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LIBRI
tratto dal n. 06 - 2004

L’attentato al Papa


La sentenza del 1998 del giudice Rosario Priore, pubblicata da una casa editrice di titoli scandalistici, lascia aperti molti interrogativi. Ma non era la stessa inchiesta condotta da Priore a doverli chiarire?


di Davide Malacaria


Rosario Priore, <I>L’attentato al Papa,</I> Kaos edizioni, Milano 2002, 367 pp., euro 20,00

Rosario Priore, L’attentato al Papa, Kaos edizioni, Milano 2002, 367 pp., euro 20,00

Recenti pubblicazioni hanno riportato l’attenzione dei media sulla vicenda dell’attentato al Papa, avvenuto in quel funesto 13 maggio 1981. Una rinnovata attenzione che ci porta a rileggere l’ultimo documento giudiziario che ha fatto il punto sulla vicenda, ovvero la sentenza redatta dal giudice Rosario Priore nel lontano 1998, pubblicata integralmente in un volume edito, circa due anni fa, per i tipi della Kaos. Un’istruttoria nata nel 1985, mentre era ancora in corso il processo che vedeva alla sbarra, oltre all’attentatore, alcuni funzionari della compagnia aerea Balkan Air, in un procedimento che doveva far luce sulla cosiddetta pista bulgara e che terminava nel 1986 con l’assoluzione degli asseriti complici dell’attentatore. Proprio durante quel processo, l’attentatore del Papa, Alì Agca, fa altri nomi e nuove rivelazioni, che aprono il nuovo filone d’indagine affidato al giudice Priore.
Nella sentenza stilata da Priore sono riportate le varie “rivelazioni” di Agca: dalla chiamata in correità di Sergej Antonov e di altri due cittadini bulgari, a quelle successive, nelle quali lo stesso asseriva che tali indicazioni gli erano state suggerite da uomini dei servizi segreti occidentali, i quali gli avrebbero anche fornito nomi e descrizioni dei bulgari e, addirittura, la descrizione dettagliata, ma errata, della casa dello stesso Antonov. Rivelazioni così contraddittorie e infondate da spingere l’inquirente a destituire l’attentatore pentito di ogni credibilità. Difficile dargli torto. Basti pensare che, nel settembre 1995, interrogato dal pubblico ministero, Agca arrivava a dire: «Io credo di essere Gesù Cristo, in quanto verbo incarnato e reincarnato; sono la realizzazione del Messia finale nel senso che sono stato chiamato per la realizzazione del terzo segreto di Fatima». Farneticazioni che però, curiosamente, anticipavano quanto sarebbe stato rivelato nel 2000, con il disvelamento del segreto stesso. Ma, a parte le notazioni di colore, se si scorre la sentenza, è agevole notare come anche l’inchiesta seguita da Priore s’inerpichi a lungo sugli aspri sentieri della Bulgaria Connection. E come, per converso, s’imbatta in documenti e testimonianze, puntualmente riportati in sentenza, che tenderebbero a indicare tale pista come costruita ad hoc ad opera dei servizi segreti dell’Occidente. Singolari, tra l’altro, le vicissitudini di un rapporto che la Cia stila sull’attentato agli inizi degli anni Ottanta, opera dell’allora vicecapo della direzione Intelligence del servizio, William Casey, nel quale si addossa la responsabilità del crimine ai servizi segreti dell’Est. Un rapporto che la stessa Cia, successivamente, arriva a mettere all’indice. Una commissione istituita per vagliare i casi di “politicizzazione” della gestione Casey, dopo un’attenta analisi, redige un rapporto (“rapporto Cowey”) che spiega come in quel documento, «nei casi di mancanza di prove evidenti, i documenti furono falsati, le deduzioni assunsero il ruolo delle prove e il testo divenne sempre più finalizzato»: finalizzato ovviamente ad inguaiare i servizi segreti dell’Est.
Giovanni Paolo II cade colpito da Alì Agca il 13 maggio 1981

Giovanni Paolo II cade colpito da Alì Agca il 13 maggio 1981

La lunga inchiesta di Priore ha cercato di far luce anche sulle complicità di cui avrebbe goduto Alì Agca all’interno dei Lupi grigi, il movimento di destra nel quale militava. Anche qui, però, gli inquirenti non sono riusciti a dissipare le tante ombre. Ombre che non venivano dissipate neanche dalla tardiva estradizione di Oral Celik, esponente di rilievo dei Lupi grigi, detenuto in Francia sotto falso nome. Un’estradizione che però portava gli inquirenti a battere una nuova pista che li conduceva, stavolta, all’interno delle mura vaticane. Così la sentenza: «Le dichiarazioni di Oral Celik, e le indagini su un’immagine fotografica di Agca, ne hanno aperta un’altra [pista ndr], quella cosiddetta interna, cioè risalente ad ambienti vaticani […]. Pista che si collega ad altra esplorata in altre inchieste, come quelle sugli asseriti riciclaggi di denaro sporco da parte dell’Istituto per le opere di religione, pista di difficilissimo percorso, che infatti, nonostante gli impegni degli inquirenti, non ha mai dato risultati soddisfacenti». A parte i deliri di Oral Celik – il quale affermava che ad armare la mano di Agca sarebbero stati due cardinali e vaneggiava su presunti pagamenti tramite un conto corrente dello Ior – ovviamente destituiti da ogni fondamento, questo nuovo filone d’inchiesta portava alla luce un particolare singolare, sottovalutato nel corso delle prime indagini, e tornato alla ribalta solo a metà degli anni Novanta, a seguito di indicazioni fornite da nuovi testi. Si tratta di una fotografia, scattata il 10 maggio 1981, tre giorni prima dell’attentato, nel corso di una visita del Santo Padre presso la parrocchia romana di San Tommaso d’Aquino. Nella foto, secondo le conclusioni degli inquirenti, è ritratto un gruppo di fedeli presenti alla cerimonia, tra i quali spicca la figura di Alì Agca. La foto era stata scattata da uno dei parrocchiani, tal Daniele Petrocelli, che, interrogato per la prima volta nel 1994, raccontava di aver notato subito la somiglianza tra l’uomo della foto e Alì Agca, il cui volto, dopo l’attentato, aveva invaso i giornali e la televisione. Così il Petrocelli agli inquirenti: «La sera stessa, o il giorno dopo, si presentò a casa mia un poliziotto che si è qualificato della Digos, il quale ci ha chiesto in consegna la foto in cui appariva la persona somigliante all’attentatore… Ricordo che il poliziotto al quale consegnai la foto mi disse di non parlare a nessuno del fatto. Non fu redatto verbale della consegna della foto». Una testimonianza confermata anche dalla moglie del Petrocelli. Il particolare che suscitava vieppiù l’interesse degli inquirenti era il fatto che la foto immortalava Agca in un settore riservato, al quale si poteva accedere solo grazie agli inviti diramati dal Vaticano, in particolare dalla Prefettura della Casa pontificia, di cui allora era reggente monsignor Dino Monduzzi. In questo ufficio lavoravano due soli dipendenti, uno dei quali era Ercole Orlandi, padre di Emanuela, la ragazza misteriosamente scomparsa nel 1983. Questi, chiamato a testimoniare sulla vicenda, nel 1995, spiegava agli inquirenti che gli inviti alle cerimonie pontificie potevano essere ritirati a mano o recapitati a opera del suo ufficio, ma che non ricordava, nonostante la sua buona memoria, di aver spedito uno di tali inviti a nome di Alì Agca. Insomma, nonostante la collaborazione dell’Orlandi, l’inchiesta non è riuscita ad approfondire il mistero di questa foto. Né è stato possibile accertare se il turco si fosse intrufolato in quel settore clandestinamente, ovvero se fosse riuscito a carpire un invito sotto falso nome, perché ha sempre negato la sua presenza alla cerimonia.
In calce alla sentenza si lamenta un difetto di collaborazione da parte del Vaticano, ma si sottolinea anche come questa sia stata resa difficoltosa dall’assenza di un trattato di assistenza giudiziaria tra i due Stati. Diverso, si legge ancora in sentenza, il caso di monsignor Paul Marcinkus, che allora guidava lo Ior, il quale, pur avendo perduto le prerogative di cittadino vaticano, non ha potuto dare il suo contributo all’inchiesta in quanto «per tempo ritornato in America».
Comunque l’impressione che desta la lettura della sentenza è quella di trovarsi di fronte a un documento in cui gli elementi raccolti vengono semplicemente esposti, dando luogo a un susseguirsi di fatti e testimonianze spesso in contraddizione tra loro. Tra l’altro, nelle conclusioni finali, si prende atto che il perseguimento della cosiddetta pista bulgara ha comportato una tale profusione di tempo e di energie che ha reso impossibile l’approfondimento di altre strade. Di certo, però, il tempo (13 anni), non è mancato. Resta il mistero del perché la sentenza sia stata pubblicata dai tipi della Kaos. Basta sfogliare l’elenco delle pubblicazioni in coda al volume (un’antologia di titoli scandalistici con una collana esclusivamente dedicata al Vaticano), per avere un’idea della linea editoriale perseguita dalla casa editrice. Ulteriore elemento di perplessità in una vicenda in cui resta ancora molto da chiarire.


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