L’attentato al Papa
La sentenza del 1998 del giudice Rosario Priore, pubblicata da una casa editrice di titoli scandalistici, lascia aperti molti interrogativi. Ma non era la stessa inchiesta condotta da Priore a doverli chiarire?
di Davide Malacaria
Rosario Priore, L’attentato al Papa, Kaos edizioni, Milano 2002, 367 pp., euro 20,00
Nella sentenza stilata da Priore sono riportate le varie “rivelazioni” di Agca: dalla chiamata in correità di Sergej Antonov e di altri due cittadini bulgari, a quelle successive, nelle quali lo stesso asseriva che tali indicazioni gli erano state suggerite da uomini dei servizi segreti occidentali, i quali gli avrebbero anche fornito nomi e descrizioni dei bulgari e, addirittura, la descrizione dettagliata, ma errata, della casa dello stesso Antonov. Rivelazioni così contraddittorie e infondate da spingere l’inquirente a destituire l’attentatore pentito di ogni credibilità. Difficile dargli torto. Basti pensare che, nel settembre 1995, interrogato dal pubblico ministero, Agca arrivava a dire: «Io credo di essere Gesù Cristo, in quanto verbo incarnato e reincarnato; sono la realizzazione del Messia finale nel senso che sono stato chiamato per la realizzazione del terzo segreto di Fatima». Farneticazioni che però, curiosamente, anticipavano quanto sarebbe stato rivelato nel 2000, con il disvelamento del segreto stesso. Ma, a parte le notazioni di colore, se si scorre la sentenza, è agevole notare come anche l’inchiesta seguita da Priore s’inerpichi a lungo sugli aspri sentieri della Bulgaria Connection. E come, per converso, s’imbatta in documenti e testimonianze, puntualmente riportati in sentenza, che tenderebbero a indicare tale pista come costruita ad hoc ad opera dei servizi segreti dell’Occidente. Singolari, tra l’altro, le vicissitudini di un rapporto che la Cia stila sull’attentato agli inizi degli anni Ottanta, opera dell’allora vicecapo della direzione Intelligence del servizio, William Casey, nel quale si addossa la responsabilità del crimine ai servizi segreti dell’Est. Un rapporto che la stessa Cia, successivamente, arriva a mettere all’indice. Una commissione istituita per vagliare i casi di “politicizzazione” della gestione Casey, dopo un’attenta analisi, redige un rapporto (“rapporto Cowey”) che spiega come in quel documento, «nei casi di mancanza di prove evidenti, i documenti furono falsati, le deduzioni assunsero il ruolo delle prove e il testo divenne sempre più finalizzato»: finalizzato ovviamente ad inguaiare i servizi segreti dell’Est.
Giovanni Paolo II cade colpito da Alì Agca il 13 maggio 1981
In calce alla sentenza si lamenta un difetto di collaborazione da parte del Vaticano, ma si sottolinea anche come questa sia stata resa difficoltosa dall’assenza di un trattato di assistenza giudiziaria tra i due Stati. Diverso, si legge ancora in sentenza, il caso di monsignor Paul Marcinkus, che allora guidava lo Ior, il quale, pur avendo perduto le prerogative di cittadino vaticano, non ha potuto dare il suo contributo all’inchiesta in quanto «per tempo ritornato in America».
Comunque l’impressione che desta la lettura della sentenza è quella di trovarsi di fronte a un documento in cui gli elementi raccolti vengono semplicemente esposti, dando luogo a un susseguirsi di fatti e testimonianze spesso in contraddizione tra loro. Tra l’altro, nelle conclusioni finali, si prende atto che il perseguimento della cosiddetta pista bulgara ha comportato una tale profusione di tempo e di energie che ha reso impossibile l’approfondimento di altre strade. Di certo, però, il tempo (13 anni), non è mancato. Resta il mistero del perché la sentenza sia stata pubblicata dai tipi della Kaos. Basta sfogliare l’elenco delle pubblicazioni in coda al volume (un’antologia di titoli scandalistici con una collana esclusivamente dedicata al Vaticano), per avere un’idea della linea editoriale perseguita dalla casa editrice. Ulteriore elemento di perplessità in una vicenda in cui resta ancora molto da chiarire.