodossa russa diviene membro nel 1961 del Consiglio ecumenico delle Chiese5. Negli anni Settanta e Ottanta si sviluppa però il dissenso, che trova terreno fecondo tra i credenti e i preti. Sono soprattutto credenti e preti intellettuali che manifestano il loro dissenso e diffondono notizie tramite i samizdat sulla realtà del sistema sovietico e sulle persecuzioni di cui le Chiese erano oggetto; i samizdat giungono anche in Occidente e provocano movimenti di solidarietà verso i credenti in Russia. La conseguenza fu la recrudescenza della campagna antireligiosa in Unione Sovietica6.
Solo nel 1987 e nel 1988, in concomitanza con il millenario del Battesimo della Rus’, inizia con Gorbaciov il disgelo, che assume ritmi impensati grazie al generale collasso dei governi comunisti in Europa. Nel 1990 venne emanata la nuova legge sulla libertà religiosa, che riconosceva in modo molto ampio a tutte le confessioni il diritto alla libertà di culto e di organizzazione. La legge ha subito negli anni successivi diversi emendamenti restrittivi, che intendevano soprattutto limitare l’azione missionaria di confessioni religiose “straniere” e dei loro membri7. Questa evoluzione è collegata ai timori che il crescente pluralismo religioso ha indotto in alcuni settori della società russa, in particolare all’interno della Chiesa ortodossa. L’ultimo esito di questo processo è stata l’emanazione della nuova legge sulla libertà religiosa del 1997, che è stata oggetto di molte discussioni a livello interno e internazionale per la disparità di trattamento istituito tra le diverse confessioni religiose, e per i limiti che, secondo i critici, verrebbero posti a un libero esercizio della libertà religiosa per i membri delle comunità religiose presenti in Russia da meno di quindici anni.
È indubbio che con gli anni Novanta comincia dunque un nuovo periodo per la Chiesa ortodossa russa, caratterizzato da due aspetti fondamentali: da un lato vi è l’aspetto della libertà ritrovata, dello sviluppo della propria organizzazione e della rinnovata acquisizione di un ruolo socioculturale riconosciuto; dall’altro si impone l’esigenza di affrontare le sfide complesse di una situazione sociale definita da alta scristianizzazione, dalla modernità culturale, tecnologica e politica, e, infine, dal pluralismo in ambito religioso.
Il metropolita Sergio. «Di fronte all’invasione tedesca il metropolita Sergio fece un appello patriottico al popolo in difesa della nazione»

Il metropolita Sergio. «Di fronte all’invasione tedesca il metropolita Sergio fece un appello patriottico al popolo in difesa della nazione»

In questa situazione complessa si sviluppano anche le relazioni con la Chiesa cattolica, iniziate in modo ufficiale nel 1961 e sviluppatesi in modo positivo durante l’epoca sovietica successiva, quando tutte le Chiese erano accomunate dalla soggezione a uno stato di persecuzione. I rapporti tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa tuttavia hanno subito incontrato molteplici elementi di crisi a partire dagli anni Novanta, proprio nel clima di nuova libertà finalmente instauratosi. Il proselitismo cattolico in Russia e le attività della Chiesa greco-cattolica ucraina – che ha ritrovato anch’essa la sua libertà e il riconoscimento giuridico nel 1991 – sono, secondo le ripetute dichiarazioni ufficiali del patriarcato di Mosca, i due nodi che rendono controverse le relazioni tra le due Chiese, ma che vanno compresi nella complessità del panorama ecclesiale, politico e culturale della Russia e dei Paesi limitrofi, in cui la transizione postsovietica è per molti aspetti ancora in corso.
Per comprendere i tratti essenziali di questo nuovo panorama che incidono sulle relazioni tra le Chiese, occorre in primo luogo considerare che la fine dell’epoca comunista e la ritrovata libertà hanno trasformato il modo di vivere i rapporti reciproci da parte delle Chiese. Se è vero che a partire dagli anni Sessanta si era sviluppato un intenso processo di rapporti ecumenici tra Chiesa ortodossa russa e Chiesa cattolica, è anche vero che si trattava di un ecumenismo che coinvolgeva solo le élite, cioè specialisti (soprattutto alti membri del clero) che si dedicavano a questo. Ma l’ecumenismo non era affatto diventato patrimonio generale della cultura del clero, e tanto meno del popolo russo. D’altra parte se i prelati russi venivano in contatto essenzialmente con il Vaticano, gli incaricati cattolici per l’ecumenismo avevano contatto essenzialmente con quegli specialisti ortodossi che avevano il medesimo incarico, ovvero con l’ambiente del patriarcato. Per quanto i rapporti fossero positivi – dovendo tutte le Chiese fare fronte a una situazione di persecuzione –, coinvolgevano un ambito assai ristretto di persone.
Dopo il 1990 la novità vera è che la Chiesa ortodossa russa si è aperta a una molteplicità di rapporti con la Chiesa cattolica sia in territorio russo sia all’estero, e ha avuto l’impatto non solo con il Vaticano ma con la Chiesa cattolica espressa dalle sue varie anime e dai suoi vari organismi (diocesi, ordini religiosi, attività pastorali…). È stato un incontro con una Chiesa viva da parte non più di un gruppo di specialisti, ma dell’insieme del clero e della popolazione ortodossa russa. Lo stesso si può dire per la Chiesa cattolica: non ha più solo relazioni con il Dipartimento per le relazioni esterne della Chiesa ortodossa russa incaricato per le relazioni ecumeniche, ma con una Chiesa che ha una gerarchia variegata e una popolazione percorsa da dinamiche culturali e religiose complesse.
Nasce dunque un incontro dalle caratteristiche del tutto nuove, per cui non ci si deve forse stupire se sono emersi problemi. Si tratta infatti di affrontare un’epoca nuova, a cui non si era sufficientemente preparati.
L’incontro è reso ulteriormente complesso dalla situazione sociale e culturale prevalente in Russia nell’epoca della transizione postcomunista: la società è fortemente secolarizzata e, spesso, con riferimenti valoriali assai scarsi, per cui non è inusuale che al suo interno emergano ricerche religiose assai individuali, che non necessariamente si riferiscono all’ortodossia. D’altra parte il nuovo clima di libertà ha permesso l’espressione di un ampio spettro di forme di pluralismo culturale e religioso. La percezione di una società secolarizzata ha spinto diverse comunità cristiane di matrice protestante a lanciarsi nell’evangelizzazione della Russia, trovando risposte proprio nell’assenza di radicamento religioso previo in gran parte della popolazione. L’aumento della presenza di organizzazioni cattoliche in Russia fa temere al patriarcato di Mosca che anche la Chiesa cattolica persegua analoghi fini missionari.
La Chiesa ortodossa si è dunque trovata improvvisamente a godere certamente di una piena libertà, ma anche a dovere affrontare le complesse sfide della modernità e postmodernità, che includono il pluralismo culturale e religioso e una maggiore individualizzazione nella scelta religiosa8.
Iosif Petrovyc, metropolita di Leningrado, principale portavoce dell’opposizione al metropolita Sergio, portata avanti dalla “Chiesa delle catacombe”

Iosif Petrovyc, metropolita di Leningrado, principale portavoce dell’opposizione al metropolita Sergio, portata avanti dalla “Chiesa delle catacombe”

A rendere complessi i rapporti tra le Chiese, si aggiunga il fatto che la mentalità ecumenica non è diffusa in Russia, anche se non si deve da questo dedurre un’opposizione di principio all’ecumenismo. Potremmo dire che l’opposizione di principio è propria solo di una minoranza, così come una decisa adesione all’ecumenismo è propria solo di una minoranza di clero e fedeli. La gran parte della Chiesa ortodossa russa è attestata su posizioni tradizionali, nel senso migliore del termine: per essa l’ecumenismo è una dimensione da capire e da chiarire nei suoi aspetti specifici9. L’ultimo decennio di rapporti conflittuali con la Chiesa cattolica in Russia potrebbe leggersi come il chiarimento in atto di che cosa significa “relazioni ecumeniche” vissute nel concreto. Credo che questo sia vero per entrambe le Chiese.
I punti più evidenti che hanno segnato in modo conflittuale questi ultimi anni sono noti: il viaggio del Papa in Ucraina senza l’accordo della Chiesa ortodossa ucraina-patriarcato di Mosca nel giugno 2001, soprattutto la trasformazione dei due vicariati apostolici in Russia in diocesi nel 2002, e, infine, l’erezione delle diocesi cattoliche in Kazakistan nel 2003.
Questa serie di eventi da un lato confermano la decisione del Vaticano di stabilire una giurisdizione diocesana ordinaria nello spazio postsovietico per sovvenire alla cura pastorale dei fedeli cattolici. Dall’altro lato sono interpretati dal patriarcato di Mosca come iniziative espansionistiche nel proprio territorio canonico. In particolare è stato fatto ripetutamente rilevare come queste iniziative siano state prese senza previa consultazione con il patriarcato, dunque hanno espresso un comportamento che contraddice il mutuo riconoscimento come “Chiese sorelle” tante volte ufficialmente ribadito.
Quest’ultima osservazione è di particolare interesse, perché esprime la visione ecumenica della Chiesa ortodossa russa: la denominazione di “Chiese sorelle” è infatti anche usata tra le Chiese della comunione ortodossa, tra cui non di rado scoppiano conflitti per questioni di giurisdizione (recentemente in Estonia, nella Repubblica Moldova, in Ucraina). Accusare la Chiesa cattolica di non comportarsi da “Chiesa sorella” significa riconoscerla come tale e dunque assumere una prospettiva ecumenica di fondo.
Il problema però è che tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa russa non vi è piena comunione, per cui la denominazione di “Chiesa sorella” non può avere lo stesso significato se applicato alle altre Chiese ortodosse o alla Chiesa cattolica. In particolare la mancanza di una piena comunione implica l’esistenza di giurisdizioni ecclesiali parallele sullo stesso territorio. Per questo la Chiesa cattolica istituisce diocesi in Russia per i propri fedeli, esattamente come la Chiesa ortodossa russa ha istituito proprie diocesi all’estero – all’esterno dei suoi confini tradizionali – per i propri fedeli.
Le autorità del patriarcato di Mosca sono consapevoli di questo, e quando invocano il principio delle “Chiese sorelle” lo fanno in riferimento all’atteggiamento con cui le decisioni sarebbero state prese dai responsabili cattolici, cioè senza previa informazione e consultazione della parte ortodossa.
È difficile dare una valutazione di questi eventi, che sfuggono all’analisi. Credo che si possa dire da un lato che certamente il dialogo è mancato “in corso d’opera”, dall’altro che le posizioni di entrambi gli interlocutori hanno corso il rischio di essere troppo rigide.
Se si rimane sul piano giurisdizionale non si riesce tuttavia a risolvere la questione, perché, restando a quel livello, tutte le Chiese hanno diritto di erigere proprie strutture pastorali laddove siano presenti, in modo più o meno consistente, propri fedeli.
Il patriarca Aleksij Simanskij presiede il Santo Sinodo nell’ottobre 1945. Dopo la guerra, Stalin adottò una politica religiosa più tollerante: venne ripristinata la struttura ecclesiastica e il Concilio del 1945 elesse patriarca Aleksij Simanskij

Il patriarca Aleksij Simanskij presiede il Santo Sinodo nell’ottobre 1945. Dopo la guerra, Stalin adottò una politica religiosa più tollerante: venne ripristinata la struttura ecclesiastica e il Concilio del 1945 elesse patriarca Aleksij Simanskij

Resta infine almeno un’altra dimensione importante, di tipo storico-culturale (dunque di “lunga durata”), che occorre prendere in conto per comprendere le difficoltà dei rapporti tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa in Russia. Si tratta della storica conflittualità tra russi e polacchi, che trova espressione nei rispettivi nazionalismi dei due popoli che identificano l’“altro” come il nemico e il diverso. Il fatto che la grande maggioranza del clero e dei fedeli cattolici in Russia sia polacca è un elemento che rende oggettivamente più difficili i rapporti, perché in molti casi innesca comportamenti e percezioni dell’altro radicate in questa atavica diffidenza e rivalità, che implica un atteggiamento di sfiducia in partenza, di non-dialogo, di sospetto10.
Tenendo conto anche di questo aspetto, che è lungi dal costituire una precondizione positiva al dialogo, assumono allora un’importanza determinante le modalità con cui le varie iniziative pastorali vengono realizzate. Non è un caso che il cardinale Kasper, durante la sua recentissima visita in Russia (febbraio 2004), abbia ribadito a più riprese la necessità di trarre conseguenze operative dall’assunto teologico di considerare la Chiesa ortodossa una “Chiesa sorella”. Il cardinale si è soffermato su questo punto di grande importanza e delicatezza sia in occasione della conferenza pubblica tenuta a Mosca presso il salone della Cattedrale cattolica – rivolta a un pubblico essenzialmente cattolico – sia nell’incontro privato avuto con il patriarca Alessio II. Il fatto che nella conferenza pubblica il cardinale Kasper abbia sottolineato che riconoscere la Chiesa ortodossa come “Chiesa sorella” implica astenersi da azioni di proselitismo, è un chiaro invito ai cattolici ad avere uno stile diverso nei rapporti con il popolo russo11. Questo stile diverso potrebbe come minimo manifestarsi nell’astensione da attività decisamente orientate all’evangelizzazione dirette ad ambiti di matrice ortodossa – rispetto ai quali occorre riconoscere il ruolo di responsabilità pastorale della Chiesa ortodossa russa. Uno stile più dichiaratamente ecumenico potrebbe però concretizzarsi nell’avviare opere condivise, almeno sul piano caritativo, ambito in cui le strutture cattoliche sono molto attive. Tali iniziative caritative potrebbero essere assai efficaci nel costruire ponti con l’ortodossia, se le istituzioni cattoliche agissero non in modo autonomo, ma cercando sinergie con le diocesi ortodosse. La tanto temuta presenza di congregazioni religiose (rilevate in dettaglio dal patriarcato di Mosca e pubblicate in un rapporto nell’estate del 2003 come prova del proselitismo) dovrebbe probabilmente avere una più ampia sensibilità in questo senso. D’altra parte la Chiesa ortodossa dovrebbe anche prendere coscienza che le attività caritative sono espressione e concretizzazione di una fede vissuta (questo è evidente nella tradizione cattolica), e non possono essere immediatamente interpretate come proselitismo.
Il presupposto perché si giunga a una distensione dei rapporti – dunque la grande opera da attuare – è tuttavia proprio l’interiorizzazione della categoria di “Chiesa sorella” da parte dei responsabili gerarchici, del clero e dei fedeli di entrambe le Chiese: la condizione fondamentale e irrinunciabile perché questo possa avvenire è ridare priorità al piano della carità, che solo ci fa riconoscere nell’altra Chiesa una “sorella” nella fede, e permette di fare discendere conseguenze concrete da tale riconoscimento, tante volte autorevolmente affermato dal magistero pontificio.
Proprio il fatto che nel corso degli incontri del cardinale Kasper con le supreme gerarchie del patriarcato di Mosca si sia concordato di costituire delle commissioni miste con la Chiesa cattolica, per affrontare e discutere insieme i problemi, è una chiara scelta di operare concretamente in una prospettiva improntata al dialogo e alla fraternità: non mancheranno problemi e punti di vista diversi, magari conflittuali, ma il metodo scelto è quello giusto, il metodo del dialogo, coerente con il mutuo riconoscimento come “Chiese sorelle”.
Il patriarca Aleksij con la delegazione del Concilio di Leopoli  che nel marzo 1946 sancì la soppressione della Chiesa unita in Ucraina

Il patriarca Aleksij con la delegazione del Concilio di Leopoli che nel marzo 1946 sancì la soppressione della Chiesa unita in Ucraina

Anche se non è chiaramente emerso dal resoconto degli incontri avuti dal cardinale Kasper, è indubbio che un altro tema nodale che rende difficili i rapporti ecumenici tra Chiesa cattolica e patriarcato di Mosca è la questione della Chiesa greco-cattolica ucraina. La questione ucraina è un nodo di grande complessità in primo luogo all’interno della sola ortodossia. Negli anni Novanta infatti l’ortodossia ucraina si è trovata suddivisa in tre giurisdizioni, di cui una – l’unica canonica – che è parte integrante del patriarcato di Mosca, e le altre due che mirano invece all’autocefalia della Chiesa ortodossa ucraina12. Queste due ultime Chiese hanno un forte spirito nazionalista ucraino con toni antirussi, in buona parte condiviso dalla Chiesa greco-cattolica. In questa situazione già complessa si innesta dunque la questione specifica della Chiesa greco-cattolica, che dopo essere stata soppressa da Stalin, è riemersa dalla clandestinità con la fine dell’U­nione Sovietica e ha ottenuto riconoscimento giuridico nel 1991 dal nuovo Stato ucraino indipendente. Il riconoscimento ha comportato la riorganizzazione delle strutture pastorali della Chiesa, e ha aperto un contenzioso sulle proprietà dei luoghi di culto (già greco-cattolici, poi passati alla Chiesa ortodossa, quindi rivendicati – dopo il 1991 – dai greco-cattolici). I nuovi passaggi di proprietà sono avvenuti sul piano locale in forma non programmata, e il patriarcato di Mosca lamenta che questa riappropriazione abbia causato la destrutturazione di diverse sue diocesi nell’Ucraina occidentale. Nel 1999 si era deciso di stabilire una Commissione mista cattolico-ortodossa per dirimere le questioni inerenti le proprietà dei luoghi di culto e il loro uso, ma senza giungere concretamente alla sua formazione.
Su questa situazione, che ha ormai una storia decennale, si innestano avvenimenti più recenti, letti con timore dal patriarcato di Mosca. L’ultimo di questi è il recente trasferimento (dicembre 2003) della sede primaziale dell’arcivescovo maggiore della Chiesa greco-cattolica, cardinale Lubomyr Husar, dalla sede storica di Leopoli a Kiev, capitale dell’Ucraina. Il trasferimento ha sollevato timori e polemiche da parte ortodossa. Kiev è infatti la culla storica dell’ortodossia russa, perché qui nel X secolo si compì l’evangelizzazione dell’antica Rus’ – evento culminato nel battesimo del principe Vladimir di Kiev nel 988 – e il popolo russo ricevette la sua identità cristiana. Per secoli Kiev fu sede del primate della Chiesa russa, fino al suo trasferimento a Mosca nel secolo XVI. Circostanze storiche avevano infatti spostato più a settentrione il baricentro politico del popolo russo, appunto nel principato di Mosca, da cui scaturirà l’impero russo con Mosca come capitale. Sebbene anche la sede primaziale della Chiesa russa avesse seguito lo spostamento del baricentro politico, Kiev rimane città carica di retaggio simbolico.
Il recente trasferimento a Kiev dell’arcivescovado maggiore greco-cattolico è stato quindi interpretato, a torto o a ragione, come l’ultimo atto della Chiesa greco-cattolica ucraina, prima di proclamare il proprio patriarcato. È infatti noto come da tempo questa Chiesa chieda il riconoscimento del rango patriarcale. Quest’eventualità è tuttavia fortemente avversata non solo dal patriarcato di Mosca, ma da tutte le Chiese ortodosse13. A dimostrazione della spinosità della questione, è stato lo stesso patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I a scrivere una lettera personale al Papa nel gennaio del 2004, in cui ribadisce l’assoluta inopportunità di istituire un patriarcato greco-cattolico a Kiev14. Tale istituzione porrebbe infatti la Chiesa greco-cattolica sullo stesso piano canonico del patriarcato di Mosca, rispetto al quale rappresenterebbe la porzione cattolica dell’antica Rus’. È chiaro che questa evoluzione darebbe nuovo combustibile alla questione dell’uniatismo, che già costituisce il punto principale di scontro tra Chiese ortodosse e Chiesa cattolica. Proprio sulla questione delle Chiese greco-cattoliche si è arenato il lavoro della Commissione internazionale congiunta cattolico-ortodossa di dialogo teologico nell’incontro di Baltimora (luglio 2000). L’erezione di un patriarcato in Ucraina rischierebbe di dare un duro colpo ai rapporti con l’intera ortodossia. In questo senso il nodo ucraino, che da un decennio sta rendendo assai tesi e complessi i rapporti tra Chiesa cattolica e patriarcato di Mosca – anche per la presenza delle due Chiese ortodosse scismatiche sul territorio ucraino, una delle quali si è proclamata patriarcato ortodosso di Kiev –, sta assumendo un potenziale dirompente a livello dell’intera ortodossia.
Giovanni XXIII con Vitalij Borovoj e Vladimir Kotljarov, due osservatori della Chiesa ortodossa  russa che parteciparono al Concilio Vaticano II

Giovanni XXIII con Vitalij Borovoj e Vladimir Kotljarov, due osservatori della Chiesa ortodossa russa che parteciparono al Concilio Vaticano II

A questo proposito si può correttamente ipotizzare che il riconoscimento delle Chiese ortodosse come “Chiese sorelle” potrebbe comportare la rinuncia a rivendicare il titolo patriarcale da parte della Chiesa greco-cattolica. Si tratta di un titolo che avrebbe un senso essenzialmente onorifico per essa, ma carico di conseguenze conflittuali nei confronti delle Chiese ortodosse. Se veramente la Chiesa greco-cattolica ucraina intende svolgere un ruolo di mediazione ecumenica, come spesso affermano i suoi autorevoli rappresentanti, la rinuncia a tale richiesta sembra necessaria15. D’altra parte la misura della carità che le Chiese devono vivere nei reciproci rapporti non è data da loro stesse e dalle proprie prospettive, ma deve essere conforme alla stessa carità di Cristo che «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato…» (Fil 2, 8ss). La vera carità domanda anche la pratica dell’umiltà in vista del bene maggiore, ed è questa in definitiva la prospettiva di un serio cammino ecumenico, nel quale tutte le Chiese devono tendere a conformarsi sempre di più a Cristo, per ritrovare in Lui e da Lui l’unità perduta. Una traduzione di queste prospettive in scelte concrete, a livello ecclesiale locale e internazionale, costituisce l’unico orizzonte possibile per un ecumenismo sempre più vero ed efficace.

(Sullo stesso tema Andrea Pacini ha tenuto il 20 maggio 2004 una conferenza alla Biblioteca Ambrosiana, a Milano, durante il convegno “Cattolicesimo e Chiesa ortodossa russa. Passato e presente” condotto da monsignor Gianfranco Ravasi, prefetto della Biblioteca Ambrosiana)



NOTE

1 Cfr. voce “Mohileff” in The Catholic Encyclopedia, volume X, 1911. Alle diocesi sopra elencate si aggiunse nel 1923 l’erezione della diocesi di Vladivostok. La metropolia di Mogilev ha avuto nella sua storia ventisette arcivescovi, di cui l’ultimo, monsignor Jan Cepliak, fu condannato a morte ed espulso nel 1923, nel corso dell’offensiva di Lenin contro le Chiese. La diocesi di Mogilev fu eretta dall’imperatrice Caterina II nel 1772, poi riconosciuta da papa Pio VI. La diocesi fu eretta in metropolia nel 1782 dall’imperatrice, e riconosciuta dal Papa nel 1783 con la bolla Onerosa pastoralis officii.
2 A. Nivière, Les Orthodoxes russes, Maredsous 1993, pp. 48-50.
3Op. cit., p. 50.
4 Cfr. M. Skarovskij, La croce e il potere. La Chiesa russa sotto Stalin e Chruscev, Segrate 2003.
5 La partecipazione della Chiesa ortodossa russa al Consiglio ecumenico delle Chiese rese possibile alla Chiesa di uscire dall’isolamento in cui il regime sovietico la deteneva, e fu dunque un fattore positivo determinante per la Chiesa, nonostante tale partecipazione fosse strumentalizzata dal regime per riceverne un supporto nelle relazioni internazionali: cfr. I. Pavlov, Lo stato attuale e le prospettive della Chiesa ortodossa in Russia, in Aa.Vv., La nuova Russia. Dibattito culturale e modello di società in costruzione, Torino 1999, pp. 265-286, qui pp. 274-275.
6 Per una presentazione dettagliata della nascita, fioritura e repressione del dissenso ortodosso, cfr J. Ellis, La Chiesa ortodossa russa, Bologna 1989, pp. 491-747.
7 J. Ellis, The Russian Orthodox Church: Triumphalism and Defensivness, London 1996, pp. 157-190.
8 Cfr. A. Roccucci, “La chiesa ortodossa russa nel XX secolo”, in A. Pacini (a cura di), L’Ortodossia nella Nuova Europa. Dinamiche storiche e prospettive, Torino 2003, pp. 237-283; A. Krindac, “La Russia nella sua dimensione religiosa”, in V. Kolossov, La collocazione geopolitica della Russia. Rappresentazioni e realtà, Torino 2001, pp. 185-226.
9 Il movimento ecumenico si è del resto sviluppato all’interno delle Chiese cristiane nel corso dei primi sei decenni del secolo XX, proprio durante il periodo sovietico che è stato per la Chiesa russa un’epoca di difficile sopravvivenza. Non stupisce quindi che in Russia l’ecumenismo sia rimasto limitato, come si diceva, a una dimensione elitaria, e non si sia sviluppato più diffusamente sul piano della teologia, della spiritualità, del comune vissuto ecclesiale. D’altra parte tradizionalmente il cattolico veniva e viene identificato come il “non ortodosso”, dunque non come un vero credente. Questa percezione è diffusa ancora oggi, dato il ritardo teologico in campo ecumenico, dovuto alle circostanze storiche del XX secolo.
10 Sulle precomprensioni ereditate dalla storia passata che incidono negativamente sui rapporti tra cattolici e ortodossi in Russia, cfr. M. Sevèenko, La chiesa cattolica vista dalla Russia, in Limes, giugno 2002.
11 Il discorso tenuto dal cardinale W. Kasper a Mosca nella Cattedrale cattolica il 18 febbraio 2004 è pubblicato in Il Regno-Documenti, 5, 1 marzo 2004, pp. 134-139.
12 A. Pacini, Le Chiese ortodosse, Torino 2000, pp. 88-90; A. Kolodnyj, “Lo stato odierno della cristianità ortodossa dell’Ucraina come risultato del suo sviluppo storico”, in G. De Rosa e F. Lomastro, L’età di Kiev e la sua eredità nell’incontro con l’Occidente, Roma 2003, pp. 249-262.
13 Le reazioni di contrarietà espresse dalle diverse Chiese ortodosse sono pubblicate in Il Regno-Documenti, 5, 1 marzo 2004, pp. 131-134.
14 Op. cit., pp. 129-131.
15 Lo stesso cardinale Kasper in una sua intervista recente si situa con chiarezza in questa linea: cfr. Ritorno a Mosca (intervista con il cardinale Walter Kasper), in Il Regno, 4, 15 febbraio 2004, pp. 83-86.


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